corriere.it, 14 dicembre 2025
«Potevamo salvare il mondo, abbiamo fallito»: che cosa è andato storto sul cambiamento climatico?
Qualcosa è andato storto anche per il cambiamento climatico.
Basta pensare a cosa accadde dieci anni fa e a quante speranze c’erano nel mondo il 12 dicembre 2015.
Quel giorno a Parigi finì una storica Cop, la Conferenza delle Nazioni Unite dedicata al contrasto al cambiamento climatico. Le Cop sono quelle maratone negoziali che da qualche anno a questa parte finiscono in un nulla di fatto. Quella volta invece finì trionfalmente con un accordo in base al quale tutti i Paesi del mondo si impegnarono a fare il possibile per fermare l’aumento della temperatura del Pianeta. Forse è stata l’ultima volta che siamo stati tutti d’accordo su qualcosa di importante. Salvare il mondo.
Grazie alla leadership di figure come Barack Obama e Angela Merkel; ed alla spinta di papa Francesco – che qualche mese prima aveva pubblicato una storica enciclica sul tema, la Laudato Si’ -, quel giorno sembrò l’inizio di una nuova era. Persino India e Cina, che ancora facevano e fanno largo uso di carbone, si erano accodate all’impegno di una transizione ecologica che ci portasse ad una drastica riduzione delle emissioni di anidride carbonica entro il 2050.
Potevamo salvare il mondo e invece abbiamo fallito, ha detto lo scienziato più autorevole sul tema, Johan Rockstrom, in una bella intervista a SkyTg24. In quel momento, secondo Rockstrom, era ancora possibile «una graduale e ordinata eliminazione dei combustibili fossili, potevamo imboccare un percorso in cui le emissioni venivano ridotte del 2-3 per cento all’anno per arrivare a emissioni nette zero fra quarant’anni. Oggi è troppo tardi e per raggiungere lo stesso obiettivo dovremmo ridurre le emissioni del 5 per cento all’anno». Un obiettivo molto, molto più difficile. I costi finanziari e sociali sarebbero stratosferici. Meglio non far nulla a questo punto. Fare finta di nulla. È la strada che abbiamo imboccato.
Da quella trionfale Cop infatti il tema è gradualmente sparito dall’agenda globale ed è scivolato nell’indifferenza attuale. Il simbolo di questa svolta è noto: è Donald Trump. Gli americani nel 2024 hanno eletto un presidente che considera il cambiamento climatico «una balla pazzesca» e che ha vinto le elezioni anche promettendo di trivellare tutto il petrolio disponibile nel suolo americano. E ovviamente gli Stati Uniti sono usciti dall’Accordo di Parigi nel giorno uno della nuova presidenza.
Come è stato possibile? Perchè i negazionisti fin qui hanno avuto la meglio?
La risposta più semplice è anche quella che più si avvicina al vero. Perché gli interessi contrari sono molto forti. Le lobby di chi produce gas e petrolio e di chi utilizza combustibili fossili a vario titolo – penso ai produttori di automobili o di plastica, per citarne un paio – hanno molti più mezzi di quelli a disposizione di scienziati e ambientalisti. E li hanno usati, li stanno usando, per far finta di cambiare qualcosa senza davvero cambiare nulla, pratica che in Italia conosciamo molto bene.
Ma non basta.
