17 luglio 2025
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Biografia di Ernesto Galli della Loggia
Ernesto Galli della Loggia, nato a Roma il 18 luglio 1942 (83 anni). Storico. Editorialista. Accademico. «Oggi nessuno vuole più essere élite culturale. La nostra democratizzazione è stata pervasiva. Ha distrutto ogni carattere di ufficialità. Non credo sia stato un bene» (ad Antonio Gnoli) • «Il suo cognome apparve per la prima volta sul Corriere della Sera il 7 marzo 1876, due giorni dopo che il nuovo quotidiano milanese era stato fondato. Una notiziola a pagina 3 parlava del colonnello Galli della Loggia, che con il marchese Stampa di Soncino e il nobile Francesco Sartirana rappresentava una delle tre squadre impegnate in un torneo fra cavalieri al cospetto del principe Umberto. “La cronaca non ne riporta il nome di battesimo, ma era di sicuro un mio parente”, dice lo storico Ernesto Galli della Loggia, che, di antenati militari al servizio dei Savoia, ne ebbe più d’uno. “Veniamo da La Loggia, vicino a Torino. Era il nostro feudo. Da lì ci trasferimmo a Napoli, dove nacque mio padre, un ginecologo”» (Stefano Lorenzetto). «Provengo da una famiglia di media borghesia meridionale. Mio padre medico votò per la monarchia e poi, in mancanza di meglio, divenne liberale». «Da bambino che cosa sognava di fare da grande? “Il custode della legge nel Far West. Ero suggestionato da un fumetto, Il Piccolo Sceriffo”» (Lorenzetto). «Ho fatto un buon liceo romano: il Mameli. Quando ancora, la scuola, la dovevi conquistare sui libri. Ebbi insegnanti egregi: Giorgio Candeloro per storia e filosofia; Filippo Maria Pontani per greco e latino». Piuttosto conflittuale il rapporto col padre. «Lui era un medico, andava in giro a fare le visite ai pazienti e spesso io lo accompagnavo. Mentre lui era con i malati, io lo aspettavo in macchina, magari a fare i compiti o a leggere. Negli anni della formazione, l’aver trascorso molto tempo con lui è stato fondamentale. Quando, però, decisi di andare all’università, la mia idea era di fare Lettere. Lui era contrario. Raggiungemmo, allora, una sorta di compromesso: e così scelsi Scienze politiche. Ma comunque si creò tra noi una frattura. Tenga conto, inoltre, che eravamo quasi nel Sessantotto. Lui, da liberale conservatore, non vedeva di buon occhio il mio impegno a sinistra: gli sembrava tutto sbagliato, non capiva le istanze giovanili di quegli anni, le proteste e tutto quello che sappiamo. Il nostro combattimento intellettuale e ideologico, però, finì presto, perché, a soli 56 anni, morì» (a Francesco Melchionda). Quella di Scienze politiche era «“una facoltà, allora, ad alta densità fascista. Erano i primi anni Sessanta. Come reazione alle provocazioni della destra estrema cominciai a leggere Il Mondo di Mario Pannunzio”. […] A parte i fascisti, che accadeva all’università? “Ben poco, per quel che ricordo. Nel 1962 mi iscrissi al Partito socialista. Frequentavo la sezione romana dei Parioli, dove oggi c’è una pizzeria. Finii l’università nel 1966, laureandomi con una tesi di storia economica con Gian Paolo Nitti, nipote di Francesco Saverio Nitti e amico di Ernesto Rossi, al quale volle presentarmi”» (Gnoli). «Ero un assistente volontario all’università, non retribuito. Pur frequentando l’università in quest’altra veste, tuttavia, manifestavo anch’io. […] Credevo allora a molte di quelle cose in cui credeva quella generazione di sinistra». «Non ho mai avuto nulla a che fare col ’68 organizzato politicamente, coi gruppetti. Ma sono stato trascinato nel ’68 come tutta la mia generazione… Il primo marzo del ’68 ero a Valle Giulia. Che per i “contestatori” vale come la Marcia su Roma per i fascisti. Solo un asceta o un totale imbecille avrebbe potuto essere fuori da questa grande marea» (a Claudio Sabelli Fioretti). «Si laurea e che succede? “Spedii il mio lavoro a Leo Valiani, il quale per tutta risposta mi inviò una lettera di sette facciate”. Sorpreso? “Decisamente: non avevo particolari aspettative, e poi sapevo che era un uomo sobrio e riservato. Aveva un suo studio nella sede milanese della Banca commerciale. Quando andai a trovarlo vidi un uomo sepolto dai libri e dai giornali. Possedeva vaste conoscenze e parlava sette lingue. Perfino lo yiddish. Che considerava un obbligo per un ebreo. Mi fece avere una borsa di studio alla Fondazione Einaudi e divenne mio tutor. Fu così che dal 1970 al ’73 mi trasferii a Torino”. Anni politicamente turbolenti. “Presi in affitto, con altri tre ricercatori, la