Corriere della Sera, 12 dicembre 2025
Intervista a Mario Andreose
Mario Andreose, quando l’Italia entrò in guerra, nel 1940, lei aveva sei anni.
«A Venezia lo scoprimmo dalle folle che sventolavano il tricolore per le calli. Non avevamo la radio in casa».
Il futuro direttore editoriale di gruppi come Il Saggiatore e Bompiani è nato in una famiglia che faticava ad arrivare a fine mese?
«È così. Papà fornaio, mamma di salute malferma, due fratellini che ebbero la sfortuna di nascere prima che venisse scoperta la penicillina. Morirono entrambi nel giro di sei mesi. Rimasi io, gracile e biondo».
Ma con gli occhi azzurri, un’eleganza naturale e un’ambizione novecentesca.
«È per questo che ho dedicato il mio ultimo libro, un memoir, alla mia città. A Venezia le differenze sociali erano molto sbiadite: non c’erano auto di lusso da esibire, i palazzi avevano più o meno tutti la stessa conformazione architettonica, la contessa decaduta veniva a prendere il pane nella bottega dei miei e si fermava a ciacolare con papà».
E così chiunque si sentiva in grado di fare grandi cose, sin da bambino.
«Sì, anche se non sempre è stato facile. Papà beveva, qualche volta dovevamo andare a riprenderlo all’osteria. Nuotavo in una piscina nel canale della Giudecca, d’estate si andava in colonia».
L’acqua di Venezia, celebrata da Brodskij ne «Le fondamenta degli incurabili».
«Altro ricordo: quando l’America entrò in guerra il mio fumetto preferito, “Dick Fulmine” perse il nome americano e rimase “Fulmine”».
Tinto Brass ha solo un anno più di lei.
«Abitava non lontano da casa mia: quante merende ho fatto da loro, sia con lui che con suo fratello, Andrea».
Tinto ha più volte raccontato di quando, da ragazzo, vide per la prima volta una casa di tolleranza.
«Anche io sapevo dove si trovavano. Anzi, quando arrivavano i soldati ingaggiavano noi ragazzi come “guide” verso le case di piacere, in cambio di un po’ di cioccolata».
Anche lei ha vissuto una «iniziazione novecentesca» all’amore carnale?
«Al compimento esatto dei miei diciotto anni, con la carta d’identità in mano».
Che ricordo ha?
«Igienico. Ci lavavano prima e dopo. Ma ricordo anche, però, che mi limitai a parlare con quella donna, con rispetto».
Il primo amore.
«Una ragazza bellissima, con la pelle ambrata e una cadenza linguistica misteriosa. Ma fu con altrettanto misteriosa circostanza che un giorno, d’improvviso, sparì. O, meglio, non me la fecero più incontrare. Capii più tardi che l’allontanamento era dovuto al fatto che quella ragazza era ebrea. E allora mi è rimasta una forte nostalgia alla quale ho dato il nome di amore».
L’incontro con Peggy Guggenheim, collezionista e mecenate.
«Una donna che avanzava altera e elegantissima, circondata da cani. Io ne avevo paura, lei se ne accorse e sentenziò: “Chi ha paura dei cani non può entrare a casa mia”».
Venezia, nel dopoguerra, era una delle mete preferite dei grandi artisti.
«Ho conosciuto bene Emilio Vedova, Tancredi Parmeggiani. Ricordo le battaglie tra astrattisti e figurativi. Nel 1951 Igor Stravinskij scelse Venezia per il debutto del suo “La carriera di un libertino”».
Sul podio della Fenice, nel 1951, scrisse un capitolo della storia della musica.
«Lui, Sergej Diaghilev e Josif Brodskij sono tutti sepolti nel cimitero monumentale dell’Isola di San Michele a Venezia, una specie di enclave d’arte russa nella Laguna».
Lei ha guidato, per un periodo, anche Palazzo Grassi.
«È stato lì che ho conosciuto Massimo Cacciari, doveva scrivere un saggio su Arcimboldo. È stato il sindaco più bravo di Venezia. Ma c’era anche Vittorio Sgarbi».
I due si sono incontrati?
«Penso proprio di no».
Lei, però, conosceva già la sorella, Elisabetta.
