12 giugno 2025
Tags : Jonathan Bazzi
Biografia di Jonathan Bazzi
Jonathan Bazzi, nato a Milano il 13 giugno 1985 (40 anni). Scrittore (2 romanzi; numerosi racconti brevi; collabora stabilmente con Domani, Sette, U e altre redazioni).
Titoli di testa Prima di Febbre lei chi era? «Puritana, vergine, esploratore, provocatore, vittima, carnefice, narciso, verme, il figlio ricchione del poliziotto» [Teresa Ciabatti, Sette].
Vita «Sono figlio di una relazione tra due ragazzi molto giovani: mia madre aveva 18 anni quando mi ha avuto e mio padre 21. Erano semplicemente fidanzati, si erano conosciuti nei cortili delle case popolari di Rozzano e si sono sposati mentre mia madre era incinta. La storia è finita nel giro di un paio d’anni e io, diventato in poco tempo il frutto di un progetto che non c’era più, sono andato a vivere con i nonni materni, dai 3 ai 10 anni» [Rosa Carnevale, kobo.com] • «Io vengo da due famiglie, una composta da operai meridionali immigrati e una, quella paterna, di impiegati che vivevano nelle case popolari» [Francesca Barra, L’Espresso] • La madre si chiama Concetta, detta Tina. Il padre Roberto. Ha una sorella • «Sono cresciuto a Rozzano, cap 20089, un paese piccolo ma neanche poi tanto, all’estrema periferia sud di Milano, (…) posti da cui vengono un sacco di rapper, le baby gang, le infiltrazioni mafiose. (…) Il Bronx del nord: il paese dei tossici, degli operai, degli spacciatori. I tamarri, i delinquenti, la gente seguita dagli assistenti sociali» [Jonathan Bazzi, Febbre] • La vergogna per lei? «Casa mia. Per anni me ne sono vergognato, e le volte che qualcuno mi riaccompagnava a casa mi facevo lasciare nella zona delle villette» Motivo? «Non volevo che scoprissero che abitavo nelle case dell’Aler, troppo identificative». Di cosa? «Di povertà» [Ciabatti, cit.] «Mia mamma faceva le pulizie negli uffici. Mia nonna in altre case popolari di Rozzano. Per esempio dalla signora delle catenelle (…) questa signora per cui lavoravano tante donne del quartiere, inclusa mia nonna, che dava il materiale: perline, ganci. Quindi le lavoranti, ciascuna a casa propria, montavano le catenelle per gli occhiali». Intanto Jonathan? «Da piccolo le facevo compagnia. Da grande, a 14/15 anni, ho lavorato anch’io. Andavo dalla signora a ritirare le mie vaschette di perline e di ganci. Tornavo a casa e mi mettevo a infilare» [ibid.] • Suo padre poliziotto. «Non lo sento da quattro anni». • Ricordi? «Di solito mi portava alla mensa della caserma (mia madre diceva: “Nemmeno il pranzo vuole pagarti”). Lì ho avuto la possibilità di vedere il dietro le quinte dell’Arma, ho sentito i poliziotti parlare di donne e di omosessuali. In quei momenti, con quei discorsi saltava la divisione buoni/cattivi». I buoni simili ai cattivi? «Da allora mi è rimasta la diffidenza per le forze dell’ordine. Persone che, grazie alla divisa, si prendono maggiori libertà rispetto alla gente comune (…)» Il padre poliziotto accetta l’omosessualità del figlio? «(…) ogni tanto chiedeva: “Non sarai mica culattone?”. Il coming out diretto non l’ho mai fatto, gli ha parlato mia nonna. Tuttavia da quel momento lui si è adeguato, almeno nel linguaggio. È un uomo pieno di contraddizioni» [ibid.] • «Foto dell’ultimo anno della scuola materna, giugno, il mio compleanno (…) io mi stringevo a quattro o cinque compagne di classe, tutte femmine, stavo sempre con le femmine. Unica eccezione: Jaco, quello che mi piaceva. (…) Anni e anni passati a cambiare strada, abbassare gli occhi, sperare che passasse, che non mi vedessero, che le battute, frocio, frì frì, femmiell’, arruso, dito che scuote il lobo, bocca che esplode lo sputo, per una volta non arrivassero. Ho scritto e scrivo spesso di questi temi, del mio essere omosessuale, del mio non riconoscermi nel binarismo di genere: non mi sento maschio, non mi sento