casa che era stata il vecchio studio di Carlo Levi. I miei coinquilini divennero militanti di Lotta continua e la casa si trasformò in una specie di base per le riunioni politiche. Lì cominciai a capire cosa fosse l’estremismo”. Ne restò immune? “Totalmente. Oltretutto, vedevo l’abissale ignoranza di quei tre amici, che della storia avevano una concezione mitologica ed eversiva. Scelsi di schierarmi dalla parte del Pci, dalla parte riformista”» (Gnoli). «Ho votato a lungo per il Partito comunista pur non essendo mai stato comunista. […] Io ero quello che si dice un progressista di sinistra, con tutti quegli ideali, illusioni, che poi il tempo contribuisce a modificare, a cancellare o a elaborare». Notevole il suo debito con Giampiero Mughini: «Lui lesse delle cose che avevo scritto sul finire dei Settanta, e mi chiese di collaborare a Paese Sera. Il mio esordio sui giornali, lo devo a lui». Molto importante anche il ruolo avuto da Giorgio Fattori, «“algido direttore della Stampa, nel 1985. Mi disse: ‘Nei suoi fondi può scrivere ciò che vuole, tranne che le Fiat sono auto scadenti’. ‘Ma si figuri, ho una 500 e mi trovo benissimo’, replicai”. Mi pare che ancor oggi guidi una Panda rossa. “Appunto. Qualche mese dopo, Fattori mi richiamò: ‘Vedo che i suoi articoli hanno successo: le aumento il compenso’. Altri tempi, altra editoria. Alla fine indussi il mio amico Paolo Mieli, che conosco da una vita, a traslocare dalla Repubblica alla Stampa. Be’, a dire il vero si risolse a farlo dopo una seduttiva telefonata di Gianni Agnelli, che nel 1990 lo nominò direttore. E, quando Mieli passò alla guida del Corriere della Sera, mi portò con sé. Da allora credo di aver scritto non meno di 1.200 editoriali. Il primo contro uno sciopero iniquo di Cgil, Cisl e Uil”» (Lorenzetto). «Ho avuto, sul finire degli anni Ottanta, mentre collaboravo alla Stampa, un contatto con Eugenio Scalfari. Cedetti alle sue lusinghe, lasciai La Stampa e firmai un contratto di collaborazione con Repubblica. Collaborai per due mesi. Ma vidi subito che non era aria. Non mi piacquero per nulla le famose riunioni di redazione del lunedì. Rimasi esterrefatto: c’era un’edificazione del re Sole, una cortigianeria imbarazzante. Il primo articolo con cui esordii era un articolo di critica su Bobbio, che su Repubblica era una sorta di papa. […] Scrissi quell’articolo per sondare il terreno e saggiare lo spazio di libertà che potevo avere. Eugenio lo pubblicò dopo dieci giorni: lì capii che le mie perplessità erano più che fondate, e lasciai perdere». Collaboratore prima di Quaderni storici e poi di Mondoperaio, fu in seguito cofondatore e direttore dei mensili Pagina e Liberal. «Come nacque Pagina, che diresse, e che vantava nomi come Mieli, Mughini, Fini? Perché finì quell’esperienza? […] “Un industriale illuminato, Franco Morganti, ebbe l’idea di finanziare, raccogliendo un po’ di soldi con i suoi amici, un giornale, un mensile. Chiese a me di dirigerlo, che all’epoca, e siamo negli anni Ottanta, avevo da poco iniziato a collaborare con La Stampa. E io mi rivolsi ad alcuni amici, quelli che lei ha citato. La rivista durò poco perché non avevamo molti quattrini a disposizione. Avemmo tanti attestati di stima, ma nelle vendite fu un disastro assoluto”. […] Le è mai stato censurato un articolo sul Corriere? “Una volta, sì, mi è capitato di essere stato censurato, ma non le dico quando né come”» (Melchionda). Docente universitario per oltre quarant’anni (Storia economica, Storia contemporanea e Storia dei partiti e movimenti politici, tra Siena, Perugia e Milano) nonché ex preside della facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano ed ex direttore del corso di dottorato di ricerca in Filosofia della storia presso l’Istituto italiano di scienze umane di Firenze, Galli della Loggia continua tuttora a collaborare regolarmente col Corriere della Sera, senza peraltro disdegnare di apparire in televisione, tanto in trasmissioni di divulgazione storica quanto in dibattiti sull’attualità politica. È stato inoltre nominato dal ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara membro della Commissione di studio per l’elaborazione e la formulazione di proposte volte alla revisione delle indicazioni nazionali e delle linee guida relative al primo e al secondo ciclo d’istruzione, in qualità di coordinatore della sotto-commissione relativa all’insegnamento della storia. «“Abbiamo fatto prima di tutto un esercizio di chiarezza e semplificazione del linguaggio. […] Abbiamo