Corriere della Sera, 14 dicembre 2025
Intervista a Paolo Virzì
Paolo Virzì, livornese di padre siciliano, romano d’adozione: sceneggiatore, regista. L’ultimo film è Cinque Secondi.
Quali sono stati i cinque secondi spartiacque della sua vita?
«La nostra vita è segnata dai momenti in cui abbiamo esitato ad agire, per inadeguatezza e passività. Credo che ciascuno porti dentro qualche forma di rammarico che lo tormenta e anch’io ho i miei. Il più doloroso, e fatico a dirlo, è stato non aver salutato in modo decente mia madre. Avevo fretta al telefono, ero al supermercato, lei diceva le sue strampalate irragionevolezze e io l’ho liquidata bruscamente, l’avrei richiamata ma non l’ho fatto. Quando ha suonato il telefono, ho pensato: “Adesso facciamo pace”. Non era lei, era l’infermiere che le stava praticando il massaggio cardiaco».
La sua famiglia.
«Sono figlio di un carabiniere di Palermo e di una livornese casalinga ex-cantante. Fino a dieci anni sono cresciuto però nella Torino operaia, in via Plava: mi ricordo della nebbia fitta che spaventava mia mamma, non l’aveva mai vista prima. Abitavamo davanti a uno dei cancelli di Mirafiori: il bucato non si poteva stendere perché diventava nero per il fumo delle ciminiere».
La Torino industriale.
«E molto siciliana: c’era il palazzone di Catania, quello di Trapani. Davanti ai garage si facevano “u strattu” di pomodoro, i pentoloni di caponata. I miei avevano faticato a trovare casa: erano i primi Sessanta, l’epoca in cui a Torino c’erano i famigerati cartelli “non si affitta ai meridionali”. Tornammo a Livorno con grande euforia: anche mio padre adorava la città e la famiglia di mia madre, molto diversa dalla sua, che aveva fatto fortuna con il fascismo ed era nostalgica. Mio padre dirazzò: legò molto con mio nonno materno che era un socialista libertario, un operaio autodidatta, popolano ma con una sua finezza alla Giorgio Caproni. Non era andato a scuola, ma si comprava le dispense dell’enciclopedia, e inviava la sue parole crociate alla settimana enigmistica».
Livorno.
«Negli anni 80 sono stati smantellati piano piano tutto l’apparato e i poteri dei portuali, l’aristocrazia operaia della città. Gli è stata tolta la prerogativa di manovrare per primi le merci sul ciglio banchina: è iniziato così il declino del porto. Livorno è diventata una città dove si vive della pensione dei nonni».
E di mare.
«L’estate a Livorno dura tantissimo, da aprile a ottobre: è una città affacciata sull’acqua, basta un po’ di sole e tutti stanno al mare. Con una postura che è quella della immobilità, con totale noncuranza verso il resto del mondo. Quei pochi che lavorano chiudono a mezzogiorno e vanno nel loro scoglio, di cui sono gelosi».
Un orticello.
«I primi anni che tornavo a Livorno da Roma mi camuffavo con il cappellino, gli occhiali neri e le cuffie. Mi sedevo su uno scoglietto e sentivo il borbottio: “Quello lì sta nel posto di Moreno...”. Poi quando mi riconoscevano mi lasciavano in pace: “Te ci puoi stare, sei di Livorno”. C’è una esplicita impaziente inimicizia verso i turisti».
È vero che si vergognava del suo accento livornese?
«Sognavo la letteratura, il teatro, il cinema, avrei voluto essere nato a Parigi o a New York. Ma a Roma ho percepito che la mia origine livornese potesse suscitare simpatia e conferirmi un’identità, allegra e battagliera. Anche mio padre si vergognava del suo accento, che era pesantemente siciliano e stava zitto per non svelarsi. Si era innamorato in silenzio di mia madre: andava a sentirla cantare in un circolo ricreativo. Le spediva mazzi di fiori anonimi. Un giorno lei lo vide in pizzeria e gli domandò: “È lei quello dei fiori?”. Lui ammise e andarono a prendere un gelato».