«Per convincerla a venire a lavorare in Bompiani dovetti “corteggiare” la madre, la signora Rina Cavallini, parlandole di Sartre e Camus. Oggi Elisabetta è alla guida della Nave di Teseo, dove io sono presidente e dove lei fa un lavoro straordinario, con intelligenza, intuito e fiuto letterario».
Da direttore editoriale di Bompiani ha lavorato con autori come Eco e Moravia.
«Ma lo sa che una volta stavo per perdere il posto?».
Come?
«Nel Dizionario delle Opere avevo dimenticato di inserire il libro di Susanna Agnelli, “Vestivamo alla marinara”».
Non ci crede nessuno, lei era amico degli Agnelli.
«Amico è una parola grossa, però sia Marella che l’avvocato si fidavano di me, per loro stessa ammissione».
La signora Marella.
«La sua raffinatezza è proverbiale, ma il ricordo più vivido che ne serbo io è diverso. Un giorno, nella sua casa torinese in collina, la vidi rabbuiarsi e poi, con eleganza, esclamare un “Uffa!”».
Come mai?
«Aveva appena saputo che il marito aveva fatto sistemare un dipinto di Renoir nella loro camera da letto: nel quadro c’è una ragazza formosa e discinta che, nella realtà, era l’amante del pittore».
Altro che «Uffa».
«Gianni Agnelli era un uomo complesso. Per dire, era rigoroso nella redazione dei cataloghi delle sue collezioni. Se una foto non rispecchiava lo stesso verde dell’opera originale, lui la rifiutava».
Lei ha introdotto in Italia anche numerosi scrittori americani.
«Il titolo del libro di Jay McInerney, Le mille luci di New York, è mio: è ispirato alla musica di Gershwin, Bright Light, Big City».
Umberto Eco.
«Quando si sedeva all’Harry’s Bar, senza che ordinasse nulla, gli portavano subito un Martini Dry gelato. A Venezia, poi io frequentavo Vittorio Gregotti, uno dei tanti amici con cui trascorrevamo le domeniche in campagna».
Racconti.
«Immagini: uno spettacolo di marionette con costumi disegnati da Gregotti e da Gae Aulenti, con i testi e la drammaturgia di Umberto Eco e la musica di Gianni Coscia».
Dove sono oggi le marionette?
«A casa di Eco».
Potreste fare uno spettacolo per la «Milanesiana».
«Lo diremo a Elisabetta».
È vero che all’inizio «Il nome della rosa» non lo voleva nessuno?
«Sì, e faticò non poco per arrivare nel mercato estero. Ricordo bene le parole di Moravia, senza appello: “Ha messo in un romanzo le sue conoscenze da professore”».
Gae Aulenti.
«Una brontolona geniale. Le volevo bene. Ricordo un viaggio a Berlino: lei era entusiasta di una piazza che, a ripensarci oggi, mi sembra una perfetta prefigurazione di quella che poi sarebbe stata la milanese piazza Gae Aulenti».
A Palazzo Grassi, però, lei non si è occupato solo di pittura e di scultura.
«No, una volta mi ritrovai a cena con una squadra di modelle venute per il Calendario Pirelli, in mostra nel nostro museo. Era il 1997 e tra queste bellissime donne c’era anche una mora alta e straordinariamente affascinante. Si chiamava Monica Bellucci».
Venezia ha influenzato anche due personalità come Sartre e de Beauvoir.
«Sì, io non potevo saperlo negli anni della mia educazione veneziana, ma più tardi, quando entrai a lavorare al Saggiatore, ebbi il privilegio di tradurre “Il secondo sesso”».
Lei ha tradotto anche «Tristi Tropici», capolavoro di Claude Lévi-Strauss.
«Mi offrii volontario con una spudoratezza che, a ripensarci oggi, mi fa arrossire. Però lo feci e ancora oggi quella traduzione funziona. Aggiungo che non ho mai voluto un centesimo per quel lavoro: lo svolsi durante l’orario di ufficio. Così come non ho mai chiesto una lira a Umberto Eco come responsabile dei diritti internazionali delle sue opere. Una volta, anzi, fu lui che mi disse: “Mario, ma io forse ti devo qualcosa per questo lavoro”. Io feci finta di niente. Oggi sono queste le cose che più mi rendono orgoglioso».