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 2025  maggio 09 Venerdì calendario

Biografia di Fortunato Ortombina

Fortunato Ortombina, nato a Mantova il 10 maggio 1960 (65 anni). Musicista. Musicologo. Dirigente teatrale. Diplomato al conservatorio Arrigo Boito, laureato in lettere all’Università di Parma. È stato assistente musicale della direzione artistica al Teatro Regio di Torino (dal 1997 al 1997), segretario artistico del San Carlo di Napoli (dal 1998 al 2001) e coordinatore della direzione artistica alla Scala di Milano (dal 2003 al 2007). Già direttore artistico (dal 2007 al 2025) e sovrintendente (dal 2017 al 2025) della Fenice di Venezia • «Un uomo intriso di melodramma come Achille nelle acque dello Stige» [Sara D’Ascenzo, Cds 31/5/2024] • La lunga carriera gli ha permesso di conoscere Franco Zeffirelli («Mi raccontava quando, durante la guerra, aveva visto la Scala bombardata») e Giulietta Simionato («Aveva 92 anni, era lucidissima»). E poi Luca Ronconi, Claudio Abbado, Ermanno Olmi, Riccardo Muti, Luciano Pavarotti, Lorin Maazel. «Mirella Freni e Leyla Gencer sono state come due zie, mi hanno aiutato moltissimo» • Dal 17 febbraio 2025 è di nuovo alla Scala come sovrintendente e direttore artistico. Il governo apprezzò il fatto che, dopo tre stranieri (Stéphane Lissner, Alexander Pereira e Dominique Meyer), il teatro tornasse guidato da un italiano. «Ortombina incarna tutte le richieste del ministero: ha l’età perfetta, ha avuto incarichi in teatri importanti. Non solo: è molto apprezzato dal centrodestra. Anche per le sue aperture alla Fenice a Beatrice Venezi (che vuole essere chiamata “direttore d’orchestra”) e ad Alvise Casellati, figlio della ministra per le Riforme istituzionali Maria Elisabetta Alberti Casellati» [Simona Griggio, Fatto 16/4/2024] • Dovrà giocoforza lasciare il Teatro nel 2030, per via della legge sul limite di 70 anni per i sovrintendenti. «Sono il primo che arriva con gli anni contati» ha detto, nei giorni dell’insediamento. «Farò in tempo a fare un solo mandato». Poi ha smorzato ogni polemica: «Vorrei che ci divertissimo, e che il pubblico si divertisse con noi».
Titoli di testa «Al direttore. Carissimo Giuliano, ‘e piezz’ d’ ‘o core mioPietrangelo Buttafuoco, nell’ospitare oggi una mia lettera nel suo Riempitivo, mi qualifica siccome Maestro. Al riguardo debbo farTi cerziore del seguente fatto. I signori (in ordine decrescente di età) Riccardo Muti, Paolo Isotta, Alessio Vlad, Francesco Nicolosi, Antonio Florio, Orazio Mula, Ciro Visco, Nazzareno Carusi e Francesco Libetta, di qui in avanti costituitisi siccome “Cooperativa Mona”: atteso che i signori Tangucci (non meglio precisato) inteso la donna calva, Direttore Artistico del Maggio Musicale Fiorentino; Stéphane Lissner, Soprintendente della Scala; Luca Targetti, inteso omissis n.d.D, ex loggionista della Scala, poi passato nella Direzione Artistica e attualmente agente teatrale; Fortunato Ortombina, ex trombonista, Direttore Artistico della Fenice di Venezia; et reliqui multi: si fanno chiamare Maestro: inibiscono a tutti indistintamente di fregiarli di tale titolo avvertendo che in caso d’inosservanza ricorreranno nelle opportune sedi» [Paolo Isotta, Foglio 7/3/2014].