femmina. E a chi pensa o dice che queste siano mode, pose, trend del periodo, oggi vorrei rispondere con quella foto, che dice di un tempo piccolo e semplice in cui tutto c’era già» [Bazzi, Stampa] • «Nei pomeriggi di giochi e cartoni io ruotavo su me stessa sognando di deflagrare in lampi di luce come Diana Prince che diventa Wonder Woman, imitavo Mei che muta in Magica Emi grazie al braccialetto a forma di cuore, mi accucciavo e scattavo su tetti come Catwoman, mi dipingevo di nascosto le unghie di rosso, infilavo i piedi nei sandali di mia nonna, mentre lei strillava: “se ci vede il nonno ci ammazza”» [ibid.] «Davvero posso parlare di me al maschile o al femminile: (…) a cinque, sei anni io ero queer, gender fluid, anche se solo vent’anni dopo avrei trovato le parole per dirlo» [ibid.] • «La cosa che mi ha più pesato nella vita è l’essere stato balbuziente per tanti anni. E, forse, ogni tanto lo sono ancora.(…) Ricordo ancora la mia paura delle interrogazioni, non perché fossi impreparato ma perché temevo di balbettare» [pocketnews.it] • Al primo anno di liceo scientifico, sopraffatto dall’ansia da balbuzie decide di lasciare la scuola e di iscriversi a un corso per parrucchieri, dove sogna di fare l’hair-stylist di Paola Barale. Si ritrova a fare bigodini ai manichini [Ciabatti, cit.] • Dopo due anni di psicoterapia torna a scuola, frequentando tra il 2001 e il 2006 il liceo artistico Boccioni, amandolo «ferocemente» [Bazzi, Cds] • «Qui sono rinato. Ero animato da un fortissimo desiderio di rivalsa e quindi super esigente, studioso, perfezionista. Sono sempre stato il primo della classe, forse della scuola. Mai avuto un’insufficienza, pagelle piene di dieci (…) Questa scuola mi ha permesso di transitare attraverso diverse discipline, umanistiche, artistiche e scientifiche, e ha placato la mia irrequietezza (…) Così ho raggiunto l’equilibrio che stavo cercando» [Facebook] • C’è un preciso momento della tua infanzia o della tua giovinezza in cui hai iniziato a scrivere o a interessarti alla scrittura come mezzo? «Sono sempre stato un tipo piuttosto eclettico. Fin da piccolo mi interessavano moltissime cose diverse. Già da giovane mi appassionava il disegno tanto che poi ho studiato al liceo artistico e per un periodo sono stato iscritto anche all’Accademia di Belle Arti. Quando ho iniziato a scrivere ricordo che lo facevo su dei quadernoni dove compilavo delle vere e proprie storie illustrate. Abbinavo il disegno alla scrittura, avevo circa 9 o 10 anni. Poi sono arrivati l’innamoramento per la musica, il canto e la filosofia a distrarmi. Ci ho messo un po’ a soffermarmi in maniera esclusiva sulla scrittura. Per questo a volte dico che è stata la scrittura a scegliermi perché nelle mie peregrinazioni, nei miei giri fatti sperimentando vari mezzi espressivi è stata quella che si è mostrata più decisa nel catturarmi» [Carnevale, cit.] • Nonostante doti di memoria non eccelse e un «probabile deficit dell’attenzione», tramite metodi di studio massacranti e la ricerca di un perfezionismo assoluto (inseguito perché «mi serviva per mettere a distanza l’incapacità di accettare di essere me, solo me. La performance scolastica è stata l’armatura con cui ho cercato di vivere nonostante il disprezzo sotterraneo che nutrivo verso il mucchio di niente che sentivo di essere») si laurea con lode in Filosofia all’Università degli studi di Milano, con una tesi sulla teologia simbolica in Edith Stein [Bazzi, Cds] • «Nella fase in cui stavo finendo l’università e non ero soddisfatto delle cose che stavo facendo ho cominciato a spendere molto tempo e molte energie nella scrittura sui social. Erano gli albori di Facebook: 2012, 2013. Io scrivevo questi post dal tenore e dal registro narrativo, cominciando inconsapevolmente ad usare Facebook come piattaforma editoriale. Così ho attirato