cercato di dare più spazio, nei limiti del ragionevole, alla storia italiana e ai suoi legami con la storia europea. Abbiamo voluto altresì porre attenzione al rapporto tra la storia d’Italia e il passato greco-latino, o, per esempio, al profondo legame tra la storia dell’Italia risorgimentale e il contesto europeo del tempo”. […] Le opposizioni politiche temono che si vogliano riportare indietro le lancette della storia, difendendo un’idea di scuola passatista e identitaria. In che senso, invece, ritenete di aver apportato elementi nuovi, cioè più rispondenti alle esigenze dell’oggi? “L’attenzione quasi ossessiva al presente è una delle cifre retoriche che più hanno dominato, dannosamente, la pedagogia italiana. Che cosa significa ‘attenzione al presente’ rispetto a una materia come la storia? Potrei capirlo per le materie scientifiche o tecniche, ma rispetto allo studio della storia non ha alcun senso”. Può significare pensare a una narrazione più globale, con uno sguardo rivolto al mondo… “Ma mi chiedo: che cosa è il mondo, se non un insieme di singoli territori, di regioni, di Paesi, ognuno con le sue specifiche vicende? Dovremmo forse studiarle tutte? […] Studiare significa immergersi nel lavoro, approfondire, e allora, non potendo studiare tutto, non è forse più sensato studiare bene la nostra storia e quella delle aree storico-culturali con cui abbiamo avuto un rapporto più profondo, più duraturo, più determinante?”. […] Nelle indicazioni c’è però uno spazio rilevante per il ruolo che ha avuto il cristianesimo nel plasmare la storia italiana ed europea. “Certo, ma sfido chiunque a sostenere che questo ruolo non sia esistito effettivamente o che non abbia avuto per più versi una rilevanza storica decisiva. L’ideologia o la dimensione confessionale non c’entrano”» (Pino Suriano) • Autore di numerosi saggi. Tra gli ultimi L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola (Marsilio, 2019), Otto vite italiane (Marsilio, 2022) e Una capitale per l’Italia. Per un racconto della Roma fascista (il Mulino, 2024) • Sposato (civilmente dal 1993, religiosamente dal 2008) con la collega Lucetta Scaraffia • «È credente? “Non posso dirlo. Mi definirei una persona che vorrebbe molto esserlo”» (Melchionda). «Sono un dubbioso, che però crede nell’esistenza di Dio. In questo mi aiuta Lucetta, cattolica a tutto tondo» • «Una volta lei ha detto: “In me convivono pensieri di destra e di sinistra”. “Io mi sento un piccolo borghese democratico nazionalista. E sono anche militarista. Penso che esistano le occasioni in cui bisogna fare la guerra, e che in guerra conti il coraggio”. […] E i pensieri di sinistra? “Ho a cuore una società libera in cui ci siano persone il più possibile liberate dal bisogno, dove ci sia un minimo livello di eguaglianza anche nella possibilità di accedere alle risorse della sanità, della scuola, del benessere”» (Sabelli Fioretti). «Lei confessò di aver votato per i grillini. “Sì, nel 2013, però. Gli anni sono importanti. Pensavo che avrebbero impiegato il tempo successivo a consolidarsi, a leggere qualche libro. Invece nel 2018, quando hanno agguantato il 32 per cento, si sono rivelati una catastrofe. In precedenza avevo votato a lungo per i radicali”. Per quale motivo? “Perché penso che l’Italia abbia bisogno di una profonda trasformazione del quadro istituzionale. La seconda parte della Costituzione condanna il governo alla paralisi. Il premier non può licenziare un ministro, in compenso viene sfiduciato con un semplice voto di maggioranza. Il Parlamento fa le leggi ma poi la burocrazia le ritarda a suo piacimento con i regolamenti attuativi. Il capo dello Stato ha più poteri di quelli stabiliti per il re nello Statuto albertino. […] Serve una forza politica che cambi le regole del gioco. La cerco ma non la trovo. E, quando penso d’averla trovata, sbaglio”. Ha votato anche per il Pci. “Fino al 1975. Poi l’idea di ritrovarmi Gian Carlo Pajetta agli Interni mi è sembrata inquietante”. Ha persino fondato una lista elettorale. “‘Sì Referendum’, alle elezioni politiche del 1992. Un caravanserraglio interessante: Massimo Severo Giannini, Massimo Teodori, Federico Zeri, Lisa Foa. Mi costò un sacco di soldi. Ho sempre pensato che la politica si debba fare con i propri averi”. Che cosa ha imparato da quell’esperienza? “Che la politica è noiosissima. Chi vi si applica andrebbe retribuito con stipendi stellari”. Spesso non ha votato. “Per forza. Non avrei saputo per chi votare”» (Lorenzetto) • «Quali idee ha cambiato? “Ho