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 2025  dicembre 14 Domenica calendario

Intervista a Vasco Rossi

Ci si può entrare in questa storia qua da un urlo, non da un sipario che si apre. C’era una volta, agli inizi degli anni Sessanta, un ragazzo timido che veniva bullizzato dai più grandi e, poi, da quelli di città. Si chiamava Vasco. Allora dire «vengo da Zocca» significava vedersi cucire addosso un’etichetta di serie B: il “campagnolo”, quello che, come si diceva allora, «è venuto giù con la piena». Oggi che il piccolo Vasco è diventato così grande da essere la stella più luminosa del firmamento rock italiano, con milioni di persone che vanno ai suoi concerti e si riconoscono nelle sue parole, non ha dimenticato il passato e ha deciso di fare qualcosa per quelli come lui. Non la solita, ma una cosa davvero stupefacente: creare un corso di teatro sperimentale a Zocca, proprio quel piccolo paese da cui veniva e in cui ancora trascorre l’estate e le feste natalizie con la famiglia. Un tipo di teatro pensato per insegnare ai ragazzi a fare il passo più difficile, oggi ancora più di ieri: uscire dal proprio bozzolo. Non è autocelebrazione, non è nostalgia. È un gesto preciso, quasi politico: restituire a un paese di montagna quello che veniva negato a un ragazzo troppo piccolo, troppo fuori posto, troppo diverso dagli altri. Lo si escludeva. E così, prima che ci fossero le canzoni, prima della radio, prima del rock, è stato il teatro che lo ha salvato. Teatro come liberazione, non come rappresentazione, in una Bologna che si apriva come una finestra su un mondo nuovo.
A gennaio 2026 parte a Zocca un corso di teatro sperimentale al Teatro comunale intitolato a te. Come è nata quest’idea?
«È una cosa che avevo in testa da tempo, perché anch’io quando ero giovane ho fatto teatro e pensavo che fosse una cosa importante. Volevo sentire lo Stabile di Bologna, poi la vicesindaca di Zocca, Susanna Rossi, ha detto: “Ci provo io”. Ha trovato un attore di Modena, Andrea Ferrari, che ha mandato un progetto ed era esattamente quello che volevo io: dare la possibilità alla gente di incontrarsi, non tanto per imparare a recitare o diventare attore. Quello che facciamo è più bello e nasce da un’esperienza che è stata molto importante per me».
Cosa facevate esattamente?
«Prima di tutto degli esercizi di respirazione. Mi ricordo che erano importanti per avere la voce, per poter parlare bene. Ho cominciato a imparare a respirare in modo da parlare con il diaframma, non di gola ma di petto, con questi esercizi di respirazione profonda. Mi ha aiutato a essere più potente “dentro”, a conoscere di più me stesso, a imparare a capire le mie fragilità. Imparare che potevo esprimerle senza paura è stata una delle cose più importanti per me: è quello che poi è diventato il mio modo di scrivere le canzoni. Infatti, ho cominciato a scrivere delle canzoni davvero mie proprio in quel periodo lì».
Come è nato il vostro gruppo di teatro sperimentale?
«A scuola c’era la recita di Natale, che si faceva tutti gli anni. Una volta la professoressa dice: “Guardate, io sono stanca di fare queste cose, stavolta si è presentato un ragazzo che potrebbe organizzarlo e verrà a parlarvi”. Arriva così questo Alvarez e ci fa: “Bene, chi vuole partecipare quest’anno al teatro venga a casa mia domani pomeriggio”. Andiamo tutti, quelli che facevano teatro già prima, ci mettiamo nel salone e Alvarez va dal primo che vede e gli dice: “Urla!”. Quello lo guarda come un matto e allora lui gli fa: “Te ne puoi andare”, poi va dal secondo e così via, finché arriva da me. Io a quel punto penso proprio di scappare via... e invece, senza rendermene conto, urlo».
Quell’urlo è stato la svolta?
«Fondamentale. Ho urlato più forte che potevo e sono rimasti tutti a bocca aperta. Poi abbiamo cominciato a incontrarci nella sua casa e l’anno dopo presso un’altra sede nel paese. Prima inventavamo le cose da dire, i testi. Il primo spettacolo eravamo tutti al buio: uno accendeva la pila e la puntava sull’altro che faceva il suo monologo. Parte uno: “Che fai tu Giuda Iscariota che pendi dall’albero? Sei vivo? Il tuo favoloso sogno di ascesa, ti rende più umano del più umano di noi”. Erano gli anni Settanta: c’era tutto un mondo che si apriva davanti a noi…».
Ricordi ancora un tuo testo?