La causa ambientale finora ha perso perché non aveva – e non ha ancora trovato – una storia convincente da raccontare. Nell’era dei social e degli algoritmi dell’engagement si tratta di una colpa imperdonabile. Oggi appare evidente che su questo terreno, quello della comunicazione e delle emozioni, il derby con i negazionisti era una sfida impossibile da vincere. Da una parte c’era chi diceva, ripetendo il passaggio chiave dell’Accordo di Parigi, che avremmo dovuto fare il possibile per raggiungere la neutralità climatica entro la seconda metà del secolo e quindi mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli pre-industriali e perseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5°C (una frase lunghissima, piena di subordinate, con riferimenti storici non immediati e ben due numeri ad esprimere altrettante grandezze fisiche: troppo per un mondo abituato alla semplificazione estrema). Dall’altra c’era uno che strillava “Drill, baby, drill!”, promettendo di estrarre petrolio come se non ci fosse un domani e per effetto di ciò abbassare le tasse a tutti. La sentite anche voi la differenza? La vedete anche voi la aerodinamicità della seconda squadra in campo? Dal punto di vista comunicativo era come confrontare un macigno con un uccello e poi chiedersi perché il primo non riuscisse a volare. Già sull’espressione «neutralità climatica» la metà delle persone si sentono perdute; quando poi si arriva «sui livelli pre-industriali» resistono solo pochi coraggiosi. Ma in definitiva: si è mai vista una rivoluzione, o almeno una insurrezione, innescata da un numero, per di più con un decimale: «Vogliamo il grado e mezzo!». Suvvia.
Per rendere comprensibile a tutti l’obiettivo di Parigi un certo ambientalismo ha allora provato la carta della fine del mondo. Del resto era una strada con qualche fondamento scientifico. La situazione non è bellissima. È quindi stata fatta l’ipotesi di continuare a vivere come se il cambiamento climatico non esistesse e sono stati costruiti gli scenari conseguenti, spesso disastrosi, a volte addirittura catastrofici. Immaginate un compito in classe con un titolo come: «Cosa accadrà al Pianeta se non faremo nulla». Svolgimento: una apocalisse, hanno detto alcuni provando a destarci dal nostro torpore. Questi dieci anni sono quindi stati anche gli anni di Greta Thunberg, della «nostra casa in fiamme» gridata in faccia ai potenti della Terra, della rabbia contro il bla-bla-bla di chi governa, delle migliaia di cortei di giovani, così diversi da tutti quelli che ci sono stati prima e dopo. Come ha detto Jeremy Rifkin, «era la prima volta che dei manifestanti si consideravano come una specie in via di estinzione». Ma i cortei si sono estinti prima che le cose iniziassero a cambiare. Non è mai una buona notizia quando i giovani smettono di credere che le cose possono cambiare in meglio.
La fine del mondo non ha funzionato, non ha mai funzionato nella Storia. Non è colpa di nessuno in particolare, ci sono delle ragioni precise. I neuroscienziati hanno dimostrato che gli esseri umani davanti ad una minaccia definitiva reagiscono sempre nello stesso modo: denial and panic. È un meccanismo che funziona alla perfezione da duecentomila anni. Prima neghiamo l’evidenza, poi, quando è troppo tardi ci facciamo prendere dal panico. Il problema (ma sarebbe il caso di dire «la fortuna»), è che per il panico è ancora troppo presto: sì, d’estate fa più caldo del solito; sì, le piogge sono molto più intense di prima e le siccità più lunghe; sì, un’alluvione all’anno inizia ad essere un po’ troppo anche per agricoltori pazienti e tenaci come i romagnoli. Ma insomma: la situazione non è ancora così grave. Meglio negare, allora, pensare che andrà tutto bene. Anche con il Covid abbiamo fatto così. Poi siamo finiti in lockdown con le mascherine. E soprattutto per il cambiamento climatico non c’è un vaccino che potrà metterci al sicuro rapidamente. Questi processi cambiano lentamente, i risultati si apprezzano in decenni, più spesso in secoli.
Ma torniamo alla comunicazione e ai suoi meccanismi. Vista dalla prospettiva dei social network, che dopo il Covid avevano registrato una clamorosa impennata di utenti portando a bordo anche le generazioni di pensionati, è accaduta una cosa sorprendente. Per la prima volta la paura non ha funzionato quale innesco dell’engagement; i post apocalittici non sono diventati virali. Mentre la paura della microcriminalità (furti, rapine, stupri) si è rivelato un moltiplicatore straordinario dell’attenzione degli utenti, i rischi del cambiamento climatico sono apparsi così enormi da risultare inverosimili o in qualche cosa paralizzanti. Cosa posso fare io, singolo, davanti ad una minaccia di estinzione della specie umana? Niente.
