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 2025  marzo 31 Lunedì calendario

Biografia di Arrigo Sacchi

Arrigo Sacchi, nato a Fusignano (Ravenna) il 1° aprile 1946 (79 anni). Ex allenatore di calcio. Con il Milan vinse uno scudetto (1988), due coppe dei Campioni (1989, 1990), due coppe Intercontinentali (1989, 1990) ecc. Con la Nazionale fu nel 1994 vicecampione del mondo (sconfitta ai rigori in finale col Brasile). Nel 2019 France Football lo ha inserito al terzo posto della classifica dei 50 migliori tecnici di tutti i tempi. «Il mio amico Ancelotti ha scritto: Sacchi era così convinto di quello che ci insegnava che alla fine gli abbiamo creduto».
Vita «Prima del calcio chi è stato Arrigo Sacchi? “Uno che ha vissuto a lungo in una provincia laboriosa dove c’erano 60 calzaturifici. Mio padre ne gestiva un paio. Vi ho lavorato per 13 anni. Quando si ammalò, senza sapere nulla di scarpe, lo sostituii. Avevo 19 anni. Da bambino mi portò con sé in Germania. Mi accorsi che i lavori più umili ricadevano sugli italiani. E mi venne spontaneo dire: ma papà, non eravamo noi i furbi e loro i crucchi? In quel momento compresi che la furbizia non paga”. Perché c’è sempre qualcuno più furbo? “Non in quel senso. Sono convinto che solo il lavoro ben fatto può dare risultati durevoli. Il resto sono chiacchiere e sotterfugi”. Vale anche per il calcio? “Certo, e l’ho dimostrato”. Come nasce questa sua passione? “Da principio giocando, ma senza risultati incoraggianti. Meglio mio padre che fu anche giocatore della Spal. Più che la voluttà del gioco, da lui ho appreso il senso del dovere e l’intransigenza”. Da sua madre cosa ha preso? “Un pizzico di follia, tipico dei romagnoli” […] Aveva già un’idea di gioco? “Pensavo che una squadra dovesse creare bellezza e determinazione. Da giovane avevo visto giocare la grande Ungheria. In casa non avevamo la televisione. Seguii l’Ungheria di Puskas e il superbo Real Madrid in casa di un amico. Uno spettacolo vedere come certe squadre producevano bellezza e risultati”. Lei per chi tifava? “Per l’Inter. Ero felice del suo periodo d’oro. Per i risultati conseguiti da Herrera. Ma la squadra non mi dava la stessa emozione del Real Madrid. O del Brasile. O dell’Ajax di qualche anno dopo”. Cosa avevano in comune? “Velocità, intelligenza e armonia le rendevano padrone del campo e del pallone”» (ad Antonio Gnoli) • La carriera tra i professionisti cominciò nel 1977, al settore giovanile del Cesena, dove restò fino all’82, con un anno di stop per frequentare il Supercorso di Coverciano (1978-1979). Nell’82 guidò il Rimini in C1: quarto posto, promozione sfiorata. Nell’83, chiamato da Allodi, andò ad allenare la Primavera della Fiorentina. Tornato a Rimini nell’84, ottenne ancora un quarto posto in C1. Nell’85 andò a Parma (C1) e ottenne la promozione in B. Nel 1987 fu chiamato dal Milan, che aveva eliminato in coppa Italia. Ha allenato anche l’Atlético Madrid nella stagione 1998-1999, è stato dirigente del Parma, directór de futbol del Real Madrid • «A Bellaria arrivai in panchina da signor nessuno, come al solito. C’era in squadra un giocatore che era stato in A e in B. Un giorno sentii che diceva “io non ho mai fatto nessuna delle cose che ci chiede questo qui: o è un folle oppure un genio”. Spero la seconda, gli risposi» • «Quando decisi di smettere di lavorare per far l’allenatore, dissi a mio padre: “Ho capito che vivrò una vita sola e quindi devo viaggiare”, perché purtroppo morì mio fratello e dovetti io far la parte commerciale: “Devo viaggiare e non mi piace il lavoro, a me piace il calcio. Vivendo una vita sola dico smetto di lavorare e vado a fare l’allenatore”. Andai a fare l’allenatore al Cesena e il presidente mi disse: “Che cosa vuole?” e io risposi: “Mi dia lei quello che vuole”, e lui disse: “No, poco, ma mi dica lei”, e prendevo di stipendio in un anno quello che a lavoro con mio padre io prendevo in un mese, e quando dovevo fare dei contratti all’inizio mi vergognavo sempre perché mi vergognavo di chiedere dei soldi per una cosa che mi piaceva così tanto, e quando mi son fatto pagare, e le assicuro che ho preso molto di meno di quanto avrei potuto... l’unica volta che ho preso davvero dei soldi fu il secondo anno al Milan (…) Berlusconi mi chiese un favore: lui sapeva che io dovevo incontrarmi con una società il venerdì, mi chiese, disse “Guardi io devo andar via alcuni giorni, le chiedo un favore, di rimandare quell’appuntamento, e noi ci ritroviamo qua lunedì prossimo”. Dissi “Sì”, però non ero convinto, andando a casa dissi no, non posso fare una figuraccia del genere, rimando un appuntamento e poi... e la mattina telefonai a Rognoni (responsabile dei servizi sportivi Mediaset, ndr) e gli dissi “Guarda, ringraziali molto ma non me la sento di fare una figuraccia del genere... Io mi devo ancora incontrare, non posso dire rimandiamo...”