5 marzo 2025
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Biografia di Simona Vinci
Simona Vinci, nata Milano il 6 marzo 1970 (55 anni). Scrittrice. Vincitrice del Premio Campiello 2016 con La prima verità (Einaudi Stile Libero). Traduttrice fra gli altri di Shirley Jackson e Steve Erickson.
Titoli di testa «Scrivere è, per me, come respirare. Non mi diverte, è una necessità».
Vita Quando ha 5 anni va a vivere a Brudio, nel bolognese, dove negli anni Sessanta circa 600 persone su 14 mila erano riconosciute come matte: «Adesso ne sono rimasti pochi di questi mattucchini, ma quando ero piccola era pieno, li incontravi per strada, facevano parte del paesaggio umano» [a Cristina Taglietti, Cds] • «Sono stata attratta, fin da bambina, dalle cose segrete, nascoste, meno evidenti. Le contraddizioni dell’animo umano vanno indagate e non seppellite, è l’unico modo per liberarsene» [Chiara Brusini, Vita] • Lei parla anche di sua madre, della sua malattia che, da piccola, non capiva. Scrive: «Rivedere a distanza di trent’anni le sue fotografie di allora è un colpo al cuore. Vivevo con lei, la vedevo tutti i giorni, il cambiamento era graduale e non mi rendevo conto di quello che stava accadendo». «Ero una ragazzina che stava diventando una donna. Mentre io sbocciavo lei aveva un’involuzione e io non riuscivo bene a capire. Poi c’è stata una sorta di rovesciamento. Forse, nella vita si attira sempre un certo tipo umano che corrisponde a qualcosa che si ha dentro. Ho incontrato moltissime persone con disagi di vario genere. Loro si sentivano attratti da me e io da loro forse perché pensavo di poterli aiutare. Fino a quando mi sono accorta che non stavo bene neanche io» [Taglietti, cit.] • «Mio padre aveva un laboratorio fotografico, io lavoro molto sulle immagini, fanno parte della mia formazione» [a Cristina Taglietti, cit.] • «Budrio è il paese dove sono cresciuta da bambina e dove continuo nonostante tutto a vivere. I passi della mia infanzia sono segni di gesso su queste poche strade, ogni via, ogni incrocio, ogni angolo è un ricordo. Poi, dai 14 anni in avanti, il “posto” per me è stata Bologna. Ma continuavo a fare avanti e indietro. Ho tentato molte volte di andare a vivere altrove e non ho mai resistito molto a lungo, anche per ragioni familiari che mi legano. A volte ho la sensazione di essere prigioniera di un cerchio magico, qui, che non mi permetterà mai di andarmene, anche se vorrei» [Antonia Del Sambro, contorninoir.it] • Laureata in Lettere moderne presso l’università di Bologna, traduttrice letteraria dall’inglese: «Ho studiato lettere moderne all’Università di Bologna, ho avuto, tra gli altri, come professori, Ezio Raimondi, Maria Luisa Altieri Biagi, Guido Guglielmi, Mario Lavagetto, Alberto Bertoni, che è poi stato il mio relatore. Mi hanno insegnato a leggere per resuscitare i morti (Raimondi diceva sempre che un lettore vive in un “tessuto di ombre e fantasmi” li rievoca e li fa parlare), a comprendere che i libri sono creature. Ho sempre saputo di voler scrivere, fin da bambina, e ho indirizzato in quella direzione ogni mio sforzo. Ho sempre letto tantissimo, forse troppo. A volte devo ammettere che me ne domando il senso, soprattutto adesso. Mi chiedo se non avrei fatto meglio a dedicarmi a qualcosa di meno astratto, che ne so, la cucina, che è una cosa che mi è sempre piaciuta, forse sarei più serena. Troppe domande, troppi dubbi, troppo tempo passato in solitudine e poi più sai, più leggi, più impari più ti rendi conto che non saprai mai abbastanza e che forse il vero sapere sta altrove» [Del