Corriere della Sera, 14 dicembre 2025
La nipote Carlotta ricorda Armando Cossutta: «È stato l’ultimo comunista. Ma all’idea di baciare Breznev mio nonno sudava freddo»
Di appellativi ne ha avuti tanti. Lo hanno ribattezzato, con fantasia altalenante, «eminenza rossa», «l’ultimo comunista». I detrattori gli diedero della «spia al soldo di Mosca», per amici e sodali era «l’Armando», con l’articolo. Nell’immaginario collettivo ha incarnato per decenni il custode tetragono dell’ortodossia socialista ma, a dieci anni dalla sua scomparsa, per Carlotta Cossutta, docente di Filosofia politica all’Università Statale di Milano, l’intramontabile bandiera del Pci rimane semplicemente «il nonno».
Un nonno intransigente.
«Basti pensare che, quando da ragazzo fu arrestato, ai fascisti che lo interrogavano rispondeva solo: “Sono Armando Cossutta, nato il 2 settembre 1926 a Milano”. Si aggrappava all’unica cosa che non potevano levargli: l’identità».
E lei quando la scoprì?
«Da bambina, quando andavamo a Milano alle manifestazioni per il 25 Aprile, fino in Duomo. I miei mi dicevano: “Se ti perdi, cerca il nonno”».
Da piccola le raccontava le storie della Resistenza.
«Con altri prigionieri venne portato nel cortile della caserma di Monza, davanti a loro erano schierati il podestà e il plotone di esecuzione. Erano spalle al muro, un operaio gli strinse la mano e gli sussurrò: “Tranquillo, dura solo un attimo”. Poi spararono in aria».
Cognome ingombrante.
«Il pregiudizio si è fatto sentire, da destra e sinistra. Il preside del Parini mi dava della stalinista, a 14 anni. Ma c’è anche il fuoco amico di quelli che “Tuo nonno voleva fare le scarpe a Berlinguer”».
Ecco, Berlinguer.
«Per mio nonno, che pure ha condannato i crimini del regime, la Rivoluzione d’ottobre ha rappresentato uno spartiacque storico. Berlinguer sosteneva che a un certo punto la sua spinta propulsiva si fosse esaurita. Opinioni».
Ha incontrato i leader di tutto il mondo.
«Arafat, Fidel Castro, con cui si scambiavano gli auguri perché compivano gli anni a due settimane di distanza».
Andava spesso a Mosca.
«Quando vi metteva piede lo sottoponevano a check-up medico e lo portavano alle terme, convinti che in Occidente nemmeno i leader politici godessero di cure adeguate. Rende l’idea del contesto».
In Unione Sovietica i leader in visita venivano accolti in modo «alternativo».
«Sudava freddo all’idea di baciare in bocca Breznev. Che io sappia è sempre riuscito a cavarsela».
Quando spararono a Togliatti il vicequestore gli vene incontro: «Dottore, sono ai suoi ordini». E lui, ventunenne: «Non sono dottore».
«Ma era di una cultura straordinaria. Prima di morire, a 89 anni, rileggeva Tacito».
Aveva anche passioni più prosaiche.
«L’Inter era l’unica incrinatura della sua razionalità».
Anche la fede calcistica lo divideva da Berlusconi.
«Un giorno il Cavaliere disse che era stato un organizzatore di bande armate. Il nonno lo querelò per 100 miliardi di lire, Berlusconi ritrattò dicendo che Cossutta rappresentava “un baluardo di democrazia e libertà”. Un’elegia che nemmeno nel Pci».
Altri erano più «tranchant».
«Quando Libero gli diede della spia russa per me fu un dolore. Ma lui era impassibile, solo dopo il G8 di Genova lo vidi furioso».
Vivevate lontani. Lei a Milano, lui a Roma
«Ci vedevamo spesso d’estate a Bonassola, in Liguria, dalla cui pro loco mandò il fax in cui annunciò a Bertinotti che avrebbe lasciato Rifondazione dopo il ritiro del sostegno al governo Prodi».
Tentò di «indottrinarla»?
«Mai. Lo hanno dipinto come un uomo tetro, arcigno. Era invece aperto ai giovani, al dialogo. Nel 2001 si presentò ad esempio al Pride a Roma. Aveva un ombrellino fucsia».
In cosa credeva?
«Nella felicità condivisa».
Se n’è andato dieci anni fa.
«Ne ricordo la sobrietà, la coerenza, l’affetto. E quei pomeriggi al mare a mangiare il gelato alla nocciola, quel momento nostro, intimo, solo io e lui, nonno e nipote».