23 aprile 2025
Tags : Jean-Paul Gaultier
Biografia di Jean-Paul Gaultier
Jean-Paul Gaultier, (Jean-Paul Victor Raoul Gaultier), nato a Bagneux (Francia) il 24 aprile 1952 (73 anni). Stilista. Imprenditore. Fondatore della casa di moda Jean Paul Gaultier. «Non esiste un solo tipo di bellezza, ma molti. La si può trovare dappertutto, se si tengono gli occhi ben aperti» (a Santo Pirrotta) • «Suo padre era un contabile, sua madre una cassiera e lei è cresciuto in una banlieue comunista. Come è stato? “Proprio perché abitavamo in una casa popolare di una periferia grigia, sognavo un mondo diverso, colorato, spumeggiante. Più tardi, per stupidità, mi sono vergognato della semplicità dei miei, e non me lo sono perdonato a lungo. Non avevo fratelli e il mio punto di riferimento era mia nonna. Lavorava come infermiera, ma a casa, per arrotondare, faceva massaggi, maschere, leggeva le carte. Aiutava le donne a diventare più belle. Adoravo ascoltare i suoi consigli. Mi interessava di più sentire come una cliente avrebbe dovuto tagliarsi i capelli di quello che mi succedeva intorno”. […] “Mio padre, mia madre e mia nonna mi hanno sempre accettato, dandomi quell’equilibrio che mi mancava. Mi amavano e lo sapevo. Mia nonna è stata importantissima, era fiera di me. Lasciava che facessi quello che mi pareva: una volta, dopo le nozze di Fabiola del Belgio – indossava un magnifico vestito di Balenciaga –, ho smontato le tende per confezionare un velo. Un’altra volta ho bucato una tovaglia per fare una gonna. Si è arrabbiata solo quando le ho tinto i capelli di blu”» (Silvia Luperini). «“I famosi corsetti che sono ovunque nelle mie creazioni, li ho visti sbirciando le sue clienti. Sono nato in un ambiente popolare, di provincia, in casa dormivamo tutti nella stessa stanza e io stavo meglio da lei: aveva la televisione, una stanza per me, mi cucinava delle cose buonissime. Da bambino quando mi ammalavo avevo il diritto di stare da lei perché era infermiera; allora fingevo di avere ogni genere di malattia anche per due mesi di fila. E poi mi ha insegnato una cosa fondamentale”. Quale? “Il rapporto tra l’aspetto e quello che si ha dentro. Sono due cose legate: la moda funziona se esprime qualcosa legato alla persona che la porta”» (Stefano Montefiori). «Ero un bambino solo, vivevo in un mondo immaginario popolato dalle creature che vedevo in tv, complice il mio orsacchiotto, che vestivo ogni giorno con abiti diversi. Lui era il mio alter ego: quando il professor Barnard fece la prima operazione a cuore aperto, lo aprii e poi lo richiusi con una spilla da balia. Quando Baldovino del Belgio sposò Fabiola, lo vestii come uno sposo pronto per l’altare» (Giuseppe Videtti). «Altro che Madonna. Il suo primo reggiseno a cono, Jean-Paul Gaultier […] lo ha fatto per Nana, la sua prima vera musa. Particolare: Nana è un orsacchiotto, e lo stilista aveva 6 anni all’epoca di quella prima creazione. Li aveva fatti di carta di giornale, ispirato dalle pubblicità Maidenform degli anni ’50, in cui le modelle avevano vitini di vespa e seni appuntiti» (Serena Tibaldi). «Io volevo una bambola, ma i miei genitori non me la concedevano. Creai il primo orsacchiotto transgender. […] Ho scoperto il mondo dello spettacolo con una rivista delle Folies Bergère, che ammirai alla televisione a nove anni. Quanto alla mia vocazione per la moda, nacque dopo aver visto un film, Falbalas, di Jacques Becker, dove Micheline Presle si innamorava di uno stilista, interpretato da Raymond Rouleau» (a Leonardo