«Sì, l’ho sempre tenuto in mente. Avevo scritto: “Mi sono fatto un bozzolo della mia solitudine amara, un bozzolo d’oro e di cristallo. Per starci bene. E di liquido fetale mi circondo … galleggio… e respiro delle mie branchie diventate di amarezza folle e sublime”. La cosa incredibile è che dopo quarant’anni e più io mi sono sentito proprio così. Dopo tutto quello che ho fatto nei primi anni della mia storia, mi sono costruito davvero un bozzolo d’oro e di cristallo, per starci bene: la cosiddetta gabbia dorata: era come se l’avessi previsto, perché al tempo in cui l’ho scritto non c’era motivo».
Un visionario.
«Non so. Molte delle canzoni che ho composto le ho capite molto tempo dopo. Quando si scrive si è in viaggio in un mondo diverso dalla razionalità, per cui vengono fuori delle cose particolari. Ho quasi sempre scritto pensieri che dopo si sono avverati. Gli artisti forse servono proprio a questo: hai un sacco di sensibilità, che a volte dà anche molto fastidio, per cui senti tutto quello che sta intorno a te, in positivo o in negativo, senti tutte queste sensazioni fortissime. Per tornare al teatro: fu aprire una finestra su un mondo sconosciuto».
Venire da un piccolo paese come Zocca era difficile o ti ha aiutato?
«Io da piccolo ero stato bullizzato dal punto di vista fisico, come succedeva a tutti quelli più piccoli per taglia e per età, perché io avevo fatto la primina. E poi anche dal punto di vista psicologico quando sono andato a studiare a Modena, che per me era una città perché io venivo dai monti. E negli anni Sessanta, quando dicevi che venivi da Zocca, la gente ti guardava male, ci si vergognava quasi. Era una cosa che non si diceva volentieri, perché ti sentivi come se fossi di serie B».
Cos’è successo?
«Andavo al Collegio dei Salesiani e lì mi sono chiuso completamente, proprio come in un bozzolo: non ho mai comunicato con nessuno per tutto il tempo o quasi. A quei tempi nei collegi c’erano orari precisi per tutto, era molto rigido. Alla fine sono stato proprio buttato fuori. Avevo solo due amici, uno era anche lui di Zocca e avevamo combinato un guaio: compravamo quelle riviste porno che si trovavano ai tempi e poi le attaccavamo come manifesti sui muri del collegio, in alto, nei posti più visibili con la scritta: “Kazzik colpisce ancora”. Fecero un’ispezione e trovarono uno scritto nel foglio del mio amico Moreno Diamanti dove c’era anche la mia calligrafia. Lui fu cacciato immediatamente: era tutto contento. Il giorno dopo dissero anche a me: “Devi andare a prendere il materasso perché ti hanno buttato fuori anche te”. Pensa che allora i materassi ce li dovevamo portare noi da casa!».
A quel punto andasti a Bologna.
«Sì, perché lì stava mia cugina Graziella con i nonni. Un posto piccolissimo, ma per me è stata la libertà finalmente. Lì ho fatto la seconda e terza ragioneria finché sono andato ad abitare con il mio amico Gherardo. Intanto ho cominciato a leggere i testi del teatro dell’assurdo: Ionesco con La cantatrice calva, cose così. Letture che mi hanno letteralmente aperto la mente. Ho scoperto “Dio e lo Stato” di Bakunin e l’anarchismo. Eravamo degli anarchici convinti, ma non quelli delle bombe, non i terroristi. Per noi l’anarchia voleva dire una cosa completamente diversa. Significava cercare di trovare dentro te stesso la forza, la possibilità e la volontà di poterti autodeterminare. Era l’autocontrollo necessario per affrontare la vita senza bisogno di autorità esterne».
Quanti anni avevate?
«Mah, direi dai 16 ai 18, 19».
Ma tu hai fatto il militare o no?
«È una storia complicata. Io a 18 anni, quando feci i “tre giorni”, fui preso nei paracadutisti perché volevo vedere se ero davvero in grado di buttarmi giù da un aereo, se avevo davvero l’autocontrollo necessario. Avevo 18 anni e volevo testare me stesso. Questa era l’idea: verificare se ero capace di superare la paura. Poi invece ho rimandato perché mi ero iscritto all’università. Dopo qualche anno, quando mi hanno richiamato per fare il servizio vero, stava già partendo la mia storia musicale. Avevo fatto il primo disco, ero diventato il deejay di un locale importante. Dire che avevo qualche problema fisico era un po’ difficile da sostenere».
Alla fine quindi non ci sei andato?
«Diciamo che l’ho fatto per un periodo “breve”. Ma questa è una storia che ti racconto la prossima volta».
