4 aprile 2025
Tags : Anita Raja
Biografia di Anita Raja
Anita Raja, nata a Napoli il 5 aprile 1953 (72 anni). Traduttrice. Germanista. Italianista. Secondo l’ipotesi più accreditata, autrice (o coautrice, insieme al marito Domenico Starnone) dei libri firmati con lo pseudonimo di Elena Ferrante (oltre 10 milioni di copie vendute nel mondo). «La traduzione è essenzialmente apertura all’altro da sé» (a Elena Loewenthal) • Prima dei due figli del magistrato napoletano Renato Raja, cattolico, e dell’insegnante tedesca di ascendenze polacche Golda Frieda «Goldi» Petzenbaum, ebrea. «Nata nel 1927 a Worms da genitori ebrei fuggiti dalla Polonia, nel 1937 Goldi aveva lasciato la Germania con i genitori, trasferendosi a Milano. Il 18 settembre dell’anno successivo, dal balcone del municipio di Trieste, Mussolini aveva annunciato i primi “provvedimenti per la difesa della razza”, che avevano avviato le persecuzioni fasciste contro gli ebrei, in particolare stranieri, rendendo l’esistenza della famiglia di Goldi estremamente precaria. Il 15 giugno del 1940, cinque giorni dopo l’entrata in guerra dell’Italia, il ministero dell’Interno aveva poi emanato un ordine di arresto per tutti gli ebrei stranieri, che aveva in seguito causato la deportazione della famiglia Petzenbaum nel più grande campo d’internamento per ebrei stranieri d’Italia, quello di Ferramonti, in provincia di Cosenza. Lì il nonno della scrittrice [l’autore identifica con certezza Elena Ferrante con la Raja – ndr], Abraham, detto Wrumek, aveva ricevuto cartoline dal padre, all’epoca chiuso con la madre nel ghetto di Cracovia, da sua sorella Gusta, prigioniera nel ghetto di Tarnów, e, dopo che questa era stata trasferita in un campo di sterminio, anche dai suoi figli, Sarah e Joshua. Nessuna di queste persone è sfuggita all’Olocausto. Per Goldi la tragedia non si era conclusa con la liberazione del campo di Ferramonti da parte degli Alleati che stavano risalendo l’Italia dal Sud. Prima che questa avvenisse, Wrumek l’aveva fatta fuggire a Milano, da un’amica di famiglia, e dopo la nascita della Repubblica di Salò Goldi era stata costretta a rifugiarsi in Svizzera, dove era rimasta fino all’estate del 1945, quando era finalmente riuscita a ricongiungersi con i genitori, andati a vivere a Napoli» (Claudio Gatti). «A Napoli Goldi si iscrisse al liceo classico Jacopo Sannazaro, dove, frequentando una classe per alunni di religione ebraica, divenne grande amica di una ebrea napoletana, Anita Gherscfeld, anche lei residente in via Cimarosa. Dopo aver conosciuto un giovane magistrato napoletano, Renato Raja, pur davanti a una leggera ritrosia dei genitori, che vedevano con preoccupazione l’unione con un cattolico, lo sposò. Nel 1953 nacque la loro prima figlia, che Goldi volle chiamare Anita. Tre anni dopo arrivò anche un figlio, Mario, e la famiglia si trasferì da Napoli a Roma. […] Da adulta, a 53 anni, dopo la morte del marito, […] si è reinventata rituffandosi nella lingua dei suoi parenti (e dei suoi persecutori), il tedesco, andando a insegnarlo in una scuola privata di Roma e co-pubblicando due libri di grammatica con la germanista romana Elisabetta Mattioli» (Gatti). Alquanto scarse le notizie biografiche su Anita Raja: tra queste, il fatto che da ragazza studiò Lettere moderne, laureandosi con una tesi sulla produzione saggistica di Italo Calvino. «Anita Raja, quando ha cominciato a tradurre? […] “Io non sono di madrelingua tedesca. Mia madre era tedesca, ebrea di origini polacche, e quindi il mio rapporto col tedesco passa attraverso il rapporto con mia madre. […] Il tedesco per lei era la sua lingua materna, però l’ha sentito anche, da un certo punto in poi, come una lingua matrigna. Perciò non l’ha voluto parlare con noi figli, ma ovviamente lo parlava con i suoi genitori, quindi era una lingua familiare, personale, intima, intessuta di espressioni yiddish. […] Pertanto, il tedesco, non l’ho studiato da giovane, ma lo ascoltavo, imparandolo di fatto in modo irriflesso. Io sono un’italianista, […] però, il tedesco, lo leggevo sempre, anzitutto perché a casa c’era una ricchissima biblioteca di classici in lingua tedesca – Goethe, Schiller, Thomas Mann eccetera –, e a casa mia vigeva il principio che i classici si leggono solo in lingua originale. […] Questa biblioteca mi ha sempre incuriosita: prendevo i libri e capivo quel che leggevo, almeno in una certa misura. Poi a un certo punto – parliamo di fine anni ’70, inizio anni ’80 – degli amici che avevano appena fondato una