15 marzo 2025
Tags : Franca Leosini
Biografia di Franca Leosini
Franca Leosini, (Franca Lando coniugata Leosini), nata a Napoli il 16 marzo 1934 (91 anni). Giornalista. Conduttrice televisiva. «Io non faccio interviste. Faccio narrativa» (a Roberta Scorranese) • «Papà, Arturo Lando, era presidente della Borsa, della Camera di commercio, del Banco di Napoli, la città in cui sono nata. Aveva sei o sette incarichi contemporaneamente. Mio padre era un uomo adorabile e molto, molto conosciuto nell’ambiente della finanza. Per questo nel giornalismo ho firmato sempre con il cognome di mio marito Massimo Leosini, ex direttore di banca, e non con il mio cognome vero, Lando. Non volevo che qualcuno provasse a dire che lavoravo grazie all’importanza di papà» (a Lucio Giordano). Alquanto suggestivo, considerando l’ambito giornalistico cui la figlia avrebbe finito per dedicarsi, il fatto che Arturo Lando (1903-1973), che negli ultimi anni fu prima amministratore delegato e poi presidente della Banca privata finanziaria di Michele Sindona, sia morto, pochi giorni dopo aver rassegnato le dimissioni, in circostanze che all’epoca vennero giudicate misteriose (scarsissime le informazioni al riguardo: di «uccisione» parlò però esplicitamente Massimo Teodori, all’epoca deputato, nel corso di un intervento alla Camera il 2 agosto 1979). «Ho avuto un’adolescenza felicissima e molto viziata» (a Malcom Pagani). «Lei a scuola. “Brava ma non secchiona, non aspiravo al primo banco”. […] I suoi temi? “In italiano prendevo 9 o 10, mentre vivevo la matematica come un’opinione sbagliata, così gli insegnanti me la regalavano: si erano arresi e non potevano bocciarmi, visti i risultati nelle altre materie”. […] All’università? “Laureata in Lettere moderne con una tesi su François Villon; sul mio libretto c’era un solo 28”» (Alessandro Ferrucci). «Ho capito che questo sarebbe stato il mio lavoro al secondo anno di università. Studiavo con una amica bravissima in tutto tranne che in italiano. Lei si fidanzò con un professore di Geologia di 15 anni più grande. Lui venne mandato a lavorare in Egitto per tre mesi. Era un bell’uomo, molto interessante. La mia amica, visto che non sapeva scrivere, mi chiese di rispondere a suo nome alle lettere che si scambiavano. Ovviamente io scrivevo, ma a firma della mia amica. È iniziato un carteggio tra me e questo professore durato 90 giorni. Lettera dopo lettera, lei non esisteva più: era completamente scavalcata. Lui dopo tre mesi è tornato, si sono rivisti e dopo un mese si sono lasciati. Perché lui in lei non ha ritrovato la ragazza delle lettere. Di quella si era innamorato. Ma, le lettere, le scrivevo io. Quest’uomo non ha mai saputo chi fossi, ero più carina della mia amica e glielo avrei soffiato in un’ora se l’avessi conosciuto, ma non mi sarei mai permessa. Feci solo una cosa: andai a sentire una sua lezione. Seduta in un banco in fondo, per vederlo. Lui mi fissava, come se, la lezione, la facesse per me. Mi ha guardata tutto il tempo. Non ci siamo mai scambiati neanche un saluto, non ha mai saputo nulla. Ma in quel periodo ho capito che il mio lavoro sarebbe stato legato al giornalismo e alla scrittura». «Dopo la laurea in Lettere moderne, quando ero ancora alle prime esperienze, ebbi la fortuna di incontrare Sciascia. […] Dopo il primo incontro, tra un mercatino dei libri e un tè, trascorsi con lui cinque indimenticabili pomeriggi. Gli feci tenerezza, si fidò. Un giorno, mentre eravamo insieme, incontrammo Valerio Riva de L’Espresso. Mi vide prendere appunti in compagnia di Sciascia e si fece lasciare il mio numero di telefono. Mi chiamò: “Salta sul primo taxi e vieni in redazione: vorrei leggere la tua intervista a Leonardo”. Mi precipitai in via Po. Riva fu secco: “Domani mattina alle 5 ti mando il corriere per la consegna”. Feci la spiritosa e chiesi se avessi almeno diritto a una penna, e Valerio, sabaudo, sibilò: “Qui i diritti non sono in offerta: si conquistano”. Corsi a scrivere e consegnai nei tempi. La collaborazione nacque così. Il pezzo uscito su L’Espresso si intitolava Le zie di Sicilia. Leonardo attribuiva alla donna siciliana, vestale silente e cuore pulsante dell’omertà casalinga, la responsabilità morale della cultura mafiosa e, a grandi linee, la genesi della mafia stessa. A risultato raggiunto, Riva fu