Martinelli). «Il cinematografico bagliore che avvolgeva ogni scena creava un’atmosfera magica. Le sfilate, il pubblico seduto ad ammirare gli abiti e ad applaudire, Era uno spettacolo che già faceva volare la mia fantasia…» (a Donato D’Aprile). «“Io, prima di voler diventare stilista, puntavo al mondo della rivista. Quel magnifico spettacolo alle Folies Bergère che vidi in tv mi segnò a vita. Il giorno dopo, in classe disegnai delle ballerine con le piume. Ma la mia maestra appuntò con una spilla sulla mia schiena quel disegno e mi fece fare il giro della classe. Voleva umiliarmi. E ottenne il risultato contrario”. Perché? “Per la prima volta i miei compagni mi sorrisero e iniziarono a dirmi: ‘Gaultier, fammi un disegno’”» (Martinelli). «Quel giorno Gaultier, quello che non sa giocare a calcio, diventò Gaultier, quello che sa disegnare. Per la prima volta mi sentii ammirato: ecco perché ho continuato a farlo, per essere accettato». «E pensare che non ha mai studiato moda in vita sua. “Disegnavo perché così piacevo agli altri: la moda per me era relegata alle riviste che compravo – o rubavo, quando non avevo soldi. Avevo mandato il mio portfolio in giro, ma senza uno scopo preciso. Poi, il 24 aprile del 1970, il giorno del mio diciottesimo compleanno, mi chiama Pierre Cardin; vado al colloquio con mia madre, che non si fidava: ho iniziato così”» (Tibaldi). «Mi recai da lui e la sua risposta, “Va bene, puoi lavorare per me mentre continui a frequentare la scuola”, è stata la chiave che ha aperto le porte alla mia avventura”» (D’Aprile). «Quello fu un giorno decisivo: lì smisi di raccontare tutte le frottole che inventavo per creare interesse intorno a me. Quel lavoro mi gratificava e mi permetteva di essere amato. Gaultier il bugiardo morì il primo giorno di lavoro, da Cardin». «Cardin era il direttore creativo e finanziario, si occupava di tutto. È stato un maestro stupendo che mi ha insegnato la libertà» (a Ettore Bandiera). «Dopo gli inizi da Pierre Cardin, […] è stata la volta di Jacques Esterel, poi della maison Patou di Angelo Tarlazzi. Senza dimenticare il forte legame con Francis Menuge, che da personale divenne anche professionale (il suo sostanziale supporto durò fino a quando fu possibile: Menuge morì di Aids nel 1990)» (Renata Molho). Insieme a Menuge, socio e amministratore, nel 1976 lo stilista fondò la propria casa di moda, Jean Paul Gaultier. «La mia prima scuola è stata il mercato delle pulci. Mi piace l’idea di costruire i modelli a partire da pochi elementi. Quando uno ha pochi soldi, si arrangia per trovare idee inedite. All’epoca andavo a comprare delle tute da lavoro, che trasformavo in capi femminili, ispirato da mia madre, che durante la guerra utilizzava dei vecchi pantaloni di mio padre per farne delle gonne». «Sono un autodidatta, i giornalisti e non le scuole mi hanno spalancato gli orizzonti della moda. Quelli più arditi scrivevano che i colori potevano essere abbinati in maniera più personale, anziché rispettare il canone “borsa = scarpe = paletot”; che un indumento nasce con un’idea, ma può anche essere stravolta: il punto di partenza del mio lavoro. Iniziai a farlo già dalla prima collezione. […] Espormi in prima persona, mettere il nome su un abito per la prima volta fu come camminare sul filo senza rete. Rischiai spudoratamente, a costo di sbagliare, creando quell’ardito mélange che poi è diventato lo stile Gaultier» (Videtti). «Nel 1976 la prima collezione di prêt-à-porter femminile per la primavera-estate ’77, con tessuti