piccola casa editrice, Edizioni e/o (adesso non più tanto piccola), cercavano qualcuno che leggesse dei testi in tedesco e preparasse delle schede di lettura, con eventuali consigli, per selezionare quelli da tradurre: ho cominciato così. A quel punto m’è venuta voglia di approfondire la conoscenza del tedesco, che avevo assimilato senza studiarlo, quindi mi sono messa a studiare parallelamente la grammatica, la letteratura, e ho ottenuto alcune borse di studio all’estero, tra cui una – miracolosamente, a pensarci oggi – nella Germania dell’Est. Lì mi si è aperto un mondo, dal punto di vista letterario, perché – parliamo degli inizi degli anni ’80, quindi prima della caduta del Muro – delle letterature dei Paesi dell’Est, che ricadevano nell’orbita dell’Unione Sovietica, si sapeva veramente poco, e c’era una fetta di letteratura in lingua tedesca, che nasceva nella Germania dell’Est, di cui solo in ambito accademico si sapeva qualcosa. Ecco, lì ho scoperto una produzione letteraria molto vivace, una letteratura improntata a una concezione forte, con un rapporto stretto tra privato e pubblico: questo per me è stato molto utile, e ho cominciato a proporre dei testi. La mia prima traduzione in assoluto, pubblicata da Edizioni e/o, risale al 1982 ed è quella di Nozze a Costantinopoli di Irmtraud Morgner, un libro del 1968. Poi ho tradotto altre autrici, più o meno note, tra cui Helga Königsdorf, fino ad arrivare a Christa Wolf, di cui ho tradotto il primo libro nel 1984, ed è stato Cassandra”) (Chiara Valerio). «Bachmann e Kafka sono solo due dei nomi che hanno segnato l’esperienza di Anita Raja come traduttrice. Quando però dal 1984 comincia a tradurre la maggior parte delle opere di Christa Wolf, prende avvio qualcosa di diverso e più profondo. Una scommessa intensa di restituzione, cura e ascolto del linguaggio complesso e ineguagliabile di una delle voci più alte e significative del Novecento europeo. Tradurre è un rapporto tra due lingue che solo in seconda istanza – e non necessariamente – diventa una relazione di scambio tra due persone. Tra te e Christa Wolf sono capitate entrambe le cose. Che cosa ha significato esserti misurata con lei? “Tradurre è stabilire una relazione che parte da un testo scritto e produce un altro testo scritto. È un lavoro che mi piace molto perché permette di tracciare linee di collegamento tra individualità, lingue e culture distanti. In genere la traduzione è il risultato dell’incontro di due sensibilità, in cui una si mette al servizio dell’altra subendone l’autorità, la fascinazione, ma sperimentando anche un potenziamento di sé. Questo è accaduto con Christa Wolf al massimo grado. Alla disparità sempre un po’ angosciosa che caratterizza l’atto di tradurre – la lingua del traduttore è al servizio di quella dell’autore e si sente quasi sempre insufficiente – si è affiancato un rapporto fecondo, in cui sono stati messi in gioco sentimenti importanti: riconoscimento, riconoscenza, ammirazione, gratitudine. Il legame che ho stabilito con Wolf è per me un’esperienza unica e irripetibile. […] Ho conosciuto Christa Wolf nel 1984, conoscenza che negli anni si è trasformata in amicizia. Il puro e semplice lavoro sulla sua parola scritta si è arricchito, è stato come passare dai libri al corpo, alla voce, allo spazio domestico, allo spazio pubblico. Ho avuto la possibilità di entrare nel suo laboratorio, avvicinarmi al suo ambiente, ai suoi affetti, ai luoghi del suo quotidiano, all’esperienza che lei volgeva in letteratura. Ho potuto collocarla nella sua casa di Berlino e in quella del Meclemburgo, sfondo di tanti suoi libri, ho conosciuto insomma la sua ‘normalità’. Tutti i suoi libri nascono dall’interno di questa normalità. La sua scelta di raccontare il versante quotidiano della grande storia è stata anche la negazione dello stereotipo della genialità. Per me questo è stato molto istruttivo”» (Alessandra Pigliaru). A lungo direttrice della Biblioteca europea di Roma presso il Goethe Institut, proprio nella sede della storica istituzione culturale tedesca nel febbraio 2008 la Raja è stata insignita del Premio italo-tedesco per la traduzione letteraria, con riferimento alla sua opera di traduzione dei testi di Christa Wolf. Tra gli ultimi libri da lei tradotti, La metamorfosi di Franz Kafka, per Marsilio (2024) • L’attribuzione alla Raja dei libri firmati con lo pseudonimo di Elena Ferrante – otto romanzi (da L’amore molesto, del 1992, a La vita bugiarda degli adulti, del 2019, passando per la quadrilogia