In «Caterina va in città» racconta l’arrivo di una provinciale nella capitale. C’è qualcosa di autobiografico?
«Ogni racconto cinematografico nasconde qualcosa di autobiografico. Roma era l’approdo naturale per chi come me sognava con incoscienza di fare il cinema. Nel 1987 mi sono diplomato al Centro sperimentale di cinematografia. La mia prima regia è stata nel 1994 con La bella vita, con Sabrina Ferilli che recitava con un convincente accento piombinese».
Come scoprì la Ferilli?
«L’avevo vista in un piccolo ruolo in un altro film, mi aveva colpito per quell’essenza da antica italiana: aveva qualcosa di quelle attrici del cinema classico, come la Magnani e la Loren. La incontrai negli uffici di una produzione, dove lavoravo con Furio Scarpelli: era lì per fare un provino e mi chiese se le potevo dare un passaggio in motorino. All’epoca non si portava il casco, mi ricordo l’emozione di sentire quel corpo schiacciato contro la schiena. “Ma perché non fai un provino pure a me”? mi propose».
E glielo fece.
«Certo, creandomi anche inimicizie. I produttori sostenevano un’altra attrice, Nancy Brilli, già molto popolare, molto brava, molto bella, ma di una bellezza alto-borghese. Io cercavo una bellezza plebea. E scelsi Sabrina».
Avete avuto una storia?
«Ahaha! No, anche se forse Sabrina mi faceva girare la testa. Siamo diventati in compenso amici fraterni: mi invitava a pranzo a casa sua a Fiano Romano, dove ho conosciuto questa famiglia immensa e suo padre Giuliano Ferilli, un personaggio leggendario. Era stato l’autista di Enrico Berlinguer ed era diventato uno dei leader delle lotte agrarie della Sabina, e poi sindaco di Fiano: viveva con l’Unità sottobraccio e al termine dei pranzi meravigliosi che offrivano ai loro ospiti si ritirava in camera per fare un riposino, come tutti gli altri commensali. Un giorno anche io venni invitato a fare la pennichella e andando in bagno vidi una scena meravigliosa: Sabrina appoggiata sul petto di suo padre che le leggeva l’Unità. Credo che il grande amore di Sabrina sia stata la famiglia e in special modo suo padre... non me ne voglia Flavio Cattaneo».
Lei piaceva a Giuliano Ferilli?
«Mi diverte pensare che segretamente lui sperava che noi due ci sposassimo. Apprezzava i miei film, il mio background popolare, e per lui ero “un compagno”».
Altra musa: Valeria Bruni Tedeschi.
«Una creatura impressionante, sia per la sua bravura che per la storia personale. Valeria è una donna bellissima ma il destino le ha dato per sorella una creatura aliena: Carla. Questo ha reso Valeria cinematograficamente ancora più interessante: perché si percepisce che lei si deve essere sentita inadeguata rispetto a questa sorella fantascientifica. Ha sviluppato delle prerogative da personaggio buffo, quasi da clown, con il coraggio di tirare fuori il lato patetico e ridicolo. Il cinema l’ha salvata: non la vedo mai così bene e in salute come quando gira. Poi magari si attacca al telefono e inizia a piangere con lo psicanalista o l’ex-fidanzato, e pensi “cavolo come soffre questa donna”».
Stefania Sandrelli.
«Bellezza da gatta, intelligenza, humor, arte di non prendersi mai sul serio. È un’eterna fanciulla che ama la vita e godere: quando è stata a Livorno l’ho portata con Giovanni Soldati nei ristoranti più grevi, quelli del cacciucco fetente; mangiavano e bevevano che era una meraviglia, a un certo punto lui per farle piedino cadde dalla sedia e rovesciò il tavolo. E poi è un’attrice a suo modo molto sofisticata: sul set mi chiese di conoscere mia madre che veniva a portarci la schiacciata. Voleva prenderle dei modi di fare, di sospirare, per entrare meglio nella parte».
Per tanti anni lei ha avuto un sodalizio artistico con sua moglie, Micaela Ramazzotti.