In compenso ha funzionato benissimo l’altro carburante preferito dai social: la rabbia. Ma ha scelto un bersaglio sorprendente. Non i politici troppo timidi e balbettanti nel contrasto al cambiamento climatico, ma proprio coloro che avevano promosso misure efficaci di transizione ecologica: il Green New Deal negli Stati Uniti e nell’Unione Europea. Il meccanismo è stato sempre lo stesso: attaccare le élite crudeli. Ci vogliono levare le nostre automobili a benzina, ci vogliono levare la plastica, ci vogliono costringere a ripristinare la natura, ci hanno persino vietato le cannucce quando ci facciamo l’aperitivo! Insomma il complesso di regole che avrebbero dovuto favorire la decarbonizzazione dell’economia è stato vissuto dai più come una ingerenza insopportabile nella vita privata. Del resto, se il cambiamento climatico non esiste (denial), perché mai dovremmo cambiare qualcosa?
Ovviamente in tutto ciò il grande sconfitto è stata la comunità scientifica: infatti sebbene almeno il novantasette per cento dei climatologi sia concorde nell’affermare che il cambiamento climatico è una minaccia reale e che è dovuto alle attività degli esseri umani e in particolare al nostro sistema economico basato su estrazione-sfruttamento-consumi, la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica non ha preso sul serio gli allarmi degli scienziati i quali, come già accaduto per il covid con i NoVax, sono finiti nel mirino dei negazionisti più esagitati. Non a caso oggi alcuni attivisti del clima hanno scelto come slogan «Make Science Great Again», che fa il verso al motto di Donald Trump ed evidenzia il fatto che la scienza in questi anni nella considerazione dell’opinione pubblica ha perso purtroppo diverse posizioni. È diventata piccola piccola.
Tutto ciò spiega benissimo l’ulteriore innesco che i social network hanno molto amplificato: la rabbia verso la paura. O meglio: la rabbia verso chi in qualche modo, mettendoci in guardia dal pericolo in atto, ha tentato di farci paura. Un esempio perfetto è accaduto all’inizio di dicembre quando una delle riviste scientifiche più autorevoli del mondo, Nature, ha ritirato uno studio del 2024 e molti hanno parlato di «Apocalisse climatica che non c’era» puntando l’indice contro gli scienziati che, nel tentativo di «rieducarci», manipolano i dati scientifici. Per i negazionisti e i trumpini di tutto il mondo questa vicenda è stata una manna. La prova regina che dimostrerebbe che hanno sempre avuto ragione loro. È così? Per rispondere occorre capire esattamente cosa è accaduto.
L’articolo in questione si chiama «The economic commitment of climate change» («L’impatto economico del cambiamento climatico») ed è il risultato di uno studio di tre ricercatori del prestigiosissimo Potsdam Institute per Climate Impact Research, il centro tedesco dove lavora anche Rockstrom. Gli autori (Maximilian Kotz, Anders Levermann e Leonie Wenz), dopo aver analizzato le serie storiche di quarant’anni relative ad oltre mille e seicento regioni, pensavano di aver fatto delle scoperte sconvolgenti. Qui l’abstract originale del rapporto: «Scopriamo che l’economia globale è destinata a una riduzione del reddito del 19% nei prossimi 26 anni, indipendentemente dalle scelte future sulle emissioni. Questo scenario si confronta con un futuro senza cambiamenti climatici, con una variazione probabile tra l’11% e il 29% a seconda delle condizioni climatiche e delle incertezze empiriche. Questi danni sono già sei volte più grandi dei costi per frenare il riscaldamento globale a 2°C nel breve termine, e da lì in poi la situazione si farà sempre più complessa, dipendendo da come sceglieremo di ridurre le emissioni. I danni già in atto sono principalmente dovuti ai cambiamenti della temperatura media, ma se consideriamo anche altri fattori climatici, le stime aumentano di circa il 50% e si evidenzia una maggiore diversità regionale. Si prevedono perdite inevitabili in tutte le regioni, tranne quelle più fredde, dove la stabilità climatica potrebbe rivelarsi un vantaggio. Le perdite più significative si concentrano nelle regioni più calde, dove le emissioni storiche sono state minori e le risorse economiche sono più limitate».