l’attenzione di persone dell’ambiente, cominciando a scrivere per i magazine. Poi ho capito che il rapporto con la scrittura che mi interessava coltivare era un rapporto non basato su una produzione e un consumo rapido, ma che mi piaceva prendermi cura a lungo del testo» [Andrea Maffi, zero.eu] • Collabora con varie testate come gay.it, Vice, The Vision, Il Fatto • «Prima di Febbre io ero il tipico quasi trentenne con una laurea umanistica e in balia di desideri più o meno frustrati, tentativi, collaborazioni… un po’ stritolato dai ritmi di produzione di contenuti dell’industria culturale soprattutto per la rete, perché, dopo l’insegnamento dello yoga, mi sono mantenuto scrivendo per magazine e riviste online, ritrovandomi spesso ad avere delle giornate che consistevano nello scrivere del mondo senza mai uscire, nel mondo. Era una cosa alienante» [Andrea Maffi, cit.] • L’11 gennaio del 2016 sente che gli sta salendo la febbre. Passa un mese senza miglioramenti e allora, paventando malattie gravi, si decide a fare un test che sino ad allora aveva evitato per paura: quello per l’HIV. A cui risulta positivo. [Alessia Arcolaci, Vanity Fair] • La tensione psicologica accumulata nell’attesa della diagnosi gli causa anche un forte disturbo d’ansia, che risolve con l’aiuto degli psichiatri [su X] • Dopo aver condiviso il segreto esclusivamente con la famiglia, il 1° dicembre 2016 diffonde tramite internet la notizia: «Mi sono appropriato, attraverso la scrittura, di quello che percepivo come un mero fatto biologico, eppure per i più vergognoso. Ho deciso che raccontarlo così, apertamente, mi avrebbe protetto di più: volevo evitare di essere quello a cui si parla alle spalle. Volevo neutralizzare la carica morbosa, ancor prima di quella virale. E poi sentivo a quel punto di appartenere a una storia triste e importante, di essere parte di una comunità sotterranea, invisibile e piena morti, piena di gente ammazzata dal virus ma anche di gente costretta al silenzio. Volevo assumere pienamente e pubblicamente quell’appartenenza che quasi nessuno riesce a rivendicare. Anche perché io allora non riuscivo a percepirla come reale. Non riuscivo a sentirmi davvero sieropositivo: volevo che gli altri mi aiutassero a farlo. E volevo raccontare dall’interno una condizione perlopiù descritta da fuori e rivestita di luoghi comuni e immagini stereotipate. Ecco un sieropositivo: sono io. (…) Non ho avuto molti partner, non ho avuto rapporti sfacciatamente a rischio, non ho mai assunto droghe. Ci sono sempre stato attento ma non è bastato» [Bazzi, vice.com] • Con Febbre abbiamo conosciuto molto di te e della tua storia. Ma quello che non conosciamo è il making of del libro. Raccontaci un po’ com’è andata: com’è nata l’idea, com’è arrivata a Fandango. «L’idea c’era già dal 2012, 2013. Inizialmente volevo raccontare solo Rozzano, la mia infanzia e le figure che l’hanno circondata. Quel primo proposito è rimasto in sospeso a lungo, concretizzandosi all’inizio solo attraverso piccole cose, racconti o articoli, pubblicati sui magazine con cui ho collaborato in passato, o anche sui social. Poi è arrivata la febbre del 2016, e la diagnosi. A qual punto avevo di fronte a me un ulteriore tema, un tratto in più della mia identità, anche questo scomodo, marginalizzante. Ho sentito quindi che Rozzano e la sieropositività avevano delle cose da dirsi, e ho provato a tenerle insieme» [Antonella Dilorenzo, rivistablam.it] • «I primi sette, otto capitoli li ho scritti nella primavera-estate del 2017, incoraggiato da Viola Di Grado, grande scrittrice e mia amica (all’epoca solo virtuale). Nell’estate del 2018, un altro scrittore, Matteo B. Bianchi, che già da tempo mi leggeva sui social, mi ha chiesto – per l’ennesima volta, credendo in me nonostante le mie tendenze dispersive – se fossi finalmente riuscito a