Vita Infanzia a Goito, 10 mila abitanti, nella pianura tra Mantova e Verona. Prime esperienze nella banda locale, diretta dal maestro Renzo Leasi • «Non c’era la musica nella mia famiglia. Sono figlio del boom economico, vengo da contadini veneti del Monte Baldo che si trasferirono a metà degli anni 50 in pianura per continuare a fare i contadini. Col boom, mio padre Luigi lasciò la campagna e mise su una piccola impresa di trasporti e movimento terra, era il periodo in cui si costruivano strade. Allora si poteva fare, c’erano le cambiali e i sogni. Lui guidava uno dei suoi camion, è morto in un incidente. Ho incominciato a pensare alla musica a dieci anni, ero affascinato da uno zio paterno che suonava il clarinetto nella banda della Finanza. Guardavo in tv i programmi di musica classica e il concerto di Arturo Benedetti Michelangeli. Ma l’inizio vero del mio amore per la musica è scattato dopo la morte di mio padre, quando mia madre faceva le pulizie nell’asilo che frequentavo io: nell’aula c’era un armonium con una suora cattivissima che non faceva avvicinare nessuno. Aspettavo che tutti andassero via e, quando c’era solo mia madre, mi avvicinavo a strimpellare». Il suo primo strumento? «Doveva essere un clarinetto, invece è stato un trombone! Colpa della burocrazia statale. Ero nella nuova banda e hanno sbagliato l’invio: arrivò un trombone e siccome non volevo restare senza, mi sono caricato sulle spalle la grossa custodia e sono tornato a casa. La prima volta in pubblico è stato per un funerale, mi fece impressione perché suonavo per una persona che avevo conosciuto». Quando ha deciso di fare il musicista? «Sono figlio unico, a un certo punto dovevo decidere cosa fare da grande. Dopo il diploma, dovevo occuparmi dell’azienda messa su da mio padre, ma quando si è trattato di decidere ho scelto la musica. Mi sono iscritto a lettere e ho continuato il conservatorio. È stata una scelta molto sofferta, da ragazzo andavo ogni estate a lavorare in azienda, a guidare il camion. Ho fatto il tecnico per geometri perché in casa occorreva un geometra» [Edoardo Pittalis, Gazzettino 22/7/2019] • I primi anni, quando divide la passione per la musica con lavori di ogni tipo: camionista, facchino alla Barilla, ruspista in un cantiere. Il grande valore formativo di quelle esperienze. «Una manovalanza senza la quale non sarei mai diventato direttore artistico e sovrintendente» [Gazzetta di Mantova, 9/11/2017] • Dopo gli studi, entra al Teatro Regio di Parma. «Siamo cresciuti a pane e Verdi. La prima musica che ho sentito, la prima musica che ho suonato con la banda del mio paese, la prima musica che ho diretto quando mi hanno fatto dirigere la banda era il Va’ pensiero» • «Di lui amo la capacità di guardare l’universo umano, di indagarlo e di descriverlo. Non è solo un compositore. È un profeta. E come tale ha agito» • «Al Regio suonavo il trombone come aggiunto nell’orchestra e allo stesso tempo ero artista del coro, con voce di basso. Quasi subito ho cominciato a lavorare anche come maestro collaboratore e intanto studiavo composizione. Insomma, ero pronto alla bisogna. Era un vivere la musica totale, per un paio di settimane ho fatto anche il facchino. Non mi sono fatto mancare niente da questo punto di vista: ho sempre avuto un piede negli studi musicologici e uno nel fare musica quotidiano […] Erano gli anni Ottanta, stavano cominciando a uscire le prime edizioni critiche di Verdi e feci un anno di seminario con Philip Gossett, un maestro impressionante. Fu fondamentale per spalancare la visione di uno come me che già amava molto Verdi, ma aveva bisogno di apprendere la mentalità e il metodo dello studioso. Dopo la laurea sono entrato all’Istituto di Studi Verdiani, dove sono rimasto una decina d’anni fino a quando ho cominciato a lavorare in una Fondazione lirica. Al Teatro Regio di Torino serviva qualcuno che unisse conoscenze musicologiche e pratica musicale […] È stato Carlo Mayer a portarmi a Torino. Cercava