«Sì, dopo la separazione abbiamo passato un momento più complicato, che sono certo presto ci metteremo alle spalle. Abbiamo fatto due figli meravigliosi, oltre a film per me memorabili. Non posso che dar valore alle cose belle della nostra storia».
Come vi siete conosciuti?
«Venne a fare un provino per “Tutta la vita davanti”: sembrava ancora più giovane dei suoi 27 anni, una creatura disegnata da Milo Manara ma cresciuta in un contesto suburbano tostissimo. E questa cosa la rendeva commovente. Colpivano dolcezza e tristezza, si sentiva che portava dentro un dolore, che poi ha adoprato nel suo mestiere di attrice per proporre un suo stile unico e anticonvenzionale».
Vi siete subito innamorati?
«Era il 2007, due anni dopo ci siamo sposati ma nel mezzo non si può dire che siamo stati proprio fidanzati. L’ho sposata forse per un gesto romanticamente guascone: la volevo per il ruolo della Sandrelli da giovane ne La Prima Cosa Bella, lei non voleva più vedermi e allora le ho proposto di diventare mia moglie».
È stato ghostato?
(Ride) «In un certo senso. Lei sparì dalla mia vita, mentre con Francesco Bruni e Francesco Piccolo scrivevamo la sceneggiatura de La Prima cosa bella e pensavamo tutti che quel ruolo doveva essere suo. Ma quando la feci cercare non accettò. Feci provini a tutte, ma Anna Nigiotti per me era lei. Così finalmente una sua amica mi consigliò: “Accetterà di lavorare con te solo se la sposi”. E così convolammo».
Perché è finita?
«Probabilmente per quelle stesse diversità che ci avevano avvicinato e poi legato. A volte con lei ero il maestrino palloso, il Furio di Carlo Verdone».
Che voto si dà come padre?
«Tendo a essere severo con me stesso, quindi non un voto altissimo, anche se ce la metto tutta. Ma sono in mutamento continuo, mi interrogo su cosa voglia dire essere padre. La mia primogenita si è ritrovata un babbo ragazzino, entusiasta di passare del tempo con lei, ma anche sciagurato e scavezzacollo: me la portavo nel marsupio alle riunioni di sceneggiatura dove tutti fumavano, o in viaggi spericolati. Con Jacopo e Anna è stato diverso, hanno avuto un padre maturo, quasi anziano, forse più noioso e normativo».
Oggi avete ognuno una nuova vita.
«Certo, la vita va avanti. Stiamo provando a costruire un rapporto di collaborazione tra genitori per i nostri due figli, a partire dal rispetto affettuoso per la nostra storia».
Lei è insieme a Susanna Paratore, autrice televisiva e sceneggiatrice.
«Vi confesso che non sono abituato a spifferare tanto della mia vita privata. Comunque, tra Susi e me c’è tenerezza e allegria. Ci siamo conosciuti in un momento complicato per entrambi: io con i miei problemi di padre legati alla separazione, lei incinta di un compagno che se n’era andato. Mi è stata subito molto simpatica, perché è spiritosissima e battutara, sembra quasi livornese. Invece è una pariolina atipica, sofisticata ma con una sua vena punk. Ho ritrovato con lei un po’ di spensieratezza, la voglia di disegnare, di suonare la chitarra e di mettere il naso fuori casa. Quest’estate abbiamo passato tutto agosto a Livorno, che lei inspiegabilmente adora come fosse casa sua, ed è stato indimenticabile: uscivamo al mare con la mia gabbianella, un barchino buono per raggiungere le secche della Meloria, dove pare di stare ai Caraibi».
Lei ha sempre mischiato mondi opposti, anche nei suoi film.
«Ho provato a raccontare i cambiamenti dell’Italia. La fine della centralità operaia di Piombino e l’avvento dei nuovi farlocchi della tivù, alla Massimo Ghini in La Bella Vita. Una volta si diceva: piglialo bimba è di Magona... L’operaio era un buon partito, il posto fisso sicuro».
Quando è cambiato tutto?
