21 luglio 2025
Tags : Giuseppe Battiston
Biografia di Giuseppe Battiston
Giuseppe Battiston, nato a Udine il 22 luglio 1968 (57 anni). Attore • Arrivato giovanissimo alla Paolo Grassi di Milano, perché recitare era l’unica cosa che gli piacesse • Tanto teatro con Alfonso Santagata • Lanciato nel cinema da Silvio Soldini, che lo ha diretto in Un’anima divisa in due (1993); poi in Pani e tulipani (2000), Agata e la tempesta (2004), Giorni e nuvole (2007) e Il comandante e la cicogna (2012) • Tra i suoi film: Chiedimi se sono felice (Aldo, Giovanni e Giacomo, 2000); La bestia nel cuore (Cristina Comencini, 2005); La tigre e la neve (Roberto Benigni, 2005); La giusta distanza (Carlo Mazzacurati, 2007); La sedia della felicità (Carlo Mazzacurati, 2013); Finché c’è prosecco c’è speranza (Antonio Padovan, 2017). È stato l’amico segretamente gay in Perfetti sconosciuti (Paolo Genovese, 2016) e il burattinaio Mangiafuoco nell’ultimoPinocchio della Disney (Robert Zemeckis, 2022); sempre impegnato in teatro, ha recitato anche per le fiction televisive, nel doppiaggio e per la radio e gli audiolibri • Tre David di Donatello, due Nastri d’argento, un Ciak d’Oro, due Premi Ubu e un Premio Flaiano per il teatro • Nel 2023 ha anche debuttato alla regia con il film Io vivo altrove!, ispirato a un romanzo incompiuto di Gustave Flaubert, ma ambientato sulle colline del Friuli («Mi sono attenuto ai consigli di Ken Loach, che suggerisce agli esordienti di parlare di se stessi, delle proprie radici») • Il segreto della sua carriera: scegliere solo ciò che lo attira • Rifugge accuratamente ogni cordata e ogni mondanità. Vive a Roma, ma sogna di trasferirsi da qualche parte tra l’Appennino e il Po • Spesso confuso con l’attore Stefano Fresi, che gli somiglia moltissimo, e si diverte a firmare autografi al posto suo (il diretto interessato ribatte: «In compenso io ricevo parecchi complimenti per Smetto quando voglio, sto ancora vivendo di fama non mia») • «È un caso unico nel nostro cinema. Bravissimo ma debordante, buffo ma anche malinconico, vitale e meditativo. Uno che avrebbe potuto subire il destino di Aldo Fabrizi o di Tino Buazzelli, limitati dal loro corpo a ruoli comici o drammatici, e che è invece riuscito a diventare un attore completo, buono per qualsiasi ruolo» [Simonetta Robiony, Sta 29/6/2010] • «Da sempre corpulento, dotato cioè di quella particolare grazia scenica che è propria di chi ha volumi consistenti, senza rientrare però nella tipologia dei grassi. Una volta aveva provato a dimagrire. Era diventato bellissimo, somigliava a Brad Pitt, ma pare che nessuno lo volesse più. Il regista che l’aveva scritturato minacciava addirittura di sostituirlo: un po’ perché i suoi costumi erano tutti da rifare, un po’ perché aveva perso qualcosa della sua peculiare fisionomia artistica» [dalla rivista Alibi, 19/2/2010] • «Il corpo possente di chi si è goduto belle mangiate ma anche di grande, falstaffiana espressività, una faccia infantile e sveglia» [Anna Bandettini, Rep 14/4/2004] • Battiston, ma lei quanti chili pesa? «Non saprei, non vedo una bilancia da anni. Non mi chiederà anche lei cosa mangio, cosa preparo, se cucino per gli amici?». Per carità! Mi interessa come il corpo gioca nel suo lavoro d’attore e nella percezione che il pubblico ne ha. «Noi discendiamo dalla commedia dell’arte, che determina i personaggi sulla base di maschere e latitudini. Una stazza come la mia ti sospinge in una tipologia bonaria e rassicurante, che corrisponde a un diffuso bisogno delle persone di essere rassicurate. La cosa mi fa infuriare» [Gianni Perelli, L’Esp 29/11/2013].
Titoli di testa Il suo monologo Orson Welles Roast, scritto assieme a Michele De Vita Conti, e costruito in larga misura su stralci di interviste rilasciate da Welles, si apre proprio con delle riflessioni sul cibo. Il sipario si alza, la scena buia, lui indossa un accappatoio bianco di taglia extralarge. Folgorante la battuta iniziale: «Il medico mi ha proibito di preparare cene per quattro persone, a meno che a tavola non ci siano anche gli altri tre».