Sambro, cit.] • Esordio a 27 anni: «Nel 1997, col romanzo Dei bambini non si sa niente, è stata soprattutto un “caso”. Una vena consistente soprattutto nell’evocare, esplorare, sezionare sino al dettaglio un universo di grande durezza, ma insieme anche un mondo di sofferta tenerezza, ricorrendo a una scrittura non monocorde, di forte paratassi che, nei punti di maggior intensità, si faceva (e si fa) secca e scarnificata; a dare, per converso, spessore al lato oscuro della violenza e dell’uomo. Un universo mortuario, di dolore e sopraffazione, attraversato da immagini crude e crudeli» [Ermanno Paccagnini] • «Quel romanzo ha avuto un’eco internazionale molto forte e l’accoglienza all’estero è stata diversa da quella in Italia dove c’è stato un po’ di gioco al massacro. Dissero cose assurde, che era un libro costruito a tavolino. Invece avevo fatto leggere un racconto a Carlo Lucarelli che lo aveva dato a Severino Cesari di Stile libero. Lì era nato tutto. Ma non ero attrezzata per gestire tutto questo, ho avuto un sacco di proposte che non ho voluto cogliere. I giovani scrittori di oggi mi sembrano più abili, lo vedo da come usano la Rete, per esempio, anche se poi quella visibilità non corrisponde a copie vendute o a un lavoro remunerato» [Taglietti, cit.] • «Dal primo libro che la rivelò Dei bambini non si sa niente (Einaudi 1997, Premio Elsa Morante opera prima), fino ai racconti di In tutti i sensi come l’amore (Einaudi 1999) o al romanzo Come prima delle madri (Einaudi 2004), c’è un filo che lega tutti i libri di Simona Vinci. “Quando ne finisco uno, mi sembra sempre che quello successivo parta da dove si era chiuso l’altro”» [Silvana Mazzocchi] • «Difendo anche la mia ignoranza. Non si può sapere tutto, avere sempre una visione precisa di ciò che succede. Si possono usare le parole e tuttavia non essere intellettuali. Io mi sento più un’artista. Per me un libro è come un dipinto. Procedo per scatti lirici, a volte il quadro mi si costruisce nella testa, a volte no. Da questo punto di vista mi sento come mi sentivo a 20 anni» [Taglietti, cit.] • Nel 2007 Strada provinciale 3 (Einaudi). Lei ha vissuto fino al 2006 a Budrio (Bologna) in una grande casa affacciata su quella strada, che collega Modena a Ravenna. «I personaggi del mio libro sono tutti veri, li ho incontrati, li ho fotografati. La vecchia dell’Est con la fisarmonica la vedo ancora, spesso il giorno prende il treno e va a Bologna (...) Osservo la realtà che mi circonda. Oggi siamo informati di tutto, poi non sappiamo perché stanno scavando vicino a casa nostra, chi sono le persone che incontriamo, come vivono. Questo non mi va» [a Ranieri Polese] • Nel 2009 «Avevo cominciato a soffrire di attacchi di panico. Non potevo fare niente, per un anno sono stata chiusa in casa. Avevo sempre bisogno dell’aiuto degli amici, come Carlo Lucarelli che, a volte, mi veniva a prendere in macchina per farmi uscire. Io lo costringevo a fare sempre la stessa strada, l’unica che sopportavo. In quegli anni di lavorio psicologico ho cominciato ad avere una serie di visioni, di immagini. Ero attratta da vicende di disagio psichico e quando ho incontrato Leros è stato come se quelle immagini avessero preso un corpo» [Taglietti, cit.] • Nel 2016, il premio Campiello per La prima verità: «Scritto in otto anni, a metà tra narrativa classica, auto e docu-fiction, sfiora a tratti la sperimentazione con salti spazio-temporali e differenti piani narrativi. Al centro del libro c’è comunque un altro tema scomodo: la chiusura dei manicomi e gli scandali legati alla follia. La malattia mentale e il