de L’amica geniale, di grande successo internazionale), tre saggi e un libro per bambini, tutti pubblicati presso le Edizioni e/o –, data per scontata da Dagospia già nel febbraio 2015 («lo sanno anche i sassi, che la scrittrice che fa impazzire i letterati di New York è la 62enne traduttrice napoletana Anita Raja»), fu proclamata dimostrata dal giornalista investigativo Claudio Gatti il 2 ottobre 2016 – in un articolo pubblicato sull’allegato Domenica de Il Sole 24 Ore e contemporaneamente da Frankfurter Allgemeine Zeitung, Mediapart e The New York Review of Books – adducendo numerosi indizi, i più cogenti dei quali relativi ai compensi corrisposti alla Raja da parte della casa editrice e/o, grandemente aumentati in concomitanza con la deflagrazione del successo internazionale dei libri della Ferrante e tali da essere giudicati non compatibili con una mera attività di traduzione. «Sposata con lo scrittore napoletano Domenico Starnone, Raja ha da tempo uno stretto rapporto di collaborazione con Edizioni e/o, la casa editrice di Ferrante, per la quale da anni lavora come traduttrice dal tedesco. Per un breve periodo è stata anche coordinatrice della “Collana degli Azzurri”, una collana che, nella sua brevissima esistenza negli anni ’90, secondo la responsabile dell’ufficio stampa di Edizioni e/o ha pubblicato “un totale di tre o quattro libri, tra cui il primo romanzo di Ferrante”. La responsabile stampa ha spiegato che Raja è una semplice traduttrice freelance e “assolutamente non una dipendente” della casa editrice. Questo ruolo non potrebbe mai spiegare i compensi pagati […] da Edizioni e/o a Raja, che dalla nostra inchiesta risulta essere stata la principale beneficiaria del successo commerciale dei libri di Ferrante. […] Anche perché i compensi del 2014 e 2015 appaiono coincidere proprio con le somme generate dai diritti d’autore. A confutare la tesi che i libri siano stati scritti da Raja a quattro mani con il marito Domenico Starnone è il fatto che quest’ultimo non ci risulta aver ottenuto retribuzioni equivalenti da parte della casa editrice di Sandro Ferri e Sandra Ozzola (anche se non si può certamente escludere che Starnone abbia dato un rilevante contributo intellettuale)» (Gatti). «Ne venne fuori una polemica internazionale sul diritto alla privacy. L’editore Ferri censurò come “disgustosa” la morbosità di una ricerca che “tratta le scrittrici come camorriste…”. Di fronte a quell’evidenza, comunque, il mistero rimane, perché deve rimanere a beneficio del gioco globale. Vennero poi indagini molto serie, estranee a ogni sospetto di morbosità, come quella dello studioso Simone Gatto (un altro felino dal fiuto finissimo), dell’Università di Palermo, che nel 2018 su La Lettura dimostrò le numerose corrispondenze tra Via Gemito [romanzo di Starnone – ndr] e la quadrilogia ferrantiana, il sistema di personaggi, i rimandi biografici, le somiglianze delle storie familiari, la coincidenza dei luoghi e degli oggetti. Poi vennero altre indagini algoritmiche: quella stilometrica del centro di Martigny OrphAnalitics, che indaga sugli elementi minimi del linguaggio, arrivò alla stessa conclusione. Piaccia o non piaccia, anche per la Svizzera Ferrante è Starnone. Così come è Starnone per il centro di Filologia cognitiva romano di Paolo Canettieri e per i linguisti dell’Università di Padova Michele Cortelazzo e Arjuna Tuzzi. Chiedere di tirar giù la maschera non ha più senso» (Paolo Di Stefano). Nel 2022, riferendosi al suo controverso articolo del 2016, Gatti commentò: «Più che l’identità dell’autrice, a me interessava trovare una chiave di lettura biografico-culturale ai suoi romanzi. Insomma, nelle mie intenzioni, lo “smascheramento” doveva esser il mezzo, non il fine. Tant’è che ho dedicato molto più tempo all’analisi della complessa storia familiare di Anita Raja che alla caccia dei suoi soldi. […] Scoprendo che la madre della scrittrice era sopravvissuta non solo a due esili ma anche a tre delle più grandi tragedie del Ventesimo secolo – nazismo, fascismo e Olocausto – emergendo non come vittima bensì come donna forte e indipendente, avevo pensato di aver trovato una chiave di lettura tanto inedita quanto pregnante. Che cosa è la tetralogia napoletana di Elena Ferrante se non una storia di sopravvivenza femminile, con Lenù e Lila che riescono a far fronte alle grandi sfide economiche, sociali e culturali di un mondo a loro avverso? […] Secondo un […] critico, Luca De Angelis, la segretezza e il riserbo sono elementi distintivi