generoso». «Ero all’Espresso. Me ne andai in polemica col direttore Nello Ajello, che censurò un mio reportage sull’editoria barese. Criticai l’editore Laterza. Nello Ajello era un suo autore, e pretendeva di cambiare il pezzo» (a Francesco Specchia). In seguito ottenne la direzione di Cosmopolitan. «Dirigere Cosmopolitan, un colosso, fu dura. Arrivai in un difficile momento di passaggio e mi resi conto che la linea dell’edizione italiana era totalmente dettata dagli americani. Mi dimisi quando, dopo aver considerato un articolo impubblicabile, venni richiamata all’ordine: “L’editore ha detto che deve essere stampato”. Allora risposi a tono: “Se lo diriga lui, il giornale”. Il cervello, non lo prostituisco: se devo prostituirmi faccio qualcosa di più divertente. […] Il passaggio dalla carta stampata alla tv avvenne per caso». «Scrivevo per la pagina culturale del Tempo quando fui mandata a occuparmi del delitto di Anna Parlato Grimaldi, una nobile napoletana uccisa da Elena Massa. Dovevo solo ricostruire un ambiente aristocratico napoletano che conosco bene nel quale si consumò l’omicidio, mischiato a quello del giornalismo, perché al Mattino di Napoli lavoravano i protagonisti della vicenda. Un caso che fece scalpore. All’epoca c’era Telefono giallo, condotto da Augias. Lessero i miei pezzi, li apprezzarono e fui chiamata. Andai in video e ottenni ottimi riscontri. Angelo Guglielmi, allora direttore di rete, volle che io restassi. Così è nato Storie maledette» (a Michela Tamburrino). Era il 1994: la trasmissione sarebbe andata in onda per diciassette edizioni, fino al 2020. «Il primo incontro di Storie maledette fu con Rosalia Quartararo. Una donna che uccise la figlia perché si era innamorata del suo fidanzato. Un caso di grande impatto emotivo. Con lei sono ancora in contatto, mi scrive. Si doveva sposare in carcere, le comprai anche l’abito da sposa. Alla fine, però, il matrimonio non si è fatto». «Storie maledette ha una sua tipologia precisa. Di un condannato, in scena, c’è tutto il percorso. La salita, la discesa, la consapevolezza. Non solo il lustrino del traguardo finale o della redenzione. […] I miei interlocutori non sono mai professionisti del crimine, ma persone come me che a un certo punto della loro vita cadono nel vuoto di una maledetta storia. Affronto sempre le mie storie con curiosità. Ho il desiderio di capire che tipo di guasto si sia verificato in precedenza. Cosa spinga un essere umano a compiere un gesto che in teoria non gli somiglierebbe. […] Ai miei interlocutori non rivelo mai in anticipo le domande che porrò né come andrò a impostare il colloquio. Rubo l’anima per poi restituirla. […] Le mie storie si concentrano su chi non ha mai aperto bocca prima e non parlerà più dopo. […] Cerco un’analisi verticale, profonda. Altri inseguono una lettura dei fatti orizzontale». Tra i tanti reclusi che ha incontrato, la «mantide di Cairo Montenotte» Gigliola Guerinoni («forse la persona meno autentica che abbia incontrato nel mio percorso»), il massacratore del Circeo Angelo Izzo («Non mi perdono di aver creduto al suo pentimento»), il «collezionista di anoressiche» Marco Mariolini, Vanna Marchi, Immacolata Cutolo, Rudy Guede, Luca Varani, Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Tra il 2004 e il 2008 ha condotto su Rai Tre anche Ombre sul giallo, incentrato su casi particolarmente complessi, che venivano analizzati in studio mettendo in discussione i punti deboli della ricostruzione processuale e talvolta vagliando nuovi elementi (proprio in seguito alle nuove rivelazioni fornite da Pino Pelosi in una puntata furono per breve tempo riaperte le indagini sul delitto Pasolini). Da ultimo, nel novembre 2021, ha condotto su Rai 3 Che fine ha fatto Baby Jane?. «Qui indago sul terzo atto della vita di un individuo che ha ucciso e che ha scontato la pena. Mi interessa scoprire qual è il loro destino e che cosa possono ancora dare alla società. In che misura vengono riaccolti e qual è la loro nuova realtà umana. […] Mi pongo nell’ottica della comprensione. Mi chiedo quale guasto abbia potuto portare dalla quotidianità al gesto estremo. I protagonisti scendono con me nell’inferno del loro passato per rintracciare il momento che ha stravolto la loro vita» • Poche le apparizioni al di fuori dei suoi programmi: una sul