Corriere della Sera, 12 dicembre 2025
Giganti diseguali
Joseph Nye, uno dei più influenti studiosi delle relazioni internazionali e collaboratore del presidente Clinton, riteneva che l’ordine mondiale si sarebbe evoluto in modo incrementale, dando sempre più spazio al «soft power». La realtà sta andando rapidamente in direzione diversa.
Per capire quale ordine mondiale si prepara è importante soppesare le dimensioni dei diversi protagonisti, le loro strategie e la durata delle loro politiche.
Fino a ieri, grandi e piccoli Stati, potenti e deboli nazioni, erano sullo stesso piano nelle molte organizzazioni internazionali. Ora le grandi potenze hanno riconquistato il proscenio. Ma i protagonisti sono giganti disuguali. Basta misurare il loro peso comparato in termini di territorio, popolazione e prodotto interno lordo. La Russia, con un’estensione di 17 milioni di chilometri quadrati, ha un territorio quasi doppio di quello degli Stati Uniti e di quello cinese, mentre l’Unione europea ha la metà di quello dei due ultimi Paesi. La Cina, con un miliardo e 400 milioni di abitanti, è i gran lunga il protagonista più popoloso perché l’Europa ha un terzo, gli Stati Uniti un quarto e la Russia un decimo della popolazione cinese.
Se, poi, si passa al prodotto interno lordo, le cose cambiano ancora una volta. Gli Stati Uniti d’America, con i loro circa 29 mila miliardi di dollari, primeggiano; Unione europea e Cina hanno un prodotto interno lordo che rappresenta circa il 65 per cento di quello americano, mentre la Russia ha poco più dell’otto per cento di quello degli Stati Uniti. Dunque, i quattro grandi protagonisti dell’ordine mondiale sono tra di loro molto diseguali.
Quanto alle strategie, l’elemento che accomuna tre dei grandi protagonisti sono le pretese territoriali verso nazioni vicine: la Russia verso l’Ucraina e molti altri Paesi contermini, la Cina verso Taiwan, gli Stati Uniti verso la Groenlandia e il Canada. Queste pretese territoriali sono poi paradossali: il Donbass, che la Russia vorrebbe annettersi, rappresenta soltanto lo 0,31 dell’enorme territorio della Russia. Dunque, le pretese territoriali non sono rilevanti in sé, ma come indicatori di una volontà di potenza.
Quanto all’Europa, ha ragione Ferruccio de Bortoli nel lamentarne le divisioni interne e la voce flebile, mentre si stringe la tenaglia tra America e Russia (Corriere della Sera, 9 dicembre), in cui l’Unione europea può restare prigioniera: è naturale che una potenza emergente venga vista come un ingombrante concorrente sia dall’America che dalla Russia, specialmente se impone multe milionarie a imprese americane e aiuta l’Ucraina a difendersi dalla Russia. Tanto più che si tratta della parte del mondo che ha maggiormente sviluppato lo Stato del benessere: nel 2013 Angela Merkel faceva notare che l’Europa aveva il 7 per cento della popolazione mondiale, il 25 per cento del prodotto interno lordo e il 50 per cento della spesa sociale globale. È un piatto ricco nel quale tutti vogliono cercare di mangiare.
Un altro grande mutamento è quello interno: le grandi potenze stanno personalizzando e privatizzando la politica estera, che viene sottratta agli specialisti.
I grandi cambiamenti in corso sono rilevanti solo sul breve periodo, sono un fuoco di paglia che potrebbe rapidamente essere spento, oppure hanno dimensioni temporali più lunghe? Osservazioni che risalgono a due secoli fa mostrano che quello che sta accadendo era largamente previsto, e sta ora subendo solo una accelerazione. Scriveva Alexis de Tocqueville nel 1850, quando la Germania era divisa in centinaia di piccoli staterelli: «penso che il nostro Occidente sia sotto la minaccia di cadere presto o tardi sotto il giogo o almeno sotto l’influenza diretta ed irresistibile degli zar, giudico che il nostro primo interesse è favorire l’unione di tutte le razze germaniche, per contrapporle a loro. Lo stato del mondo è nuovo; per questo bisogna che cambino le nostre vecchie massime e non dobbiamo temere di fortificare i nostri vicini perché siano in grado di respingere un giorno con noi il comune nemico». Lo stesso autore aveva scritto nel 1835: «vi sono oggi sulla terra due grandi popoli che, partiti da punti differenti, sembrano avanzare verso lo stesso scopo: sono i Russi e gli Anglo-americani. Entrambi sono cresciuti nell’oscurità; e, mentre gli sguardi degli uomini erano occupati altrove, essi si sono posti tutt’a un tratto in prima fila tra le nazioni, e il mondo ha appreso, quasi nello stesso tempo, la loro nascita e la loro grandezza. Tutti gli altri popoli sembrano aver raggiunto pressappoco i limiti che la natura ha loro tracciato, e non avere che da conservare; ma gli Americani e i Russi crescono, mentre tutti gli altri sono fermi o avanzano solo con mille sforzi; solo essi marciano con passo facile e rapido in una strada di cui l’occhio non può ancora scorgere il termine. L’americano lotta contro gli ostacoli che la natura gli oppone; il russo è alle prese con gli uomini. L’uno combatte il deserto e la barbarie, l’altro la civiltà rivestita di tutte le sue armi: così le conquiste dell’americano si fanno con il vomere dell’agricoltore, quelle del russo con la spada del soldato. Per raggiungere il suo scopo, il primo si basa sull’interesse personale e lascia agire, senza dirigerle, la forza e la ragione degli individui. Il secondo concentra, in qualche modo, in un solo uomo tutto il potere della società. L’uno ha per principale mezzo d’azione la libertà; l’altro la servitù. Il loro punto di partenza è differente, le loro vie sono diverse; tuttavia entrambi sembrano chiamati da un disegno segreto della Provvidenza a tenere un giorno nelle loro mani i destini di una metà del mondo».
In conclusione, si stanno accelerando e accentuando tendenze importanti nate da lungo tempo, come il distacco degli Stati Uniti dall’Europa e la pressione della Russia verso l’Europa, e questo deve insegnare che ogni possibile tregua sarà una fragile tregua. Nello stesso tempo, siamo in una difficile fase di transizione, nella quale occorre rafforzare l’Unione europea senza rompere i legami stabiliti in 80 anni con l’America, necessari almeno finché l’Europa non sarà capace di parlare con una sola voce e di difendersi senza dover comprare le armi dagli Stati Uniti.