comprati al mercato di Saint-Pierre. Donald Potard, suo amico di infanzia e uno tra i suoi più stretti collaboratori, ricorda che il pubblico era composto dai familiari e da qualche giornalista giapponese» (Molho). «Che orrore quella prima collezione del ’76: un solo capo decente, il resto tutto da buttare». «Al suo debutto, nel 1976, i pochi giornalisti presenti scrivevano: “Ha un certo talento e molto coraggio”» (Luperini). «La reazione fu di diffidenza e perplessità: troppo stravagante. Ma nel ’78 il gruppo Kashiyama decide di finanziarlo, anche se i consensi arriveranno solo alla quinta stagione: “Grease”, questo il nome della collezione, per la quale Gaultier aveva immaginato dei “chiodi” in pelle sintetica da rocker abbinati a tutù da ballerina. Da quel momento tutti vollero assistere alle sue sfilate. Seguiranno il rapporto con il gruppo italiano Gibò e la prima collezione di prêt-à-porter maschile, per l’estate 1984, “L’uomo oggetto”» (Molho). «Nella prima metà degli anni Ottanta, l’attività di Gaultier cominciò a concentrarsi sull’abbigliamento maschile. Lo stilista esaltava senza pudore gli stereotipi gay. Le suggestioni ricavate dal film Querelle di Fassbinder (da Jean Genet) fecero il resto. “Sulla donna avevano lavorato tutti per decenni, Saint Laurent l’aveva rivoluzionata, la moda uomo invece era vergine. Chiamai la prima collezione ‘L’uomo oggetto’, partendo dal macho, creatura con tanta forza e poca sensibilità, l’uomo che non deve mai piangere o mettere a nudo i propri sentimenti, alla Jean Gabin per intenderci. […] Volevo dimostrare che esistono anche degli uomini seducenti, come il Brando di Un tram che si chiama Desiderio. Misi addosso all’uomo ruvido abiti che non avrebbe mai indossato, gonne, maglioni scollati, t-shirt da marinaio che lasciavano la schiena scoperta, cravatte da dandy. Forse esagerai un po’, ma fu un modo per scoprire che anche gli uomini amano la moda: la risposta fu sorprendente. Soprattutto in Italia, perché qui in Francia andavano ancora a comprarsi scarpe e camicie con la moglie, la madre e la suocera. Quelli che indossavano le mie cose ascoltavano quel che le donne avevano da dire, non si formalizzavano se diventavano uomini oggetto per sedurle. Vent’anni prima sarebbe stato impossibile. […] Non misi la gonna all’uomo per scioccare, ma perché era il momento. Nel nostro mestiere bisogna anche fiutare quel che succederà domani”» (Videtti). «Impossibile disgiungere la sua storia da quella che diventò l’icona di un’epoca della maison stessa. Parliamo del corsetto a spirale, appuntito, iperbolico, che Madonna indossò nel 1990 nel Blond Ambition Tour. Fu il momento della vera consacrazione per lo stilista, ma anche qualcosa di importante per la moda stessa, una sorta di spartiacque tra il prima e il dopo. Nel 1996 inizia a disegnare la sua linea di alta moda, che riscuote subito grande successo. […] Con differenti ruoli e altrettanto diversi gradi di popolarità ha raccontato, di stagione in stagione, storie fantasiose, attingendo alle culture e ai tempi più vari» (Molho). «Nessuno prima aveva mescolato la moda di strada con la couture (dopotutto aveva imparato dai maestri) come lui: sfila nei luoghi più “di frontiera” di Parigi, organizza vere feste di paese, manda in passerella punk e marinai (la maglia a righe è uno dei suoi punti fissi, adottata, spiega lui, perché da ragazzo la si trovava per pochi spiccioli nei mercatini delle pulci), vergini uscite dai dipinti dei santini messicani e cortigiane discinte; dedica