A quell’epoca facevate anche le performance come “Indiani metropolitani”.
«Esatto, andavamo alle manifestazioni con segni diversi, nostri. Non ci conoscevamo bene, eravamo cinque o sei, però avevamo legami con i veterani del Teatro Evento di Bologna, che è stato un vero e famoso teatro d’avanguardia. Facevamo azioni in strada: ci aggrappavamo alle inferriate di via Santo Stefano, una delle più eleganti di Bologna, in posizioni molto strane, oppure ci si attaccava al muro in modo innaturale, stando fermi e fissi come statue viventi. Passava la gente, guardava stupita e rimanevano tutti allibiti. Poi cominciavamo a interagire con discorsi che avevano un senso per noi ma erano assurdi per gli altri. Molti scuotevano la testa ma c’era anche chi si fermava a guardare».
Non era qualcosa che di solito fa uno studente di ragioneria...
«Infatti dopo due anni di queste performance nasce il Dams a Bologna. Questo Alvarez aveva dei rapporti, delle conoscenze in quell’ambiente, per cui eravamo diventati praticamente il gruppo di riferimento che già conosceva i meccanismi della respirazione, delle tecniche corporee. Eravamo quelli più preparati e motivati. Non avevamo il mito dei divi, delle star, ma quello del Living Theatre: il teatro vero per noi era quello fatto in mezzo alla gente, non sul palco separato dal pubblico. Io scrivevo molto e mi divertivo tantissimo. Insomma, eravamo diventati il gruppo base del Dams che iniziava ad accogliere i nuovi iscritti. A quel punto ci dissero che, se avessimo voluto, avremmo potuto essere iscritti al Dams automaticamente senza dover finire ragioneria. Io ero in quarta e per me era una cosa straordinaria, incredibile. Vado a casa da mio padre, tutto eccitato: “Posso iscrivermi direttamente all’università senza fare la quinta!”. E lui, naturalmente: “Cos’è il Dams? No, neanche per sogno. Prima finisci e prendi il diploma di ragioniere. Poi si vedrà”. È stato un altro momento della mia vita nel quale mi sono sentito soffocato, in cui mi hanno tarpato le ali proprio quando volavo alto (ride)».
Però suonavi già la chitarra, se non sbaglio.
«Sì, avevo già la chitarra e suonavo, sempre le canzoni degli altri naturalmente: Battisti, De André, De Gregori, Guccini. Il grande Guccini. Per me è stato un mito assoluto, uno dei più grandi miti. Ricordo che una volta, quando avevamo la nostra radio libera, si chiamava Punto Radio, una delle prime nate in Italia, andai a intervistarlo a casa sua: fu una delle interviste importanti che abbiamo fatto. Per me le sue canzoni sono straordinarie. La locomotiva è un capolavoro assoluto, una delle canzoni più belle mai scritte in Italia. Però quando sento dire da Jovanotti che per lui ha lo stesso valore culturale di Gloria di Umberto Tozzi... Beh, capisco di più il significato delle canzoni di Jovanotti (ride)».
L’incontro più importante però è stato con Fabrizio De André.
«Fabrizio è stato l’unico grande artista che poi ho conosciuto davvero in modo profondo. Nei primi anni Ottanta mi contattò lui direttamente, voleva venire a trovarmi e conoscermi di persona. Venne giù con Dori, la sua compagna, e io ho conosciuto De André che era venuto a casa mia! Ero allibito, perché secondo me era un incontro della madonna, qualcosa di sacro... Ci siamo frequentati per un periodo bellissimo, sono andato a casa sua tante volte. Per me è stato sempre un punto di riferimento assoluto, anche oggi io scrivo pensando sempre a lui. Sento che è il mio Nobel personale. Quando mi ha riconosciuto come artista ero così intimidito che stavo letteralmente per inginocchiarmi davanti a lui, invece mi ha fatto un cenno, come a dire: “Ma cosa fai?”. E si è messo immediatamente al mio stesso livello, da pari a pari. È stato lui quello che ha rotto di più gli schemi secondo me, quello che per la prima volta diceva le cose veramente chiare nel panorama musicale italiano, oltre che dirle in modo bellissimo musicalmente. Mi ha aperto un mondo nuovo, la capacità di capire le cose, di vederle da un altro punto di vista. Capacità critiche, di meditazione profonda. È stato anche il primo che mi ha fatto comprendere che potevo anche non essere d’accordo con ciò che lui stesso diceva. La disobbedienza intellettuale: l’autocritica l’avevo imparata col teatro, la critica da lui. Era un passo fondamentale che non avevo mai considerato possibile prima: mettere in discussione anche i tuoi maestri...».