Vita Giuseppe Battiston, che a 13 anni sognava di diventare autista delle corriere. «Volevo un lavoro di responsabilità» • Giuseppe Battiston, che a 16 incrocia per caso una manifestazione teatrale a Udine. «Fu un’esperienza di teatro tra giovani. Completamente autogestita. Fu fondamentale» • Recitare gli piace moltissimo. «Era l’unica cosa che mi teneva sveglio, quando studiavo mi addormentavo. Degli anni del liceo non rimpiango nulla, ho un ricordo terribile. Per fortuna ho scoperto il teatro» [Fabio Canessa, ItalPress 30/7/2018] • Cosa studiava, prima di approdare alla Paolo Grassi? «Ho fatto il liceo classico, però non è necessario raccontarlo. Non sono cose così interessanti». Legami di allora che ha portato fin qui? «Il professor Aldo Scarpis, storico docente del Parini, è un mio carissimo amico. Prima di insegnare a Milano aveva insegnato a Udine: condividevo già allora con lui la passione per il teatro. Quella per il greco no, quella era solo sua» [Anna Gandolfi, Cds 13/4/2021] • Ottenuta la maturità, Battiston lascia il Friuli per andare a Milano. Frequenta la Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi • Non ha sofferto di solitudine all’inizio? I suoi compagni della Paolo Grassi ricordano che stava sulle sue e parlava con il Pinguino De Longhi che aveva nella stanza in affitto. «Stavo in una stanza in affitto dove non potevo portare nessuno, perciò mi restavano solo i monologhi. Un giorno però è venuto l’idraulico e ha portato via il Pinguino. Allora ho dovuto cominciare a parlare con gli altri. E sono diventato finalmente socievole» [Paola Piacenza, iO Donna 27/4/2025] • Albanese è stato un suo compagno di corso. «Che annata. Avevano finito i belli. Noi eravamo più interessanti che belli». Chi era più studioso tra i due? «Eravamo tutti molto fisici. Antonio era esplosivo già a scuola. Andavamo a vederlo allo Zelig in viale Monza, quando lo Zelig era un localino piccolo piccolo, ed era uno spasso». Lei come ha cominciato? «Ho iniziato con il cinema e poi con il teatro. Una delle prime persone che ho conosciuto era Silvio Soldini: veniva a vedere gli spettacoli a scuola. Con lui ho fatto otto film». Aneddoti di quei giorni? «È passato tanto tempo. Eravamo un gruppo eterogeneo, ricordo l’entusiasmo generalizzato. Stavamo alla Paolo Grassi di Milano: era un’occasione, guai a sprecarla. Abbiamo toccato con mano la varietà delle correnti nel teatro italiano, europeo e mondiale. A scuola arrivavano i maestri, da Thierry Salmon a Yoshi Oida a Heiner Müller: non c’è un grande dell’epoca che non sia passato da lì». Quanto è restato a Milano? «Più o meno dal 1988 al 1994, poi ho cominciato a girare per lavoro: un senza fissa dimora» [Gandolfi, cit.] • Primo ruolo in un film in Italia-Germania 4-3, ancora da allievo. Lo dirige Andrea Barzini. «Ci fu bisogno di una dispensa perché prima del diploma era vietato, pena l’esclusione, avere contratti professionali». Il grande successo arriva una decina di anni dopo, nel Duemila, grazie a Pani e tulipani di Soldini. «“Film di cui ho un ricordo indelebile” sottolinea Battiston che con il tempo ha costruito un percorso di attore fondato sempre più sulla lotta contro il già visto. “Non mi interessa fare la maschera. L’aspetto più stimolante di questo lavoro è confrontarsi con cose mai fatte prima, che non conosco, che devo imparare. Per me è importante uscire dal sentiero che la pigrizia dei produttori, e anche degli spettatori, vuole importi. Non rimanere incastrato in un personaggio» [Canessa, cit.] • Scrive Rep nell’aprile 2004: «Giuseppe Battiston è un giovane attore che fa guardare con ottimismo al futuro del nostro cinema: è bravo, educato, legge libri, s’informa, ha raggiunto la notorietà e non se la tira» [Bandettini, cit.] • Cosa fa nei 15 minuti prima di entrare in scena? «Non ho alcuna forma di sacralità, mi piacerebbe ma in realtà non vedo l’ora di incontrare il pubblico, capire che reazione ha, se sta al tuo gioco. Devi sentirlo, il pubblico».Avrà sviluppato una sensibilità speciale per leggere volti e gesti, utile