un assistente musicale e aveva sentito parlare di me come studioso di Verdi. Abbiamo lavorato insieme lì due anni e poi tre anni al San Carlo di Napoli ed è stato un grande maestro, l’unico vero direttore artistico che abbia avuto sopra di me. È stato anche la persona che mi ha incoraggiato a fare il direttore artistico dicendomi che avevo le carte in regola per farlo» [Paolo Besana, Rivista del Teatro alla Scala 3/2025] • Poi arriva la Fenice di Venezia. Venti stagioni da direttore artistico, di cui ultime sette anche come sovrintendente. «Mi chiamò Gian Paolo Vianello e mi sembrava un bel regalo della vita. Ogni città ha le sue proprie virtù, i suoi difetti, il suo sapore, le sue abitudini e le sue barriere psicologiche che bisogna saper ascoltare con pazienza e umiltà. Venezia storicamente è sempre stata estremamente aperta per quello che riguarda le arti, un luogo di sperimentazione e di possibilità, una vera Silicon Valley. Basta pensare alla Biennale. Non è un caso che opere come Rigoletto e La traviata, che sono tra le più rivoluzionarie di Verdi, siano state scritte per la Fenice» [Besana, cit.]. Dalle finestre del suo ufficio, il canto dei gondolieri. «La Fenice è all’incrocio di tre canali, il cantante di turno accompagnato dalla fisarmonica intona una vecchia canzone di Fred Buscaglione, Guarda che luna. Con Venezia c’entra sempre tutto, figurarsi la luna e il mare. Le voci, forse, non sono proprio educatissime: “Auspico che i conservatori facciano corsi serali per i gondolieri”» [Pittalis, cit.] • A Venezia, Ortombina rivoluziona tutto. La sua idea è riproporre un «vecchio sistema all’italiana: sempre titoli nuovi a ogni stagione, senza ripetere mai le cose già fatte. Da un cartellone fatto da otto titoli all’anno che pensava quasi esclusivamente agli abbonati, si è passati a un pubblico anche internazionale. Oggi restano i titoli per gli abbonati, ma hai anche le novità che ritiri fuori in ogni momento dell’anno. È in questa doppia natura che consiste il modello. Bastava sfatare un principio e un timore: produrre di più costa di più? In un anno, tra opere e concerti, facciamo 180 manifestazioni; prima se ne facevano forse 50! Andiamo anche all’estero. Tra tutti siamo 300 dipendenti e il bilancio è in attivo» [Pittalis, cit.]. Si comincia a parlare di «modello Fenice». «Non c’è niente di segreto. La dimensione artistica e quella imprenditoriale devono andare in parallelo. Quando si mette in cantiere un nuovo spettacolo, oltre al valore artistico, bisogna fare in modo che sia un buon investimento. Che abbia lunga vita, anche nelle stagioni successive». Facile con un repertorio popolare.«Bisogna saper trovare il giusto equilibrio tra titoli di richiamo e più rari. Per esempio, da qui all’estate, il cartellone della Fenice accosta la ben poco conosciuta Maria Egiziaca di Respighi al ben più noto Mefistofele di Boito, il Don Giovanni di Mozart con Il Tamerlano di Vivaldi» [Giuseppina Manin, Cds 12/3/2024]. «Purtroppo siamo tutti vittime di un insegnamento un po’ romantico che è quello per cui l’artista, siccome è illuminato da un’illuminazione divina, che, in quanto divina, è insondabile, e non deve occuparsi della dimensione concreta o economica del suo lavoro. Invece non è così. Vedere l’arte anche nella sua dimensione economica può solo aiutarci a vederla anche nel suo essere o poter essere una risorsa». Approccio sano ma insolito: ha sempre avuto questa passione per i conti? «L’aspetto industriale della musica è una cosa che mi ha molto intrigato quando ho avuto la fortuna di avvicinarmi alla bottega di un grande musicista che risponde al nome di Giuseppe Verdi durante i dieci anni in cui ho lavorato come musicologo all’Istituto di Studi Verdiani. Vedere la musica dal punto di vista industriale mi ha preso progressivamente, ogni giorno, leggendo per catalogarle le lettere di Verdi custodite a Sant’Agata. È lì che ho visto come Verdi passava le giornate e come divideva il tempo in maniera