mettere insieme del materiale organico, coeso. Gli ho mandato i capitoli scritti l’anno prima, gli sono piaciuti, li ha girati a Tiziana Triana e Lavinia Azzone di Fandango (direttrice editoriale la prima ed editor della narrativa la seconda) e, nel giro di due, tre settimane, ho firmato il contratto e ripreso a scrivere. Febbre l’ho finito a dicembre del 2018, i primi mesi del 2019 sono poi stati dedicati all’editing [ibid.] • Il libro viene pubblicato a maggio del 2019. Nonostante le vendite iniziali non siano entusiasmanti, il passaparola alimenta lentamente il successo del libro, sinché, mesi dopo, viene selezionato per partecipare al premio Strega. A quel punto viene scoperto e apprezzato dal grande pubblico, sbalordendo lo stesso autore [al Giffoni Shock] • La partecipazione al concorso lo costringe a fare alcune precisazioni: «Ci tengo, però, a dire che mi fa un effetto strano quando vengo automaticamente contato tra i maschi: non mi sento di stare da quella parte lì. Il fatto di avere un pene non equivale per forza a essere identificato con il genere maschile. Non sono interessato a posizionarmi in quel senso: quando si dice che in finale ci sono 5 uomini e una donna ci si riferisce solo a una questione genitale» (…) Quando qualcuno la definisce «scrittore sieropositivo»: le dà fastidio? «Per fortuna è una cosa che non capita sistematicamente, ma quando succede, per fretta, scarsa cultura o sensibilità, ci tengo a farlo notare. Non ho niente contro il fatto che lo si dica perché sono stato io il primo a farlo, ma detesto che mi si schiacci su quell’unica caratteristica: a quel punto aggiungete pure che sono omosessuale e balbuziente, visto che la balbuzie è qualcosa che intacca la mia identità molto più della sieropositività. Nel libro l’Hiv è un espediente per raccontare molto altro: non volevo lasciargli tutta la scena perché non sarebbe stato giusto» [Mario Manca, Vanity Fair] • Il libro entra nella sestina finale, ma non vince: in compenso ottiene numerosi altri riconoscimenti, come il premio Fahrenheit di Rai Radio 3 • All’inizio del 2020 comincia la scrittura del secondo romanzo, Corpi minori che termina a fine 2021: la pubblicazione vede il passaggio dalla casa editrice Fandango alla Mondadori. Un cambiamento che comporta il confronto con dinamiche fino a quel momento trascurate, come il numero delle copie vendute e il personal branding, cosa che mette in crisi il desiderio di autenticità contro il flusso dell’omologazione [al podcast Dietro le quarte] • Dopo un esordio come il tuo, tornare in libreria non dev’essere stato tanto facile. Com’è andata, e come sta andando? «Direi bene, sono molto soddisfatto. Dopo Febbre, mi premeva dimostrare di saper scrivere. Non solo di avere una storia personale interessante, ma anche di essere capace di scrivere, di avere una penna valida. (…) con Febbre ho patito certi fraintendimenti (…) nati da alcune scelte linguistiche che ho operato. Ho come avuto l’impressione che in tanti abbiano pensato che lo stile usato in Febbre fosse la mia sola possibilità di scrittura, il mio limite. Ma così non è, e volevo dimostrarlo. La lingua scarna del mio primo romanzo è stata vista, presa come la sola cosa che fossi capace di fare, e mi è dispiaciuto un po’» [Mattia Insollia, liminarvista.it] • Nel corso del 2022 e del 2023 interviene più volte sul tema del carovita milanese, inquadrando in particolare i prezzi degli affitti. Che esperienze ha avuto in 15 anni di case in affitto a Milano? «Quelle che ho trasferito nel mio ultimo romanzo, Corpi minori, con continui cambi di casa. Sono partito affittando delle stanze poi, quando ho iniziato a convivere con il mio compagno, ho abitato in appartamenti di vario genere. Entrambi non abbiamo grandi stabilità familiari e viviamo di lavori creativi e precari. Ci siamo, quindi, barcamenati