grande schermo, un cammeo in Come un gatto in tangenziale di Riccardo Milani (2017), e una sul palco della LXVIII edizione del Festival di Sanremo (2018), su invito dell’allora direttore artistico e presentatore Claudio Baglioni. «Fu lui a chiamarmi e mi prese di sorpresa: non avrei mai immaginato una richiesta del genere, e quell’esperienza, in particolare l’uscita sul palco, ha generato un’emozione speciale» • Due figlie dal marito Massimo Leosini. «“Prima di sposarmi ero fidanzata con un neurochirurgo italiano professionalmente impegnato a New York. Io avevo vent’anni, lui 35. Pochi giorni prima del nostro matrimonio squilla il telefono, e dall’altra parte sento una voce di donna”. E… “Capisco che è una sua collega, che hanno una relazione, e arriva a minacciarmi: ‘Se ti presenti in chiesa, ti sparo sull’altare’”. E lei? “Nessuna esitazione: non sono caduta nel tranello della competizione tra donne, la menzogna di lui mi aveva reso determinata”. Immediatamente. “Sì, davvero, e non rimasi turbata dal tradimento: a quel tempo potevo comprenderlo, lui adulto e all’estero, io ragazza e a Roma. Ciò che mi ha ferita è stata la menzogna, non aver cercato la mia complicità; (abbassa il tono della voce) chiusa la telefonata, per non essere vista da lui, uscii dal cortile di casa loro acquattata nel fondo di un’auto; (si ferma un paio di secondi) in qualche modo ho rischiato di diventare una ‘storia maledetta’”. Dopo di che? “Lui provò a cercarmi, a offrire delle spiegazioni, a sminuire il ruolo dell’altra…”. È letteratura… (Sorride). “È vita. Per convincermi a cambiare idea si mise di mezzo pure il delegato apostolico degli Stati Uniti”. Addirittura. “Prima con delle lettere, poi lo incontrai a Napoli, ma niente, mai vacillato: la vicenda era troppo grossa”. Quanto tempo ha impiegato per superare lo choc? “Pochi mesi dopo ho conosciuto Massimo, e la mia vita è cambiata; (sorride) ci siamo conosciuti a una festa, e lì mi disse: ‘Sai che hai belle gambe?’. Risposi: ‘Con me l’adulazione non attacca’”. Perfetto. “Non si arrese”» (Ferrucci) • «Franca, tu sei credente? “Moltissimo. In borsa tengo i santini di Padre Pio e di papa Giovanni. Ogni tanto, quando c’è qualche piccolo problema quotidiano, mio marito mi dice: ‘Dài, attiva i tuoi amici’”. Ti fanno compagnia? “Sì, quando mi rivedo in tv, la domenica sera, rigorosamente da sola o al massimo con mio marito, tengo in mano rosari e immagini di Padre Pio”» (Scorranese) • «Che pensa delle battaglie delle donne? “Non sono d’accordo con le quote rosa: credo solo alla ‘quota qualità’. Ritengo le cosiddette quote rosa una sorta di ghettizzazione impropria”» (Silvia Fumarola). «Le parole tipo “avvocatessa”, “sindaca”, “ministra”, le trovo orribili. È come sentire un’unghia che stride su una lavagna. Ci sono delle cose che sono brutte, sgradevoli: non credo che si qualifichi una persona cambiando l’articolo. Detesto queste cose come detesto il termine femminicidio, perché le donne sono persone, non femmine. Il maschicidio non esiste nel lessico: perché deve esistere la parola femminicidio?». «Lo dico sempre: bisogna scappare non al primo schiaffo, ma al primo accenno di un gesto di violenza. E denunziare. Noi donne non abbiamo più scuse per non difenderci. A volte mi arrabbio anche. Bisogna avere la forza di fare delle scelte che, sì, possono essere dolorose, ma sicuramente è più doloroso finire in un ospedale, o anche peggio. La violenza è sempre inaccettabile» • «Sono una lettrice onnivora, tranne che di gialli» (a Renato Franco). «Il Nabokov di Lolita è imperdibile. E lì si legge una frase che adoro: “Puoi sempre contare su un assassino per una prosa ornata”». «A sangue freddo è Storie maledette» • Ama cucinare. «È un passatempo e un’arte» • «Un vizio. “Non fumo per scelta e nonostante la forte tentazione. L’unico che ho è la cioccolata al latte, da assaporare la notte dopo l’ultimo telegiornale”. Scaramanzia. “Non sono legata a queste forme, però se posso evito di registrare una puntata il martedì o il venerdì, e quando capita mi racconto delle favole per non fissarmi sulla debolezza, per non giudicarmi”» (Ferrucci) • «La chioma-impalcatura mesciata più famosa della televisione. […] Fisico asciutto e trucco sapiente. […] Belle gambe che in tv non si vedono mai. “C’è un motivo. Anni fa, durante una