equanime fra la musica e l’attività imprenditoriale. E ho preso coscienza che come faceva il musicista così faceva l’imprenditore. E devo dire che quello di Verdi può senz’altro essere considerato il caso principe di musicista come imprenditore». Ma non è certo l’unico. Butto là due nomi: Händel e Vivaldi. Anche loro pensavano molto ai conti, no? «Sì, ma come impresari teatrali, mentre Verdi faceva l’imprenditore in altri campi. Il suo business era l’agricoltura, erano le sue proprietà terriere. Per esempio, non ha mai investito in beni immobili al di fuori di Sant’Agata. Unica eccezione Milano, per costruirci la casa di riposo per artisti […] a Parigi o a Milano stava sempre in case in affitto o in alberghi […] Un aspetto che si conosce poco è come Verdi sia stato un grande investitore. Negli anni Novanta del XIX secolo reinvestì una somma enorme di diritti interamente nelle Ferrovie meridionali. Era un uomo molto attento al Paese in crescita e a tutto quello che dal punto di vista finanziario poteva voler dire. Considerando le visioni dell’uomo, dell’artista e dell’imprenditore, è difficile dire che cosa del musicista è passato all’imprenditore e viceversa. È stato un intrecciarsi di due attività che convivevano in una sola persona e questo naturalmente si vede nella sua musica, soprattutto nell’essenzialità di un linguaggio musicale che cercava di restituirti ogni volta la vita» [Stefano Nardelli, Giornale della Musica 21/12/2017].
Politica Il Domani scrive che il nome di Ortombina per la Scala è stato proposto dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. «Era la soluzione che meno piaceva al mondo scaligero e ai suoi oltre novecento dipendenti: il direttore è già stato alla Scala, anche se da allora molto è cambiato. Ma Ortombina – considerato un pragmatico capace – si è guadagnato il sostegno di Maria Elisabetta Alberti Casellati e Antonio Tajani accogliendo a Venezia Alvise Casellati, e qualificandosi agli occhi del mondo culturale di sinistra come uomo di destra. Sembra che sul suo destino però abbia influito la moral suasion del suocero del sindaco, Giovanni Bazoli, a sua volta nel cda scaligero: alla fine ha preferito scendere a patti col ministro e confermare il suo ruolo di kingmaker. E così Sala avrebbe deciso di dare il via libera al candidato di Sangiuliano, complici anche una serie di scadenze culturali milanesi su cui non vuole andare al braccio di ferro permanente negli ultimi due anni del suo mandato. Soprattutto pesa l’ambizione che coverebbe il sindaco di succedere ad Antonio Decaro come presidente dell’Anci. Per scalare l’associazione dei sindaci, utile piattaforma di respiro nazionale per costruire l’identità da federatore che fa gola a Sala, serve il consenso dei primi cittadini di destra. Quale migliore sponsor del governo Meloni?» [Lisa Di Giuseppe, Domani 11/3/2024].
Politica/2 Dagospia scrive che il sindaco di Milano Beppe Sala fece suo il nome di Ortombina dopo «la benedizione del “suocero” Giovanni Bazoli», presidente emerito di Intesa San Paolo, «da decenni il vero “sovrintendente’’ del tempio identitario della cultura meneghina. Sala ha proposto Ortombina in quanto conosce la Scala per esserci stato per 4 anni, non è mai stato di destra e alla guida della veneziana Fenice ha fatto bene. Molti mugugni tra i consiglieri che non erano stati finora interpellati» [Roberto D’Agostino, Dago 11/3/2024].
Politica/3 Repubblica critica «il cedimento di Beppe Sala a Gennaro Sangiuliano sul nuovo sovrintendente scaligero segna l’abbrivio al risiko delle fondazioni lirico-sinfoniche che presto consentirà alla coalizione capitanata da Giorgia Meloni di impadronirsi dei migliori palcoscenici d’Opera, dopo aver fatto incetta di Biennali, musei, teatri, arene, festival, centri per il cinema, lo spettacolo, la lettura e naturalmente la Rai. Una manovra a tenaglia per interposto ministro finalizzata a occupare tutte le istituzioni culturali del Paese» [Giovanna Vitale, Rep 25/3/2024].