. Mi disse “Sei matto? Al 99 per cento sei tu l’allenatore del Milan”. Dissi: “No no, non me la sento” e andai agli allenamenti del Parma. Ricordo che quel giorno la sera torno a casa e mia moglie mi dice “Guarda, chiama subito Ettore Rognoni che t’ha cercato due o tre volte», e mi fa “domani sera hai degli impegni?”. “No”. “Allora non ci sarà Berlusconi ma ci sarà Galliani, Paolo Berlusconi, Confalonieri”. Dico: “Mah per me son anche troppi” e andai su, e allora lì capii che volevano veramente prendermi come allenatore. Andai su e firmai in bianco. “Voi avete un grande coraggio”. Io dico: “O siete dei fenomeni o siete dei suicidi e comunque io firmo in bianco”, e presi meno di quanto prendevo a Parma... E feci un contratto... Io facevo sempre contratti di un anno solo perché volevo smettere» (a Francesco Pacifico) • «Come l’accolsero i giocatori al Milan? “Venni soprannominato “il signor nessuno”. In fondo lo ero: venivo da una lunga gavetta in serie minori e dall’aver allenato squadre che portai in B. In pratica vollero farmi sapere: primo chi è questo, secondo cosa pensa di fare, terzo lo sa chi siamo noi? Uno dei più scettici nei miei riguardi fu Franco Baresi. All’inizio dunque non fu per niente facile”. Che idea di calcio voleva trasmettere? “Cercavo di contrastare l’idea che all’estero avevano di noi: paese di pizza, mafia e catenaccio. Almeno il catenaccio volevo provare a smentirlo”. Fu una delle sante verità proclamate e difese da Gianni Brera. “Grandissimo giornalista, con una prosa che ammaliava. Ma le nostre visioni erano opposte. Prima della semifinale di ritorno con il Real scrisse che avremmo giocato contro i maestri del calcio, perciò bisognava attenderli e uccellarli. Non li attendemmo e vincemmo cinque a zero”. […] All’inizio però i suoi giocatori non la prendevano sul serio. “Diciamo che ai loro occhi ero un corpo estraneo. Allora cercai di spiegare che per rendere davvero un uomo libero occorrono tre cose: le idee, la bellezza e il coraggio. E poi aggiunsi che tutto questo sarebbe servito a poco se non fosse stato messo al servizio degli altri, nel nostro caso della squadra. Un gruppo diventa grande e fa cose grandi se c’è una sinergia”. Sinergia è una parola molto aziendale. “È vero, ma io vengo dal lavoro di azienda. Da mio padre che ha fatto questo nella vita. Ho sempre creduto nell’etica del lavoro. Io conosco la precarietà della vittoria ed è il motivo per cui senza i valori non si va da nessuna parte. Sa perché il Milan è stato grande? Perché aveva imparato ad essere uno splendido collettivo in continua evoluzione dove tutti praticano la fase offensiva e difensiva, collegati da un filo invisibile che è il gioco”. In questa visione che ruolo ha la grande individualità? “Il genio può risolvere una o più partite, perfino farti vincere un campionato. Ma la sua azione è tanto più esaltante quanto più è integrato in un disegno collettivo” […] Lei ha avuto dei casi difficili. “A chi pensa?”. Gullit e Baggio per esempio. O anche ai rapporti a volte complicati con Van Basten. “Van Basten fu un caso montato dai giornali. Avevamo perso alla seconda giornata con la Fiorentina e i giornali scrissero che Van Basten bocciava il gioco di Sacchi. La partita seguente lo misi in panchina per fargli capire da che parte stava l’autorità. Marco non aveva un carattere forte come Gullit. E la polemica con quest’ultimo nacque solo da un equivoco. E credo fermamente che Ruud sia stata la nostra energia. Quanto a Baggio, che ci segnò un gol spettacolare nella partita che perdemmo con la Fiorentina, pensava che io fossi il suo allenatore privato. Mi diede del matto quando lo cambiai al mondiale contro la Norvegia”. Confermerebbe ancora oggi quella decisione? “Credo che molti tifosi mi avrebbero linciato. Ma fu una scelta giusta. Eravamo in dieci, dopo l’espulsione del portiere, e lui non aveva più lo smalto per correre”. Quel mondiale del 1994 finì con il Brasile che vinse sull’Italia ai rigori. Si rimprovera qualcosa? “No, una finale così, in quelle condizioni, si può perdere. Credo