in soluzioni di fortuna in loft che non sono altro che scantinati senza luce, pieni di muffa e insetti. Oppure in situazioni con difficoltà nel pagare l’affitto e minacce di sfratto. Questo scenario si è ulteriormente complicato negli ultimi anni in cui i prezzi non smettono di salire. Per una stanza si pagano 7-800 euro». È in difficoltà anche uno scrittore ora affermato come lei? «Pago circa mille euro al mese tra affitto e spese, e abito in un monolocale che mette alla prova anche il rapporto con il mio compagno. Non c’è la possibilità di ritagliarsi un momento da soli. Se voglio leggere o scrivere e lui ha delle call, bisogna adattarsi. E in qualche modo ci adattiamo. Ma ho 37 anni, per me immaginare di avere una casa da adulti è impossibile. Dopo l’uscita del mio primo libro ho qualche soldo in più, ma navigo comunque a vista, non ho una prospettiva a lungo termine. A Milano la casa da adulti è un desiderio non realizzabile a meno di non avere entrate eccezionali. Se hai un guadagno dignitoso, devi accontentarti di case piccole e messe male. Questa è la realtà» [Flavia Amabile, Stampa] • Nell’agosto del 2022 con il compagno si vede oggetto di un episodio di omofobia a Todi: «Due amici quarantenni con bambino sette-ottenne al seguito passeggiano per il corso prima di pranzo. Passiamo io e il mio ragazzo, il padre del bambino ferma tutti, sghignazzando con gli occhi esplosi dallo spasso, chiede al figlio e all’amico di girare a guardarci per unirsi anche loro all’incontenibile sollazzo del contemplare due invertiti a passeggio. Anche per questo l’educazione alle differenze in questo Paese resta impossibile: quando si parla di identità e relazioni i bambini vanno "lasciati stare" affinché possiate insozzarli ben bene, sin dalla lallazione, con la vostra lordura retriva e psicopatologica, buona ad assicurarvi un paio di secondi di adrenalina a scapito della dignità del primo che passa» [su X] • A novembre dello stesso anno cambia la terapia contro l’Hiv, passando dalla pastiglia quotidiana a due iniezioni bimestrali. Niente più pastiglia. Sta elaborando l’astinenza? «Dal 2016 mi sono allenato a quell’appuntamento quotidiano, ovunque fossi, qualunque cosa stessi facendo. Assunzione a stomaco pieno, dopo aver ingerito almeno 350 calorie. Ora sperimento il vuoto positivo: non suona più la sveglia che io e il mio compagno Marius abbiamo sul telefono per non dimenticarla. Di tanto in tanto ho dei trasalimenti: oddio la pastiglia...» (…) Ora potrà quasi dimenticarsi di essere sieropositivo. «Non è un problema ricordarmi che ho l’Hiv. È una situazione che mi impone di tenere sotto controllo il virus, ma non mi sento malato, non mi interessa non pensarci, molte delle cose che ho scritto vanno proprio nella direzione opposta (…) Tirare fuori la pastiglia, a cena con altre persone, lo vivevo come un gesto violento: sentivo di riflesso il loro disagio. Ma non ho problemi a dirmi sieropositivo, plasma un po’ la mia vita, ma l’aspetto simbolico, emotivo, estetico-narrativo legato alla malattia non mi interessa. Ho scritto Febbre proprio per raccontare una storia diversa» [Daniela Monti, Cds] • Nel dicembre del 2022 viene aggredito a Rozzano, assieme al compagno e al regista per il futuro film di Febbre, da un gruppo di ragazzini in monopattino che lanciano palle di neve sintetica, raccolta dalla vicina pista di pattinaggio, e lattine piene. Gli altri due provano a interagire con gli adolescenti mentre lui resta paralizzato dalla paura, riportato agli anni del bullismo. «Uno dei problemi fondamentali di posti come Rozzano è il mancato rapporto con la verità. Si tende a negare i problemi: lo fa sia chi governa sia chi amministra. Ammetterli significherebbe occuparsene e risolverli, ma purtroppo anche chi ci vive spesso ha questo tipo di reazioni: negazione, rimozione, il che