cambiato giudizio sulla sinistra italiana, quindi implicitamente anche sulla Dc. A un certo punto mi è parso chiaro che la sinistra italiana aveva un livello di immaturità politica e di filosovietismo che le rendeva impossibile governare. Quindi la Dc aveva assolto una funzione storica decisiva nell’assicurare un regime politico che bene o male aveva mantenuto la democrazia in Italia”» (Sabelli Fioretti). «Più passa il tempo, più mi convinco che Craxi è stato la grande occasione che ha avuto la Repubblica di cambiare, di mettersi su una strada diversa. Basti pensare alla riforma della Costituzione. La seconda parte della Costituzione è una vera palla al piede» • «Bettino Craxi la gratificò con il titolo di “intellettuale dei miei stivali”. “Forse era rivolto ad Alberto Cavallari o a Massimo Mila, non è stato mai chiarito. Di mezzo c’era la crisi di Sigonella. Io non rimproveravo al premier di essersi opposto al blitz statunitense sul suolo italiano ma di aver consentito ad Abu Abbas, il terrorista dell’Olp responsabile del dirottamento dell’Achille Lauro e dell’uccisione di un passeggero, di farla franca”. Marco Pannella la qualificò così: “Uno che sa tutto, ma di politica non capisce un ca…”. “Penso che valesse anche per lui. Non è che con la fame nel mondo e Gandhi sia andato molto lontano. Ha distrutto il patrimonio dei radicali”. […] “Le persone fanno la differenza. Sempre”, scrive, con una comparazione fra Conte e Churchill. “All’Italia mancano le personalità. Non ce ne sono più. La politica non le attrae, anzi le respinge”» (Lorenzetto) • «“La democrazia non può non essere anche populista se è governo del popolo. Sto parlando di una componente ideologica fondamentale nelle forze politiche del Novecento che, con pedagogismo e responsabilità, si schierarono non dalla parte delle opinioni del popolo ma delle sue necessità”. Dunque un populismo senza popolo? “Il popolo è ormai ridotto a plebe. Delusa dal miraggio della globalizzazione e del multiculturalismo. Due eventi che hanno prodotto enormi disagi tra la gente e molta rabbia nei riguardi di quella élite che glieli ha spacciati come il sogno di una vita migliore”» (Gnoli) • «La crisi delle élite […] è legata al problema generale della rappresentanza e a quello della formazione: al fatto che nei sistemi educativi europei è stata progressivamente espulsa la cultura umanistica, e quindi sono arrivate al potere delle élite formatesi con un retaggio umanistico sempre più debole. La metto giù dura: per governare serve una serie di competenze, di capacità che possiede soltanto chi sa di storia, di letteratura, di diritto. Non mi pare che ci sia mai stato un famoso uomo politico laureato in ingegneria o in chimica. Un ingegnere non è capace, un tecnico non può comandare. Soltanto la cultura umanistica fornisce la capacità di cogliere una tendenza generale, quella capacità di visione e d’interpretazione dei movimenti storici e della cronaca che servono a governare» • «Non siamo riusciti a coniugare educazione di massa e scuola di qualità: l’equazione è fallita quando per motivi ideologici si è pensato che il punto decisivo fosse quello di “democratizzare” la scuola, di dare l’autonomia ai singoli istituti e di rivedere radicalmente i programmi. E soprattutto che fosse una cosa molto progressista promuovere tutti» (a Pietro Senaldi) • «Il contrasto all’immigrazione indiscriminata è una questione molto importante, che riguarda in special modo la vita quotidiana delle classi popolari di molte aree urbane del Paese. Come si fa a dire che chi vive nelle periferie e non vuole un campo rom vicino non è cristiano? Bisognerebbe trovarsi al suo posto e vivere le sue giornate per giudicare» • «Oggi il fascismo è uno spauracchio. Viene strumentalizzato. È l’arma della fine del mondo cui ricorre la sinistra per mettere fuori gioco la destra, accusandola di volere precipitare l’Italia nuovamente nel fascismo. È una fesseria» (a Luigi Mascheroni). «La democrazia italiana non sa che farsene, dell’antifascismo dei faziosi e dei violenti. E non vuole avere niente a che fare con l’antifascismo che sfoga i suoi poveri livori politici per celare le sue pochezze, per maramaldeggiare» • «Perché ha voluto fare lo storico? “Forse perché non ho avuto abbastanza coraggio per fare il politico. O comunque perché la politica mi ha sempre interessato se letta con il filtro della storia”» (Gnoli) • «Come ci si sente al giro di boa degli 80 anni? “Come all’ultimo tratto della regata. Ci sarà vento?”» (Lorenzetto).