passato oscuro degli ospedali psichiatrici vengono narrati in un viaggio ideale tra Budrio, dove la Vinci vive attualmente, e l’isola di Leros, oggi meta turistica, ma dal 1958 agli anni Novanta manicomio-lager, che ha ospitato fino a 1.000 persone» [Stefania Vitulli] • «Aveva partecipato al Campiello due volte, nel 1999 con In tutti i sensi come l’amore e nel 2003 con Come prima delle madri, sfiorando la vittoria senza però riuscire a conquistare il podio. Stavolta ce l’ha fatta, con uno dei suoi libri più elaborati, in cui la prosa si mescola ai versi, ma sul dolore non c’è sconto. Voleva raccontare i folli, le persone rinchiuse nei manicomi, quelli che nessuno vede. Ora che La prima verità ha vinto la cinquantaquattresima edizione del Campiello, la scrittrice, si rilassa e spiega l’importanza di un romanzo che ha toccato la sua vita personale in profondità, forse più di altri scritti nel passato: “Sono maturata. Quando ho finito di scrivere ero diversa. In mezzo ci sono stati tanti traslochi, è arrivato un figlio. Venivo da un periodo difficile”. Un periodo lungo, iniziato molto tempo prima, quando stava lavorando a Strada provinciale 3, uscito nel 2007: “Quel romanzo non ha avuto molto successo, ma la protagonista, la donna che viaggiava da sola lungo una strada provinciale, ero io. Stavo attraversando un grande momento di incertezza sulla mia identità. Non potevo più continuare a vivere in quel modo. Soffrivo di attacchi di panico, ero un po’ anoressica. Clinicamente mi era stata diagnosticata una depressione ansiosa reattiva”» [Raffaella De Santis, Robinson] • Nel 2016 ha scritto il suo primo testo teatrale Porta della Rocca Ostile • Poi, nel 2017, Parla, mia paura • Racconta di aver tentato il suicidio. Come si è salvata? «La prima volta per fortuna è arrivato il compagno con cui vivevo allora e mi ha bloccata. Ma il pensiero non scompare mai dalla tua mente, rimane lì in un angolo, in agguato. Io ci convivo ancora, ci faccio i conti tutti i giorni. Adesso mi aiuta avere un bimbo che inizia a interagire con me, a parlare. Forse a volte dico cose che non dovrei e lui con la sincerità dei più piccoli mi risponde: mamma tu devi rimanere viva, ci sono io» [Massimo Vincenzi, Sta] • «Quando crolli, come sono crollata io ti rendi conto che sarebbe impossibile farcela da solo. Le persone più intime come i genitori o gli amanti non riescono ad aiutarti, non hanno gli strumenti per farlo e soprattutto sono condizionate dai tuoi comportamenti. Quando stai veramente male, quando tocchi il fondo serve una figura esterna: all’inizio è doloroso ma fondamentale. Io ho avuto la fortuna di essere stata consigliata da un mio amico scrittore, Giampiero Rigosi, che mi ha dato il nome cui affidarmi. Ed è stato decisivo» [ibid.] • «È cominciata con la paura. Paura delle automobili. Paura dei treni. Paura delle luci troppo forti. Dei luoghi troppo affollati, di quelli troppo vuoti, di quelli troppo chiusi e di quelli troppo aperti. Paura dei cinema, dei supermercati, delle poste, delle banche. Paura degli sconosciuti, paura dello sguardo degli altri, di ogni altro, paura del contatto fisico, delle telefonate. Paura di corde, lacci, cinture, scale, pozzi, coltelli. Di notte l’inferno indossa la maschera peggiore […]. Di notte arriva la paura cattiva […]. Sensazione di cadere, di precipitare in un vuoto infinito, di esplodere, di impazzire, di essere sul punto di morire. La sensazione somiglia a quella di un infarto, non a caso, la maggior parte delle persone colpite da attacchi d’ansia o di panico la prima cosa che fa è chiamare un’ambulanza