una collezione persino agli ebrei chassidici. Rifiuta tutto ciò che è scontato, conduce un programma tv, crea un fumetto, dimostra di avere una conoscenza onnivora: il suo modo di creare è un flusso continuo, che non si spegne mai» (Tibaldi). «Dal 2004 al 2010 è stato direttore creativo di Hermès, portando un po’ della sua insolenza nell’empireo dello chic sofisticato francese» (Anna Franco). «Ha lavorato anche con Kylie Minogue e con la diva del burlesque Dita von Teese, che per lui ha sfilato di frequente. Notevole anche il suo lavoro di costumista cinematografico: tra i suoi lavori più importanti, Il quinto elemento di Luc Besson e Kika di Pedro Almodóvar. Infine, nel 2018, sul palcoscenico ci è metaforicamente finito lui con il Fashion Freak Show, spettacolo incentrato sulla sua vita che ha debuttato alle Folies Bergère» (Tibaldi). «Eccentrico, scandaloso, provocatorio, l’ex enfant terrible dell’alta moda alle Folies Bergère ha scosso Parigi inventando una nuova forma di divertimento a metà strada fra la rivista e la sfilata di moda, giocando (con i suoi famosi corsetti) sulla ruota della sensualità. […] “Il Fashion Freak Show è la storia della mia vita attraverso canzoni e balletti. Ho messo in scena la felicità dei bei tempi ma anche la perdita e la sofferenza; ho provato a mostrare che la bellezza può assumere varie forme, che la bellezza è differenza e che la differenza è bellezza. Per questa occasione ho disegnato decine di abiti nuovi che fanno parte della scenografia, senza dimenticare le mie creazioni più rinomate”» (Valerio Cappelli). «Il 22 gennaio 2020 Jean-Paul Gaultier ha messo in scena il suo ultimo défilé. Con una gigantesca festa-spettacolo (quasi 200 gli abiti presentati durante una sfilata di un’ora) allo Théâtre du Châtelet di Parigi, lo stilista […] ha celebrato il suo cinquantesimo anno di attività e insieme ha annunciato il suo ritiro dalle passerelle. Dopo sei anni dall’addio al prêt-à-porter (il 27 settembre 2014, con la primavera-estate 2015), lo stilista non poteva che dare il meglio di sé con l’ultima collezione di haute couture. Lo show si è aperto con una bara nera da cui fuoruscivano due seni a punta. Sul palcoscenico, oltre alle supermodelle Gigi e Bella Hadid, Karlie Kloss, Irina Shayk, Coco Rocha, si sono esibite, tra le altre, anche le amiche e muse dello stilista Amanda Lear, Dita von Teese, Rossy de Palma, Béatrice Dalle e Fanny Ardant. Lo spettacolo non è stato che la summa della storia di Gaultier come stilista, la sintesi di 50 anni di puro divertimento, ma anche di ribaltamento dei canoni di bellezza e di scardinamento degli stereotipi» (Maria Luisa Tagariello). «“Ho terminato la mia carriera con il sorriso. […] Posso passare ad altro. La moda però rimane la mia passione, è la mia vita. Mi piace guardarla, sfogliare le riviste e strappare le pagine e ritagliare le foto che mi piacciono, proprio come facevo da bambino”. Intanto Jean-Paul Gaultier ogni stagione sceglie un giovane designer per realizzare la collezione di alta moda per la sua maison: ”Adoro vedere come i nuovi stilisti talentuosi interpretano i miei archivi. Quando li scelgo, lascio loro totale libertà, non do particolari indicazioni: devono poter rompere gli schemi senza essere troppo rispettosi”. E sta lavorando a un film d’animazione nelle vesti di direttore artistico: “Sono sempre stato affascinato dal cinema. […] Questo film, […] di cui sono direttore artistico, è un cartoon che non parlerà di me, ma verrà arricchito con i miei