che siamo andati ad un passo dal sogno. E altre volte sono andato oltre il sogno. Quando lo dissi ai miei giocatori mi risposero che non erano coscienti di quello che stavano facendo e io dissi loro: se vi può consolare anch’io non lo ero”» (a Gnoli) • «Una volta Van Basten mi disse: mister, ma perché agli altri basta vincere e noi del Milan dobbiamo anche convincere? Gli risposi: Marco, se vuoi rimanere nella memoria della gente devi vincere in un certo modo, facendo anche divertire il pubblico, perché non basta la vittoria in sé. Forse è per questo che io vengo ricordato così tanto, anche al di là delle vittorie, poche o tante, che ho ottenuto» (da un’intervista di Andrea Sorrentino) • Il suo nome figura nella Hall of Fame del calcio italiano, l’Arca della gloria del pallone tricolore nata dall’ iniziativa della Federazione e della Fondazione Museo del Calcio. Al museo di Coverciano ha donato la tuta che indossava a Usa ’94 • Smise di allenare nel 2001, mentre era a Parma, per un attacco di stress. Sempre per stress ha lasciato il coordinamento delle nazionali giovanili nel 2014 (il Milan gli ha offerto un ruolo analogo nel proprio staff) • «Ci sono tre categorie: i menefreghisti, gli arrivisti che sono pure peggio, e i perfezionisti. Io sono un perfezionista, dunque un ansioso. Penso che potrei fare sempre di più, sempre meglio, e quando sbaglio è quasi sempre per eccesso. Si paga un prezzo, ci si consuma, ma soltanto così ci si realizza veramente. Altrimenti è un lasciarsi vivere (…) Per un tempo lunghissimo il mio stress è stato un plusvalore, una seconda carica di adrenalina. Alla lunga, però, il logorio non perdona. E se ti senti vuoto, non puoi riempire gli altri» (a Maurizio Crosetti).
Famiglia Sposato, due figlie, Federica e Simona. Nell’estate 2007 il Tribunale dei minori di Bologna lo ha indicato come il padre della bambina nata nel 2003 da una donna di Brescia • «Non sono stato un buon padre, per lungo tempo non ho dormito a casa per più di tre notti di seguito. Vorrei almeno essere un buon nonno» (nel luglio 2014, spiegando le sue dimissioni da respondabile del settore giovanile della Fgci).
Critica «Il campionato Primavera vinto con i ragazzi del Cesena è forse dal punto di vista tecnico il più grande successo della sua carriera. Altri hanno vinto scudetti con il Milan, nessun altro ha vinto campionati Primavera con il Cesena. Ma Sacchi non è stato un vero tecnico. Sacchi aveva il nerbo e la rapidità degli innovatori. Non ha inventato mai niente. C’era già tutto prima di lui, la zona, le ripartenze, l’aggressione agli spazi. Si chiamavano in altro modo ma esistevano già. Sacchi inventò altre cose. Il ritmo del calcio, un nuovo metodo di lavoro. L’allenamento forsennato, la teoria del sacrificio ad ogni costo. Che andava adattata, normalizzata, ma già era sconvolgente. Sacchi portò il nostro calcio nella modernità, ne fece, quasi involontariamente, qualcosa pronto per diventare un fenomeno industriale. Infatti il suo vero avversario non fu un altro tecnico, ma Diego Armando Maradona, il calcio patriarcale che rappresentava, il talento che se ne frega del metodo e invita tutti a seguirlo per allegria. Chi abbia vinto è difficile dire e anche poco importante. Importante è rappresentare qualcosa, saperla fare. Tocca agli altri scegliere. Sacchi faceva muovere le sue squadre come fossero le migrazioni di un popolo. Le vedevi ripartire ogni volta e allargarsi rapide come uno sciame d’api. Gli avversari stretti contro le fasce laterali, stremati, stupiti, battuti. Alla fine degli anni Ottanta, con tanto calcio olandese negli occhi e tanto calcio italiano da dimenticare, il suo Milan fu uno spettacolo straordinario» (Mario Sconcerti) • «Nel suo gioco non conta l’individuo, conta il sistema. Contano certamente gli interpreti adeguati, ma devono sapere che non sono assolutamente dei solisti. Ma parte di un’orchestra. Ci sono teorie politiche che sostengono esattamente quello che Sacchi ha realizzato col Milan» (Massimo Cacciari).
Frasi «Il calcio è come la scuola: se hai un’idea non hai paura di sederti in prima fila» • «Sapete come la penso, il calcio è uno sport di squadra con momenti individuali, non il contrario» • «Qualcuno ha detto: se una cosa funziona dopo un po’ correggila. Lo so, è strano. Ma ho sempre pensato che una vittoria senza merito è solo una mezza vittoria. Siamo un popolo strano. Il vecchio Ferrari diceva: siamo brava gente ma non perdoniamo chi vince».