Politica/4 Ci sono state critiche perché lei ha offerto il podio della Fenice a Alvise Casellati. «È successo tanto tempo fa… Con tutto il lavoro che ho fatto alla Fenice mi sembra davvero pretestuoso parlare solo di quell’ospitalità» [Manin, cit.].
Politica Marco Vizzardelli, il loggionista della Scala celebre per aver gridato «Viva l’Italia antifascista» durante la Prima del 2023, è suo amico, e dice: «Conosco Fortunato da una vita, è bravissimo»
Curiosità Era a Venezia durante l’acqua alta del 12 novembre 2019: lui e tre collaboratori corsero nel buio alla Fenice per salvare i violini e contrabbassi dalla marea • Da giovane giocava a calcio. Era stopper. «Nel 1976 nel Torneo dei Bagni di Forte dei Marmi mi trovai a disputare due partite con Aristide Guarnieri, il mitico stopper della Grande Inter, che mi diede da marcare il giovane Giancarlo Antognoni. Quando Antognoni fece uno scatto e io pretesi di stargli dietro, rimediai uno strappo che mi tenne fuori» [Pittalis, cit.] • Grande appassionato di bicicletta. «Ricordo come se fosse adesso l’emozione che provai a tre anni e mezzo quando tolsi le rotelline alla mia prima bici, e da quel momento la passione non è mai scemata. Poi è arrivata la bici da corsa e quella non l’ho più lasciata» [Pittalis, cit.] • «Il suono del vento nelle orecchie, il gracchiare della catena e l’asfalto sotto i copertoni … si può dire che anche la bicicletta è musica!» • Nel 2019 ha scalato in bici il passo del Pordoi, 2239 metri, si è fermato sotto il monumento a Fausto Coppi, ha reso omaggio al Campionissimo, è risalito in sella e ha incominciato a pedalare per la discesa • Pedala quasi sempre in solitaria • Ama più Coppi che Bartali • Suo vero mito: Learco Guerra, ciclista mantovano di San Nicolò Po, detto «La locomotiva umana» • A Goito, dicono in paese, lo si vede ogni tanto quando torna a trovare la mamma • Goito è il paese del trovatore Sordello • Nel 2018 il sindaco del paese Pietro Chiaventi ha organizzato una cerimonia per consegnargli una targa e la cittadinanza onoraria. In prima fila, in sedia a rotelle, il vecchio maestro Renzo Lease. Ortombina lo ha abbracciato. «Senza di lui oggi non sarei qui a ricevere questa onorificenza» • Ma lei come immagina il futuro dei teatri lirici? «Lo immagino con le difficoltà che sappiamo, ma con prospettive di successo maggiori. Lo deduco prendendo la Fenice come osservatorio, perché non credo esista un altro teatro con un pubblico così composito di spettatori, provenienti da ogni parte del mondo. Avverto che il teatro d’opera è sentito sempre più vicino dalle genti di ogni latitudine. Certo si tratterà di vincere le sfide giuste, per esempio trovando nuove partnerships e pensandoci sempre più come impresa… ma impresa di cultura!» La sua fiducia nel potere della musica è così grande?«Dobbiamo avere fiducia nella musica come bene assolutamente essenziale, di cui l’umanità non può fare a meno, capace di passare attraverso tutte le frontiere. Ormai nessuno sulla faccia della terra può dire di non aver mai ascoltato Nessun dorma cantato da Luciano Pavarotti. Questi brani arrivati nei luoghi più lontani del pianeta, attraverso qualche antenna parabolica o una connessione internet, sono come gocce d’acqua, ma hanno aperto un varco al teatro d’opera. Sarà sempre maggiore il coinvolgimento dell’umanità, in ogni parte del mondo» [Valentina Bonelli, Vogue 18/12/2018].
Titoli di coda «Il nome della “Cooperativa Mona” nasce dal fatto che il sommo Antonio Guarnieri, di fronte (già allora!) all’inflazione del titolo di maestro, impose al cameriere della Taverna della Fenice: “Ciameme mona”, termine spregiativo del dialetto veneziano divenuto d’uso pressoché universale ed equivalente, figuratamente se non sostanzialmente, all’italiano coglione. Pertanto, d’ora in poi, e per tutti indistintamente, io sono Paolino» [Isotta, cit.].