Questa ricerca esce il 17 aprile 2024 e ovviamente ha larga eco; le maggiori società assicurative e finanziarie ne assumono per buone le conclusioni per rivedere i valori delle polizze e la direzione degli investimenti. La politica invece, oggi possiamo dirlo con sicurezza, la ignora totalmente ma non è questo il punto. Il punto è che nell’analisi dei dati c’era un errore apparentemente piccolo ma fondamentale: il prodotto interno lordo dell’Uzbekistan era grossolanamente sbagliato. I dati di un decennio registrano sbalzi clamorosi e ingiustificati, dovuti probabilmente a errori del sistema statistico nazionale uzbeko; il problema è che il modello adottato dal Centro di Potsdam invece di eliminare le anomalie le amplifica e quell’errore tutto sommato marginale fa sballare di brutto tutti i conti generali. Di questo nell’estate del 2025 si accorgono tre ricercatori americani. Il 6 agosto «Nature» pubblica un loro articolo intitolato «Data anomalies and the economic commitment of climate change» che letteralmente smonta il lavoro dei colleghi tedeschi: «Hanno affermato che, se le tendenze storiche dovessero persistere, il PIL globale potrebbe crollare di circa il 62% (stima centrale) nel 2100, nel peggiore dei casi, un impatto tre volte più devastante di quanto si fosse mai immaginato… ma levando i dati dell’Uzbekistan dal modello, i costi del cambiamento climatico si allineano a quelli individuati da altre ricerche e non sono più statisticamente distinguibili dai costi della mitigazione». Passa solo una settimana e «Nature» pubblica un secondo articolo, di un altro ricercatore tedesco del Centro di Potsdam che finisce di demolire l’impianto dei colleghi: «Abbiamo scoperto che la loro analisi non coglie appieno la complessità della realtà, trascurando importanti connessioni territoriali a livello locale. Questo, una volta corretto, svela risultati che perdono la loro forza. Pertanto, il loro studio non riesce a fornire le solide basi empiriche necessarie per orientare le politiche climatiche». Nella comunità scientifica si apre un dibattito acceso e nel giro di tre mesi l’articolo di Kotz, Levermann e Wenz viene ritirato.
A cosa siamo davanti? Ad una sconfitta della scienza? O piuttosto alla vittoria del metodo scientifico? Vediamo la dinamica: un gruppo di ricercatori pubblica un lavoro dopo la revisione di una prestigiosa rivista; altri lo controllano di nuovo e trovano degli errori fondamentali, l’intera comunità ne prende atto e il lavoro viene ritirato. In quale altro settore della nostra vita le cose funzionano così bene? In quale altro settore c’è un controllo pubblico fra pari e alla fine vincono i dati e non le opinioni? I fatti e non le ideologie? Pensate se questo meccanismo si applicasse anche alla politica o allo sport. Immaginare come sarebbe il mondo se nel calcio bastasse davvero il VAR per mettere d’accordo tutti i tifosi su un rigore assegnato. E se in politica il leader dell’opposizione prendesse atto che i dati lo hanno smentito. Nella scienza funziona. Evviva.
Purtroppo non funziona neanche nel giornalismo dove le ritrattazioni sono rare come i passaggi delle stelle comete. Eppure proprio in questo caso certi commenti giornalistici erano, quelli sì, zeppi di considerazioni false. L’Apocalisse climatica non c’era, è stato detto: ma la stima dei costi economici del cambiamento climatico a metà secolo mica si azzera ma passa da 38 mila miliardi di dollari l’anno a 32 mila miliardi di dollari. Sono tanti? Sono una enormità, il cui prezzo pagherà soprattutto il sud del mondo. Secondo i nuovi calcoli dei ricercatori del Potsdam Institute i danni climatici globali annuali in dollari a metà di questo secolo saranno circa cinque volte superiori ai costi di riduzione associati alla limitazione del riscaldamento globale a 2°C. Nel documento ritirato i danni erano sei volte superiori ai costi di adattamento e mitigazione del cambiamento climatico. Davvero c’è qualcuno che davanti a questi scenari può permettersi di dire che va tutto bene?