è pure comprensibile, fosse anche solo per una questione di autostima. Non si ama sentirsi raccontare e identificare con un luogo che ha certi problemi e fragilità» [Elvira Serra, Cds] • A marzo del 2025, tramite una lunga lettera al Corriere della Sera apre un dibattito sulla condizione di «isolamento digitalmente affollato» in cui la tecnologia (e in particolare gli smartphone e i social media) lo hanno condotto, ammettendo di non uscire di casa da alcuni mesi. Riflette sulla dicotomia tra una condizione esistenziale di confortevole autosufficienza, in cui la comunicazione digitale permette di evitare lo stress legato all’ansia sociale, e contemporaneamente sulla necessità di rapporti umani autentici per il benessere della persona e per non cadere in una paralisi [Monica Coviello, Vanity Fair] • In maggio muore l’amatissima gatta Mirtilla: «(…) Tra noi era effettivamente nato un mondo, il mio vero mondo. “Sei l’amore della mia vita”, ho continuato a ripeterle, fino all’ultimo, “il grande amore della mia vita”. E ora, che si fa? Io – inetto, inconsistente, pauroso di tutto – fin qui, ci sono arrivato per te. Il tuo nome esploderà, all’infinito, ovunque per me. Ti amo» [su Instagram] • La necessità di elaborare il lutto lo costringe a ridurre al minimo la presenza al Salone del Libro di Torino.
Amori La sua prima volta? «A vent’anni, con un uomo di quaranta conosciuto su Gayromeo. Ricordo bene quel giorno: mi porta a Linate, lo facciamo in macchina, in un campo di mais. Sopra le nostre teste gli aerei che partivano e atterravano, tutt’intorno le pannocchie. Era agosto». Bel ricordo? «Un ricordo» [Ciabatti, cit.] • Nel romanzo lei racconta di incontri virtuali che spesso diventano reali. Incontri di sesso, periodi di ricerca spasmodica su siti come Gayromeo. In Febbre scriveva: “Usatemi per studiare il cuore del nuovo millennio, quello che prima si innamora e poi ti vede in faccia”. «Prima del mio compagno, peraltro conosciuto in rete, facevo ricerche su Gayromeo. Riempivo le caselle: altezza, colore occhi, colore capelli grandezza pene - medium, larga, extralarge. Protezione o bareback. Quindi uscivano i profili con le caratteristiche indicate». Le sue richieste? «Nei momenti di sogno romantico: capelli biondi, occhi azzurri, interessato a arte e letteratura, snello». Negli altri momenti? «Uomini grandi, sui cinquanta sessanta, palestrati, grossi, tipo Minotauri. Credo che ci fosse il desiderio di annullarsi in un maschile violento, come direbbe Margaret Atwood: “Fantasie di stupro”». Situazioni umilianti? «Tizi che, avendo unicamente bisogno di sesso, finivano e ti cacciavano senza una parola. O quello – come racconto nel romanzo – che appena mi vede, nemmeno mi fa salire in macchina, e inorridito se ne va» [ibid.] • Nell’aprile del 2013 conosce, presso i giardini di Porta Venezia a Milano, l’attuale compagno, Marius Madalin Musat, stylist di nazionalità romena diplomato al Naba: dopo una settimana cominciano a convivere [Manuel Magarini, donnaglamour.it] • «Nei contesti più vari sento spesso la tendenza ad addomesticare l’omosessualità definendo “compagno” la persona con cui si sta. “Porta pure anche il tuo compagno”, “come sta il tuo compagno?”. Io ci tengo invece, quando posso, a continuare a usare “ragazzo”, “il mio ragazzo”, o “fidanzato”. Lo faccio nelle mail, e nelle presentazioni pubbliche, in contesti lavorativi, burocratici e mediatici. Perché mi sembra più allegro, e vitale, sensuale, e vicino all’effetto che l’amore ci fa. Potrà sembrare una sciocchezza, ma è un modo, nel mio caso del tutto spontaneo, e felice, per non cedere a un invito all’ordine, al contegno, alla normalità» [su X].
Titoli di coda Jonathan Bazzi oggi? «Puritana, vergine, esploratore, provocatore, vittima, carnefice, narciso, verme. Il figlio ricchione del poliziotto» [Ciabatti, cit.].