di tutti gli autori ebrei, da Svevo a Bassani, in quanto frutto di un’inclinazione esistenziale all’intimità basata su secoli di oppressione e segregazione. […] Mi domando se, nel profondo, sia questo a spingere Anita Raja a rimanere nascosta dietro al suo nom de plume. Se lo fosse, vedrei la sua scelta sotto tutt’altra luce. E la capirei di più» • Una figlia, Viola, dal matrimonio con Domenico Starnone • Una predilezione per i libri di Philip Roth, in particolare per Pastorale americana («Un caposaldo. […] Questo libro contiene un mondo, perché parla delle molte identità di cui siamo fatti»), e per le fiabe dei fratelli Grimm, «alla base della mia formazione. Me le leggevano, me le raccontavano i miei nonni in tedesco. […] Poi, essendo capitato, ne ho tradotta una con molto piacere, I musicanti di Brema. Io ho una vera passione per le fiabe, ma in particolare per le fiabe horror, diciamo così. […] Infatti mi piacciono quelle fiabe, come Fratellino e sorellina, Cappuccetto Rosso, Hänsel e Gretel, in cui ciò che noi abbiamo di più familiare, fidato, rassicurante mostra un rovescio sgradevole. Questo mi attrae magneticamente» • «Io amo molto la musica classica, e anche la musica jazz, per merito di mio fratello, che è un musicista e compositore jazz e mi ha introdotta alla musica jazz» • «Uno dei miei film del cuore […] è Shining di Stanley Kubrick, del 1980. […] Non sono particolarmente appassionata di film horror, […] ma […] sono stata un’appassionata lettrice di fiabe, e questa irruzione del perturbante, che per me è una delle caratteristiche più affascinanti della fiaba, la ritrovo esattamente in Shining, una storia in cui appunto ciò che ci è familiare, il padre in questo caso, si rivela diverso da quello che ci si aspettava. […] Il secondo elemento per cui io amo questo film è quello che dà il titolo al film, lo shining, […] capacità di vedere oltre le apparenze, di cogliere il male, di cogliere quello che gli altri preferiscono non vedere perché è troppo devastante» • «Il mio luogo dedicato alla traduzione per molti anni è stata la cucina di casa. […] Adesso, da un po’ di anni, ho proprio una stanza tutta per me, che è in fondo alla casa, completamente separata. Lì ho l’impressione di tenere lontani i rumori del mondo» • «Che cosa è, per me, tradurre letteratura? È stabilire una relazione tutta verbale che, partendo da un testo scritto, genera un altro testo scritto: non solo quindi un rapporto tra due lingue, ma soprattutto un rapporto tra due scritture. […] Questa relazione non è paritaria, anzi è caratterizzata dalla disparità, perché chi traduce è sempre in una condizione di servizio, cioè si pone al servizio di un testo di partenza che detta il testo di arrivo. […] Tradurre allora significa piegarsi parola dietro parola, frase dietro frase alle necessità del testo di partenza, forzare la propria, più modesta capacità di linguaggio per essere all’altezza dell’originale. La mia tesi, insomma, è che la traduzione è un’opera di riscrittura, che ha la prerogativa dell’ospitalità e l’obbligo di reinventare ogni volta uno spazio linguistico adeguato ai bisogni del testo originale. Tradurre, cioè, non è mai trascrivere, ma riscrivere in un’altra lingua, naturalmente in modo non libero, e tuttavia inventivo. Il traduttore è integralmente votato a inventare – proprio nel senso di “trovare”, “escogitare” – il modo migliore per ospitare l’originale. […] Affrontare un problema di traduzione con inventiva non significa affatto rinunciare alla devozione verso l’originale. […] L’inventiva a cui sto accennando […] affronta i problemi di intraducibilità non limitandosi alla singola parola o alla singola frase ma rintracciando testualmente, rifacendo il percorso mentale dell’autrice/autore, cercandolo passo passo nel testo» • «Ogni lettura, ogni traduzione porta i segni della parzialità storica. Il testo d’arrivo non è mai definitivo, è sempre perfettibile. Chi traduce mette in campo tutta la propria determinazione storica, di status, di sesso, il proprio bagaglio di conoscenze, sensibilità eccetera. Ma questo bagaglio si logorerà: la lingua che utilizziamo oggi invecchierà, il testo originale sprigionerà in futuro significati che oggi non vediamo o significati che appanneranno ciò che ci è sembrato di vedere. Forse dobbiamo concludere che la ricchezza, la plurivocità del testo originale non si riproduce in una sola traduzione, ma nell’insieme delle traduzioni, quelle precedenti e quelle che seguiranno. Ed è bene e bello che sia così».