oppure correre in un pronto soccorso, convinta di star avendo un infarto o comunque di avere problemi cardiaci. Io però non l’ho fatto. Per molto tempo non ho detto niente a nessuno […]. Per dormire, da una certa età in avanti, ho sempre avuto bisogno di un aiuto: goccine, melatonina, erba. Finché l’erba, in dosi modeste, sbriciolata dentro il tabacco, ed esclusivamente la sera, prima di dormire, non ha cominciato a farmi venire la nausea, tachicardia e pensieri angoscianti. Allora ho smesso. E allora è incominciata. Era astinenza? Impossibile a quelle dosi, forse solo psicologica, tant’è che non dormivo più. Neanche con le gocce. Il cuore mi scoppiava nel petto. Me ne fregavo ormai di tutti. Pareti lisce, le persone, gli occhi, i sentimenti, le storie. La vita era faticosa. E tutta quella fatica non valeva la pena. Certi giorni, con quanta timidezza, splendevo, ma l’ombra era lì. Piano piano, arrivare a non pensarci, a quell’ombra, a farla svaporare come un alone umido sulla stoffa, che si asciuga. Non ci sono riuscita, ho cercato aiuto. L’ho fatto prima che fosse troppo tardi, nel momento in cui mi sono resa conto che l’unica cosa ormai alla quale pensavo davvero era il suicidio. Ci pensavo costantemente, era il mio unico sollievo: sarei morta, la sofferenza sarebbe finita. Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei, non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti non sono più, scriveva Epicuro. Ed era proprio lì che volevo arrivare: a non esserci più. Non so cosa mi abbia veramente trattenuta, e poi spinta a cercare qualcuno che mi potesse aiutare, telefonare, prendere un appuntamento e andare. Era una psicoanalista. Una donna. Non so con esattezza perché non mi sono rivolta al Centro di Salute Mentale del mio paese, anzi, lo so benissimo: perché come tanti, tantissimi, provavo vergogna di ciò che mi stava capitando e non volevo che nessuno lo venisse a sapere. Un campanello sulla porta di un appartamento privato fa meno paura di un ambulatorio medico. E poi, paghi, e quel gesto ti rassicura: se paghi vuol dire che avrai diritto al servizio migliore possibile e non verrai giudicato e nessuno lo saprà. Se puoi permettertelo, certo. Ho fatto dei grandi sacrifici in quei sette anni per riuscire a pagarmi le sedute. Ma il primo anno non succedeva niente. E continuavo a stare male. Ci vuole del tempo e a me sembrava di non avercelo, quel tempo, ogni giorno pensavo che volevo morire e mi vergognavo perché non c’era un vero motivo per cui io dovessi desiderare di morire. Sì, era finita una storia d’amore, ne era cominciata un’altra, che si era schiantata contro l’evidenza della sua impossibilità. C’era un lutto, ormai lontano nel tempo, ma che continuava a ripetersi, per me, ogni singolo giorno, insieme al senso di colpa che ne derivava. Mangiavo una banana al giorno. E basta. Volevo essere magra. Prima l’avevo fatto per l’amore impossibile, perché lui mi voleva così. Ma adesso ero io a decidere che volevo sparire. Chiesi dei farmaci alla mia dottoressa e lei dopo molte insistenze mi mandò da uno psichiatra con il quale collaborava. Lo psichiatra mi dedicò un’ora del suo tempo. Parlammo dell’analisi che stavo facendo, degli attacchi d’ansia, della paura. Mi guardava sornione. Alla fine della chiacchierata prese in mano penna e blocco delle ricette, rimase con la penna sollevata a mezz’aria e mi disse: io glieli prescrivo anche, gli psicofarmaci, ma lei davvero è pronta all’eventualità di ingrassare dieci chili in tre mesi? La risposta mi pare evidente. Uscii da quello studio con un foglietto che