aneddoti e le mie storie”» (Pirrotta). L’uscita della pellicola è attualmente prevista per il 2027 • «Il grande amore della sua vita è stato uno solo, Francis Menuge, morto di Aids nel 1990, l’unico uomo che avrebbe sposato» (Videtti) • «Madonna è sua musa, amica e anima gemella (Jean-Paul Gaultier ha detto di averle chiesto di sposarlo tre volte, ricevendo sempre un “no”)» (Simona Santoni) • «Quando vidi Romeo e Giulietta di Zeffirelli impazzii letteralmente. Avevo 17 anni, sapevo a memoria tutte le battute, volevo avere lo stesso taglio di capelli di Leonard Whiting. E forse, sì, m’innamorai un po’ di lui» • «Ho un debito con l’Italia: ho lavorato moltissimo con i vostri imprenditori tessili, che a differenza dei francesi hanno gusto e sanno guardare a lungo termine». «Noi francesi prendiamo sul serio la moda perché siamo dei frustrati che non prendono nulla con leggerezza. Invece da voi la cultura del bello è la norma: mica è un caso che il mio Francis fosse di origine italiana!» • «Nessuno, nemmeno lui, avrebbe pensato che il ragazzino nato nel 1952 nella banlieue di Parigi, ad Arcueil [in realtà, la località in cui è cresciuto – ndr], avrebbe sovvertito la moda francese fino a diventare direttore artistico di Hermès nel 2003. E nessuno come Gaultier è stato capace di reinventare lo stile parigino, senza mai peccare di sciovinismo, utilizzando il cappello frigio, la marinière e il tricolore. Appassionato di fisici e morfologie atipici, mediocri, extra-large, androgini, bizzarri e irregolari, Gaultier inserisce nel 1980 un annuncio sul quotidiano Libération, che rimarrà la più bella descrizione della sua personalità: “Stilista non conforme cerca modelli atipici. Le facce irregolari sono benvenute”. Nasce così l’estetica di Jean-Paul Gaultier» (Bandiera). «Ha saputo trascinare la moda nell’èra moderna del pop, inventando l’etnico, scompaginando i codici e rifiutando le distinzioni di genere. Con lui, l’uomo ha indossato la gonna, la donna si è mascolinizzata e il profumo è finito dentro una lattina» (Luperini). «Con il talento che contraddistingue alcuni scrittori ha creato logiche estetiche e architetture semantiche personali, ha spostato i confini costruendo un insieme di segni surreale, un universo parallelo, arioso e possibilista, in cui sarebbe più divertente vivere» (Molho) • «Cosa significa, per lei, la parola provocazione? “Non ho mai fatto nulla per provocare: non è il mio obiettivo, al contrario di quanto alcuni pensano. Ho solo mostrato cose che mi sembravano in linea con i tempi, come le gonne per gli uomini e i corsetti per le donne”» (Cappelli) • «Per me la parola diversità rappresenta un atto di ribellione. Ritengo sia un’inclinazione naturale, oltre che una necessità nel campo creativo, quella di desiderare di creare e innovare sfidando le regole e aprendo nuovi orizzonti. Seguire ciecamente una linea predefinita significa limitarsi». «Mi sono sempre ispirato a ciò che era diverso. Forse perché non accettavo neanche me stesso» • «Sono timido, e come tutti i timidi faccio cose stravaganti per superarmi». «Sono sempre di buon umore, il che rende le mie creazioni molto ottimiste» • «Le persone vestite male sono sempre quelle più interessanti» • «Come immagina il futuro dell’alta moda? “La sua morte è stata annunciata dal 1960. Ricordate il film Who Are You, Polly Maggoo?? Lo girò nel 1966 William Klein: una storia d’amore ambientata in una sartoria, con i suoi eccessi. Siamo ancora tutti qui”» (Cappelli) • «Rimpianti? “Nessuno”» (Luperini).