«In Caterina va in città racconto un pezzo di vissuto. All’epoca accompagnavo mia figlia Ottavia tredicenne alle festicciole dove incontravo genitori che volevano familiarizzare: “Mi scusi, avrei una cosetta da farle leggere...”. Il desiderio di visibilità e di apparire stava diventando la nuova moneta preziosa. Più del denaro, più di tutto. Se i grandi temi del neorealismo erano il lavoro, la casa, la sopravvivenza, come in Ladri di Biciclette, nel 2003 la storia di Caterina e della famiglia Iacovoni ci proiettava nell’era del narcisismo. E ancora non c’erano questi palcoscenici dei social per gratificare l’ego».
In Caterina va in città c’è anche un personaggio travestito da Berlusconi. Per lei è stata una ossessione?
«Non proprio. Ferie d’Agosto era stato scritto per prendere in giro la demoralizzazione e lo sbalordimento del mondo a me affine, che aveva reagito a questa novità politica prima con scetticismo e risatine, poi con uno sconforto apocalittico. Forse il primo spunto si manifestò in una vacanza a Ginostra nell’agosto ’94. Nella baia davanti agli scoglietti del Timpone, nel solito ritrovo di persone con bellissime edizioni Adelphi e tappetini balinesi, arrivò uno yacht annunciato dalla canzone Tarzan Boy, quella che poi ho usato nel film. “Cesarone, li mortacci tua, non sai che te stai a perde, qua il mare è ’na favola” gridavano nei telefonini, e poi splash, un tuffo fragoroso. Era arrivata in quel momento l’Italia della televisione, del karaoke, dei quiz: il gruppo ginostrino raccolse mesto le sue cose e se ne andò sconfitto».
Berlusconi l’ha conosciuto?
«Sì, avevo 23 anni e facevo lo sceneggiatore per Mediaset con Giuseppe Patroni Griffi e Raffaele La Capria. Berlusconi li conosceva bene, li considerava già “suoi”, lo sconosciuto da sedurre ero io: mi sorrise tutto il tempo, mi sbucciò persino una mela. E il giorno dopo mi mandò dello champagne. Era un seduttore. Dopo tre anni lo rividi e si ricordava il mio nome e la circostanza dell’incontro. Un talento mnemonico che ho ritrovato solo in Veltroni: del quale mi spiace molto che sia uscito dalla politica, era un catalizzatore di forze diverse, quello di cui abbiamo bisogno».
Le piace la Schlein?
«Non la conosco bene, ma mi sembra una persona gentile, di animo pulito. Spero sempre che le cresca anche quella ruvidezza che serve per una leadership politica».
E la Meloni?
«Priva di sostanza, può urlare una cosa e il suo contrario. È molto brava a polarizzare e ad aggregare consenso sulle paure, o con il vittimismo. Ma non è una cosa che si è inventata lei: fa parte del populismo reazionario».
Quali sono i cinque film della sua vita?
«Adoro Voglia di Tenerezza. Poi Otto e Mezzo, grazie a cui ho scoperto che esisteva la professione di regista. Ladri di Biciclette è magistrale, impeccabile, mentre Roma Città Aperta è un capolavoro pieno di imperfezioni: Anna Magnani che corre urlando “Francesco!” è una inquadratura tecnicamente difettosa, sovraesposta e lievemente sfocata. Questo ci fa capire quanto la tecnica conti meno dell’emotività».
Ne manca uno.
«Cinque Pezzi Facili, la parabola di un anaffettivo. Credo di aver trafugato nei miei film almeno tre volte la scena di Robert Dupea che parte per andare dal padre morente. Ma ho rubato anche da Papà è in Viaggio d’Affari di Kusturica».
Altri film da cui ha rubato?
«Partitura Incompiuta per Pianola Meccanica di Michalkov: alcuni pezzi di Ferie d’Agosto sono parafrasati, ad esempio la parte in cui Antonella Ponziani racconta la storia con Silvio Orlando mascherandola da storiella fiabesca. È un mio consiglio che do ai giovani: rubate dai russi».
Un collega che le piace.
«Matteo Garrone: mi colpisce la potenza del suo talento naturale, ha qualcosa di animalesco e di anti-intellettuale. E poi Paolo Sorrentino: il Divo è il film dei film».