prescriveva compresse di ademetionina per tre cicli di venti giorni e compresse di integratore multivitaminico. Aveva centrato il punto: stavo già facendo un percorso di psicoanalisi e il fatto che andassi a tutte le sedute senza mai saltare già diceva della mia volontà di uscire dallo stato depressivo nel quale mi trovavo. Certo, la mia era una depressione ansiosa reattiva – definizione che riuscii più o meno a strappare alla mia psicoanalista dopo anni di domande sfiancanti, perché io avevo bisogno di definirmi, di appiccicarmi un’etichetta, di sapere chi cazzo ero diventata – e quel tipo di depressione — associata a un lutto o a qualcosa che viene vissuto come tale e che non si riesce a elaborare — assomiglia un po’ alla ciclotimia: fasi alterne ravvicinate di up e down e possibilità di fare scelte avventate. Ne ho fatte. Ne ho pagato il prezzo. Ho continuato ad andare alle sedute. Sono stata fortunata? Credo di sì. A un certo punto, dopo meno di un anno di analisi, chiesi e ottenni una pausa di tre settimane. Nel mese di giugno, un amico giornalista mi aveva invitata a New York dove stava facendo un corso alla Columbia University. Aveva un appartamento affacciato sull’Hudson River. Non ero mai stata a New York, soffrivo di attacchi di panico, stavo seguendo un percorso di psicoanalisi. Cosa direbbe la logica? Decisi il giorno, prenotai il biglietto aereo, comprai una scatola di cerotti alla nicotina e partii per gli Stati Uniti. La mattina dopo il mio arrivo accompagnai il mio amico a Union Square, doveva andare a lezione e pensavo vi avrei assistito e sarei tornata indietro insieme a lui. Invece, dopo un caffè alla Barnes and Nobles, lui mi mise in mano una card per la metro, una piantina di Manhattan, una scheda telefonica per i telefoni pubblici (non avevo un cellulare adeguato alla bisogna) e un foglietto con su scritto l’indirizzo di casa e il suo numero di telefono. Poi mi fece ciao ciao con la mano e mi disse: a stasera. Boom. Ero in mezzo a una città sconosciuta, i grattacieli erano enormi, la luce accecante, l’aria condizionata a palla dappertutto, la gente era grande grossa e con l’aria coriacea ed efficiente, il sistema toponomastico, per me, un incubo. Presi un bus che si chiamava M1 per tornare immediatamente a rintanarmi in casa, ma durante il tragitto successe qualcosa. Stavo seduta con tutti i sensi all’erta per non sbagliare fermata e intanto sentivo i brividi e pregavo: per favore, fa che non arrivi adesso, non ora, non ora, ma cominciai a sudare, a tremare, a sentirmi mancare il respiro, chiusi gli occhi, li riaprii e mi guardai attorno: guerrieri femmine e maschi, senza paura, determinati a fendere la vita di slancio mentre io mi disintegravo e diventavo un pugno di cenere; di fianco a me, a destra, una donna alta e nerissima mi posò una mano sul braccio, alzai gli occhi a incontrare i suoi. Mi chiamo Mary, disse, sono un’infermiera. Era vero? Vidi che sotto il giubbottino di jeans portava un camice da ospedale verde, probabilmente aveva finito il turno e si era dimenticata di toglierlo, oppure aveva fretta, che ne so. Dentro gli occhi enormi di quella donna io però trovai qualcosa, quell’appiglio che mi sfuggiva da mesi, anni, qualcosa che non mi avrebbe mai più abbandonata: scoprii che gli esseri umani possono incontrarsi anche se non si conoscono, che fidarsi e affidarsi è quasi sempre l’unica cosa sensata da fare. Mi sciolsi in quel bruno liquido del suo sguardo e le dissi grazie e lei mi indicò la fermata sulla mappa e mi fece segno quando dovevo scendere e io scesi e poi arrivai fino al portone