puntata indossai una gonna. Il giorno dopo un collega mi disse che non aveva capito nulla di quello che avevo detto perché guardava solo le mie gambe. Da quella volta bandii le gonne”» (Scorranese). «È sempre elegantissima. Ha un debole per la moda? “Mi piace essere in ordine. Compro io i vestiti. Un grande complimento che mi hanno fatto è che ho le ossa eleganti”. Quella messa in piega che intimorisce un po’ come nasce? “Ma per carità: mi lavo e mi asciugo i capelli, spazzola e phon, poi mi metto i bigodini. Ho tanti capelli”» (Fumarola) • «In grado di colloquiare con feroci serial killer mantenendo l’espressione imperturbabile di una signora inglese al tè delle cinque» (Specchia) • Molto caratteristico il suo eloquio, «il “leosinese”, un linguaggio tutto suo, ricercato e ricco di metafore immaginifiche. La caccia alla citazione inonda i social. Dagli “approcci gioiosamente sporcaccioni” a “quando l’acqua arriva alla gola ci si può aggrappare anche alla pinna di uno squalo”, a “il Dna del dito birichino” o, ancora, “lei è nato povero perché, si sa, la cicogna è un animale sbadato”» (Silvia Locatelli). «Una delle responsabilità più gravi della televisione è aver abbassato il livello del linguaggio. La tv non deve diseducare. La gente parla come noi, siamo dei modelli. […] Amo saccheggiare la letteratura, e non accetto di rinunciare a umanità e ironia. Non voglio che il mio racconto somigli a un mattinale della questura». «Io, le parole, non le uso: le posseggo. Sono state fatte anche tesi di laurea sul mio lessico». «Il linguaggio è importante, e quello è il mio modo di parlare. Bisogna avere la fortuna di avere un talento, detto senza arroganza. C’è chi sa suonare uno strumento. Io ho una certa capacità dialettica» • Nel 2019 il Vocabolario Treccani ha accolto tra i neologismi il termine «leosiner»: «chi sostiene con entusiasmo la giornalista Franca Leosini». «Sono felice che in rete ci siano i #leosiners, i fan che prendono le mie frasi e le fanno diventare virali. […] Che dire? Forse, in un mondo dove tutti parlano allo stesso modo, un linguaggio più curato e una trasmissione fatta inseguendo la qualità fa la differenza? Io però ancora non me lo spiego, così come non mi spiego perché sono un’icona gay. Certo, mi fa molto piacere che nel 2013 mi abbiano premiato come tale al Muccassassina. Ho anche ballato» • «È uno strano impasto tra Camilla Cederna e Padre Brown» (Specchia). «Se esistesse un Oscar per la tv lo vincerebbe Franca, con questa motivazione: l’unica giornalista che, invece di raccontare la vita del Palazzo, racconta quella della gente esclusa dal consorzio civile» (Vittorio Feltri). Tra i suoi principali detrattori c’è invece Aldo Grasso, che ha definito i suoi programmi «tetra letteratura di appendice»: «Un po’ psicologa, un po’ giudice, un po’ voyeur che sbircia a nome degli spettatori nel privato del killer, Franca attizza il fuoco del contrasto, rimprovera, consola, gode dell’iperbole e del trionfo di figure retoriche. E il caso affonda nell’eloquio». «Non puoi e non devi piacere a tutti. Grasso non mi apprezza, ma non importa. Rimedio io. Lo ammiro e non me ne vergogno» • «I processi non si discutono, è ovvio. E l’unica verità è la loro. Ma i processi si interpretano. Con umanità. E oggi in tanti mi sono grati». «I tre verbi che frequento sono: capire, dubitare e raccontare. Lascio le certezze agli imbecilli: noi del programma cerchiamo di non averne. Studio gli atti parola per parola. Quando incontro una persona, ho preso talmente tante informazioni che ne so più io di lei». «“È così interessante studiare i delitti: puoi raccontare l’Italia e i cambiamenti del Paese attraverso la cronaca nera. I delitti passionali avvengono al Sud come al Nord”. […] Cosa la incuriosisce dei delitti? “L’aspetto umano. Ci sono storie pazzesche, cinematografiche. Matteo Garrone ha tratto due film da due casi di Storie maledette: il collezionista di anoressiche ha ispirato Primo amore e il nano di Termini L’imbalsamatore”» (Fumarola) • «Come immagina l’aldilà? “Non lo immagino. Sull’argomento non mi faccio troppe domande, per non dovermi dare brutte risposte”. Domande di che tipo? “Ad esempio: che cosa c’è dopo la morte? Sia ben chiaro, nell’aldilà, ci spero. Ma nessuno è mai tornato sulla terra per dirci com’è. E se esiste”» (Giordano).