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 2025  dicembre 14 Domenica calendario

Un doppio standard

Ha un bel dire Vladimir Putin quando, pressoché ogni giorno, annuncia al mondo che le sue truppe in Ucraina hanno travolto i nemici e conquistato questa o quella città. Poi accade, come l’altro ieri, che Volodymyr Zelensky si presenti alla periferia di Kupyansk data per «presa» da tempo immemorabile e sia in grado di mostrare filmati dei suoi che percorrono strade ben riconoscibili della città e che nello stesso momento i servizi segreti inglesi sostengano con prove fotografiche che né la celeberrima Pokrovsk né Siversk possano essere considerate cadute nelle mani dei russi.
Vogliamo lasciar intendere che gli ucraini siano in grado di riconquistare quel 20% del loro Paese ormai usurpato dalle truppe putiniane? No. Assolutamente no. Ma è un fatto che la tenacia della resistenza ucraina abbia dell’incredibile. Senza più energia elettrica, apertamente boicottati dagli Stati Uniti, mentre l’Europa fatica a trovare risorse da destinare alla loro causa, gli ucraini danno una prova di tenacia che ha pochi precedenti nella storia. Altro che cavia. Gran parte delle opinioni pubbliche occidentali li hanno abbandonati al loro destino e così anche molti che fanno parte delle classi dirigenti.
I tifosi di Putin e di Donald Trump trovano il coraggio di uscire allo scoperto. Si chiede agli ucraini l’impossibile come lasciare al nemico territori che – come s’è detto – i russi non sono riusciti a conquistare. Oppure, cosa che quasi non ha precedenti, di tenere elezioni in tempo di guerra. E loro rispondono di sì. Anzi qualcuno, come l’ex ministro degli esteri Dmytro Kuleba dimissionato sedici mesi fa, risponde che resterà a combattere e lascerà il Paese definitivamente solo quando i russi occuperanno Kiev. Un altro dimissionato illustre Andriy Yermak va a rischiare la vita al fronte. E persino il più rancoroso rivale di Zelensky, l’ex comandante in capo delle forze armate ucraine Valerii Zaluzhnyi, o il capo dell’intelligence Kyrylo Budanov che avrebbe buone chances di competere con Zelensky, restano al loro posto. Lo scandalo della corruzione non li ha fiaccati più di tanto. Tutti sono consapevoli del fatto che quella è una triste eredità, quasi inestirpabile, dei regimi che furono comunisti.
È il resto del mondo che appare confuso, disorientato. Colpisce, ad esempio, l’insensibilità nei confronti dell’aggressione russa ai membri della Corte penale internazionale. Indifferenza da parte di coloro che non molto tempo addietro osannavano alla sacralità di quell’organismo. Ci riferiamo all’epoca del caso Almasri, il criminale libico che undici mesi fa, a dispetto di un mandato di cattura della Cpi, fu lasciato libero dalle autorità italiane e restituito al suo Paese con un volo di Stato. All’epoca sì, che si levarono attestati di solidarietà alla corte dell’Aia. Adesso un tribunale ordinario moscovita, presieduto da Andrey Suvorov, il magistrato che a suo tempo spedì Alexey Navalny nella prigione in cui trovò la morte, ha condannato a quindici anni di carcere (fortunatamente in contumacia) il giudice italiano Rosario Aitala. La colpa di Aitala è quella d’aver firmato, quale membro della Cpi, il mandato di cattura per Putin accusato d’aver fatto rapire non si sa quanti bambini ucraini. Quei bambini che una delicatissima missione guidata dal cardinale Matteo Zuppi sta cercando di riportare a casa. Uno per uno. E con qualche successo. Tant’è che, a dar risalto all’iniziativa, una delegazione di quei piccoli è stata ricevuta da papa Leone XIV. Giudichi il lettore se il caso Aitala ha ricevuto un’accoglienza mediatica paragonabile a quella di Almasri. Eppure, si tratta in entrambe le situazioni di torti fatti a togati della medesima corte. Quello russo, semmai, più gravido di minacce.
I casi di doppio standard non sono una novità. In Italia il livello di indignazione per le malefatte di Putin è al minimo. Stesso discorso vale per Trump da quando il Presidente statunitense si è totalmente allineato all’autocrate russo. Persino quegli intellettuali, che furono per decenni campioni di sfrenato antiamericanismo, adesso cercano bersagli altrove. Trump può oltraggiare quotidianamente Zelensky (strano modo, sia detto per inciso, di condurre una trattativa di pace) ma qui da noi la mobilitazione di scrittori e artisti vari è distratta da altri impegni. È considerata una miglior causa la battaglia contro la presenza della casa editrice «Passaggio al bosco» in una fiera libraria. Né i morti civili provocati dai bombardamenti russi sull’Ucraina provocano – eccezion fatta per la Chiesa di papa Leone e per il capo dello Stato – alcuna manifestazione di indignazione. Né di pietà. Cosa che non ci stupisce da parte di coloro che si presentano come asettici osservatori geopolitici (anche se è bizzarro che da quasi quattro anni le loro «analisi» coincidano, alla lettera, con quelle di Dmitry Peskov e Marija Zacharova).
Una qualche dose di cinismo fa parte del loro mestiere. Colpisce invece non vedere neanche una lacrima negli occhi di quelli che si autodefiniscono pacifisti e cristiani. Ci sembra strano che nel tragitto tra Perugia e Assisi non ci sia qualcuno che, in aggiunta alle tradizionali invocazioni alla pace, dedichi una sosta di meditazione per le vittime innocenti provocate dalle bombe di Putin. Che, da quando ventisei anni fa si è preso tutti i poteri, sono davvero tante. Troppe.