del palazzo con il numero giusto, presi l’ascensore, salii al piano giusto e trovai la porta giusta, me la chiusi alle spalle e mi lasciai cadere sul divano senza più muovermi né accendere la luce. Rimasi lì tutto il giorno a guardare l’Hudson River, fino a sera, in pace con l’universo. Avevo scoperto il trucco, la magia: non chiudere, ma apri. Non nasconderti, ma mostrati. Non tacere, ma esprimiti. Se hai paura, chiedi aiuto. Il giorno dopo, aprii la porta, chiamai l’ascensore, scesi in strada e uscii fuori dal palazzo. La storia della mia depressione, e della mia paura non erano finite, naturalmente – la storia della depressione e quella della paura forse non finiscono mai del tutto –, ma certamente era cominciato un capitolo nuovo» [Simona Vinci, Rep] • Nel 2019 arriva il premio Rapallo per Mai più sola nel bosco. Dentro le fiabe dei Fratelli Grimm (Marsilio) • Da ultimo L’altra casa è «un romanzo letterario che mescola fatti storici e fiction e si spinge nelle terre del mistery sovrannaturale e del fantastico» • «Per me il momento che segue l’uscita di un libro è terrificante, proprio perché mi sento improvvisamente vuota, senza scopo. La scrittura probabilmente è anche una sorta di autoterapia per sopportare l’esistenza e se non scrivo, quando non scrivo, proprio bene non sto. Ho in mente un paio di cose, che ho già cominciato, ma devo dire che questi ultimi due anni mi hanno fiaccata e per il momento non mi sento ancora le energie per mettermi subito in un viaggio faticoso e incerto quale è per me quello di scrivere un romanzo» [Del Sambro, cit.]. Amori Un figlio, Ettore, nato nel maggio 2012: «Non ho desiderato figli fino circa ai 40 anni, è stato un aborto spontaneo di una gravidanza non cercata fino in fondo a farmi capire che il mio corpo e la mia testa desideravano questa cosa che non sapevo concedermi da un punto di vista razionale. Quindi ho lasciato fare al caso e alla natura e il figlio è arrivato subito. Mi ricordo che stavo a Mosca per un Salone del Libro e avevo sempre fame, pensavo solo ai buffet, alle tartine col caviale, alla colazione, e quando sono tornata a casa e ho fatto il test ho scoperto che ero incinta. In certi momenti è stato pesante e doloroso anche per via di un parto difficile che mi ha messa fisicamente ko per molti mesi, ma ho avuto la fortuna di poter contare su un padre presente e comprensivo che mi ha aiutata moltissimo senza giudicarmi”» [emiliaromagnamamma.it] • Nel 2016 annuncia di aver sposato civilmente il padre di suo figlio per tutelare il bambino. «Un matrimonio, dunque, celebrato per avere diritti “perché le leggi dello Stato Italiano non garantiscono l’assistenza e la facoltà decisionale della compagna e del compagno di vita in caso di gravi malattie che purtroppo possono capitare”. “Non ho mai avuto il mito del matrimonio romantico e trovo una pagliacciata tutto ciò che ruota attorno ad un contratto. Bisognerebbe svincolare questo contratto dall’aspetto “sessuale’” Una famiglia può benissimo essere un patto tra persone (amici, amiche) che condividono oneri, diritti e doveri per scelta e per affetto. La spesa, alla faccia del business dei matrimoni sfarzosi, è stata di 16 euro in marca da bollo”» [Fanpage]. Per questo è stata attaccata dalla Chiesa: «Il matrimonio è di più, molto di più. Il senso di celebrare il matrimonio non può stare nella ricerca di una tutela istituzionale».
Titoli di coda Lei è felice ora? «Ci mancherebbe, no, no, non è nemmeno auspicabile. Solo uno scemo può dire di essere felice. Al massimo è una tendenza alla felicità» [a Massimo Vincenzi, cit.].