corriere.it, 12 dicembre 2025
Perché ci piacciono tanto le donne di Klimt? Dietro ci sono l’oro, l’innocenza e l’ombra di Freud
Quattordici figli illegittimi – almeno quelli che gli hanno attribuito, lui ne ha riconosciuti solo quattro —, un numero imprecisato di amanti, nessuna moglie ufficiale, una grande amicizia amorosa (Emilie Flöge), centinaia di donne raffigurate nude e immerse in un’orgia di oro, fiori, simboli. Gustav Klimt ha speso una vita a inseguire l’ossessione erotica femminile, sia nell’atelier che fuori. Eppure, se cerchiamo online un suo ritratto, non compariranno immagini di lui in abiti eleganti e seduttivi, non lo troveremo in nessuna posa che evochi l’ammaliatore indefesso che tante testimonianze ci hanno restituito.
Troveremo, invece, un giovane uomo avvolto in un camicione di quelli adatti a fare i lavori in casa, un poco spettinato e con un braccio un gattino. Indifeso, domestico, tenero. E forse è questa la chiave per capire come mai ancora oggi le sue donne ci colpiscono tanto: le mostre di Klimt sono quelle di maggiore successo, la sua Giuditta I è sulle copertine dei libri e nei gadget di tutto il mondo, al meraviglioso Ritratto di Signora ritrovato pochi anni fa a Piacenza sono stati dedicati almeno due romanzi. E poco meno di un mese fa il Ritratto di Elisabeth Lederer (1916 circa) è stato battuto all’asta da Sotheby’s per 236 milioni di dollari diventando la seconda opera più costosa di sempre (il primo posto è occupato dal Salvator Mundi attribuito a Leonardo da Vinci, venduto per 450 milioni nel 2017).
Dietro il Ritratto di Elisabeth Lederer c’è una storia di tragedie novecentesche e tenerezza familiare: erede di un’importante famiglia aristocratica viennese di origini ebraiche, l’architetto Josef Hoffmann la definì «la ragazza più elegante della città». Lei conosce Klimt e lo chiama «zio» sin da quando era una bambina. Lui ha ritratto la madre di lei e altri componenti della famiglia, frequenta la casa dei Lederer assieme a mezza Vienna poi l’artista muore nel 1918 e nel cuore dell’Europa inizia un lento, drammatico crescendo. Si arriva al 1938, quando la vita per gli ebrei del Vecchio Continente diventa difficile e Elisabeth si trova davanti a un bivio: fuggire all’estero, come ha fatto buona parte della sua famiglia, o provare a restare in Europa, accanto al marito? Sceglie di restare, ma il matrimonio non regge alla tragedia della morte di un figlio e la donna rimane sola e vulnerabile.
Che cosa fare? Il fantasma di Klimt diventa un’àncora di salvezza: la donna giura che l’artista è in realtà suo padre, una dichiarazione avvalorata dalla testimonianza della madre dall’estero. Questa paternità le garantisce almeno una parte di sangue ariano e il Dipartimento del Reich per la ricerca genealogica si lascia convincere. Elisabeth evita la deportazione, ma perde la vita lo stesso, in guerra. E di lei oggi restano questo ritratto, oltre ad altre opere della sua collezione, opere che si sono salvate e sapete perché? Perché i nazisti, dopo averle confiscate, le ritennero troppo «ebraiche» per trasportarle – come fecero per centinaia di altri dipinti – nel castello di Immendorf, vicino al confine ceco. Peccato che all’avvicinarsi delle truppe russe i tedeschi stessi diedero fuoco al maniero e così un patrimonio immenso d’arte andò perduto.
Insomma, dietro la seconda opera più costosa del mondo non c’è un eros torbido e peccaminoso, ma piuttosto una vicenda umana commovente, un legame tenerissimo tra l’artista e la sua modella, e, soprattutto, la raffigurazione di una giovane ragazza bellissima, vestita di bianco e contornata da rimandi simbolici alla Vienna di primo Novecento, un’estetica Jugendstil che spazia dal floreale all’geometrico fino a influenze orientaleggianti. Lo sguardo della donna è semplice e quasi innocente, come, in verità, moltissime donne dipinte da Klimt. Se guardiamo ai disegni erotici che l’artista di Vienna ci ha lasciato, non troveremo mai una depravazione manifesta, né tantomeno una volgarità gratuita.
Ci sono donne nude che si stiracchiano, qualcuna si abbraccia ad una compagna, qualcun’altra abbozza un gesto autoerotico ma sempre in una cornice intima, casalinga, naturale, sembra quasi di sentire il profumo del brodo sul fuoco o il miagolio affamato del gatto. Come se l’artista avesse confezionato per sé stesso una «casa dei sensi» nella quale poi introdurre di volta in volta le sue donne, in un cortocircuito perfetto di realtà e finzione, ma senza eccessi né facili esibizionismi. E anche quando Klimt tratteggia una classica «femme fatale», come per esempio la famosa Giuditta, con un seno scoperto e lo sguardo languido, forse si percepisce un qualcosa di perturbante (nello stesso anno, il 1901, un altro viennese famoso, Sigmund Freud, dava alle stampe il fondamento della psicoanalisi moderna, «Psicopatologia della vita quotidiana»), ma non di violento e nemmeno di dozzinale voyeurismo.
In Klimt avviene quello che per Giorgione o Tiziano avveniva secoli prima: l’eros si sublima nel mito, in una dimensione ultraterrena dove il corpo della donna esce dai confini fisici per diventare simbolo. Di peccato, di purezza, di divinità: non importa «che cosa», importa «come», conta questo passaggio, che, in ogni caso, resta squisitamente pittorico. Se Tiziano trasformava una ragazza nuda nell’emblema dell’amore più puro e fedele (la Venere di Urbino) grazie a un uso innovativo e magistrale del colore, Klimt trasforma le viennesi del suo tempo in altrettanti simboli (la donna ammaliatrice, la madre, la figlia innocente) grazie all’oro, ai fiori, alla decorazione. L’ornamento, in Klimt, non è mai fattuale, ma simbolico: giocando con le metafore, potremmo dire che gli abiti sofisticati, lo sfondo dorato, le pagliuzze e le finissime decorazioni sono un lettino di Freud. Dal quale far srotolare il racconto di una donna reale.