Si dirà, questi sono scenari, parliamo di fatti concreti. Parliamo di cosa è accaduto nel 2025. D’accordo.
Primo fatto: secondo la World Meteorological Organization il 2025 sarà il secondo o terzo anno più caldo da quando misuriamo la temperatura del pianeta, (la fine dell’Ottocento). Il più caldo è stato il 2023, i dieci più caldi sono tutti quelli a partire dal 2015, il trend è evidente.
Secondo fatto: gli eventi meteorologici estremi sono aumentati per frequenza e intensità. Secondo il colosso delle assicurazioni Munich Re nella prima metà del 2025 le perdite economiche dovute ai disastri naturali nel mondo ammontano a 131 miliardi di dollari; le catastrofi dovute al clima sono responsabili dell’88 per cento di questa somma. Sempre Munich Re, in seguito ad uno studio del quinquennio 2020-2025 ha concluso che per effetti di eventi meteorologici estremi gli Stati Uniti hanno affrontato perdite annuali medie pari allo 0,54 per cento del loro PIL, mentre la Germania e l’India hanno registrato rispettivamente lo 0,29 e lo 0,28. In termini economici, si parla di circa 150 miliardi di dollari all’anno negli Stati Uniti, 14 miliardi in Germania e 9 miliardi in India, tenendo conto dell’inflazione.
Terzo fatto: le morti dovute alle ondate di calore dal 1990 ad oggi sono aumentate del 23 per cento e nel 2025 si attestano attorno a 546 mila persone.
Siamo tutti felici e sollevati del fatto che l’Apocalisse climatica non c’è stata e che gli scenari sono leggermente migliori del previsto. Ma è davvero il caso di ostentare disprezzo per la scienza e per chi ha a cuore l’ambiente? È vero che gli scienziati e gli attivisti innamorati della possibile fine del mondo sono un problema, ma come abbiamo visto si tratta di un problema gestibile e risolvibile. Ma come si gestisce e risolve il fatto che i negazionisti continuino a raccogliere consensi? Come raccontare la verità sul cambiamento climatico? Cambiando narrazione. Spostando l’obiettivo dal problema alla soluzione. Raccontando le storie delle imprese che hanno intrapreso la transizione ecologica e stanno guadagnando più di prima; le storie dei capitali che continuano a sostenere la crescita delle tecnologie verdi, magari senza annunciarlo, per non indispettire chi comanda ma la sostanza non cambia; le storie degli Stati americani che anche dove hanno vinto i repubblicani scommettono sull’energia rinnovabile non perchè è una ideologia ma perché conviene; le storie della Cina, «il più grande inquinatore del mondo», che ha finalmente preso la strada giusta ed è già in testa per certi parametri; le storie dei tantissimi territori che intanto hanno scelto la strada dell’adattamento mettendo in sicurezza le persone e i beni.
La transizione ecologica è un fatto, sta accadendo, tutti i giorni. Sicuramente è più lenta di come la scienza vorrebbe, di come la situazione del Pianeta vorrebbe, ma non è affatto ferma. E il modo migliore per farla accelerare non è lamentarsi di Donald Trump, che per altri due anni starà alla Casa Bianca comunque; o del fatto che i 2 gradi di aumento della temperatura li abbiamo quasi raggiunti. Il modo migliore è raccontare le storie delle persone che la stanno facendo e metterle in rete. Non è detto che basti, ma non c’è altra strada.
Da sempre fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce. Ma quella che resta poi è la foresta. Coltiviamo la foresta.