anche nella vita... «E nel tempo si è pure abbassata la soglia di attenzione dello spettatore, anni fa erano 15, 20 minuti, adesso siamo intorno ai 10. Il pubblico lo acciuffi all’inizio». I telefonini andrebbero vietati a teatro. Cosa dice? «Il problema è l’educazione della gente. Mi incazzo o non m’incazzo quando fanno le foto durante lo spettacolo e tu ti senti come un macaco allo zoo?» [Silvia Locatelli, Elle 30/10/2024] • Pure sulla sua famosa stazza, scherza volentieri: «Un po’ di ciccetta è sempre sexy». Un giudizio che pare interessato… «Un conto è lo spettacolo, ma nella vita credo fermamente che un po’ di ciccetta conquisti». Mai avuto complessi? «No, perché io penso a me come a un atleta… dell’anima». Che cosa cura di più? «I capelli. Poiché quando recito li devo lavare ogni giorno, uso prodotti delicati per non indebolirli. Il rischio, per me, è di diventare stempiato, con un po’ di pancetta e leggermente sfigato. Che poi sarebbe il sogno di tutti i registi, ma è un’immagine in cui non mi riconosco». Il suo volto le piace? «Ho avuto uno shock quando mi sono visto senza barba, che ho dovuto tagliare sul set del film di Emidio Greco». Che cosa ha pensato?«Caspita, che ragazzino!». Il prossimo gesto vanitoso? «Ora che le riprese sono terminate mi lascio ricrescere la barba. Fino ai piedi» [Cds 24/7/2010].
Amori Riservatissimo. «Non ho figli, non sono sposato, e non parlo mai della mia vita privata».
Politica Un ruolo in Pitza e datteri, commedia divertente sulle religioni e l’integrazione del regista curdo-iraniano Fariborz Kamkari. Lui interpreta Bepi, nobile decaduto veneziano che si converte all’Islam e assume il nome di Mustafà. «I commenti di alcuni leader mi offendono, noi italiani non siamo tutti così rissosi, volgari, egoisti e poco intelligenti. Prendiamo l’immigrazione: è un evento “normale”, motivato da necessità primarie. Come le rondini si spostano per mangiare, così fanno gli uomini per avere cibo, lavoro e dignità» [Cds 31/5/2015].
Tifo Tiene per l’Udinese. «È bellissimo sostenere una squadra che non vincerà mai niente, perché vivi di gioie effimere ma meravigliose, come battere l’Inter, la Roma o, soddisfazione massima, la Juventus».
Curiosità Alto 1 metro e 85 • In cucina usa solo sale di Cervia • Anche se vive a Roma da decenni, continua a pensare in dialetto friulano • Adora le osterie • Dice che se dovesse fuggire all’improvviso da casa, l’oggetto che porterebbe via con sé è un cavatappi («È sempre un veicolo di socializzazione») • Ai David di Donatello lui e Stefano Fresi si siedono sempre vicini per depistare gli spettatori (nel 2019 hanno pure girato un film assieme, Il grande passo di Antonio Padovan) • Non suona nessuno strumento • Non sa nulla di matematica • Non è tecnologico • Non ha né X né Facebook né Instagram, e non ne sente la mancanza. «L’ultimo strumento che ho imparato a usare è il fax» • Ha il computer, ma lo usa solo per guardare i film e la posta (ma fa molta fatica a rispondere) • Rivendica il diritto di non rispondere al telefono • «Senza offendere nessuno, oggi c’è una sottocultura fatta di pettegolezzi e selfie che è diventata la base della comunicazione della nostra epoca. Il telefonino ha sostituito il diario e gli amici» [Canessa, cit.] • È convinto che presto ci stuferemo delle serie tivù •Ama la curiosità dei giovani. «Quelli che vengono nei camerini sono pieni di domande e mi confessano che non sapevano niente di Orson Welles. Ecco, questa è la mia gioia, far riflettere i giovani. I ragazzi sono colpiti dall’indipendenza che insegna l’autosufficienza. Vorrei che tramontasse quel mito del super lavoro, che ti fa guadagnare quattro volte di più, ma poi ti costringe a spendere i soldi dall’analista per riprenderti quella parte che ti ha divorato lo stress» • È preoccupato però dalla tecno-dipendenza. «Non è più bello incontrarsi, parlarsi e guardarsi negli occhi? Poi l’idea che una mia foto rubata finisca in rete non mi piace, la vivo come una violenza. Forse tanti problemi che oggi affliggono i ragazzi sono legati al filtro dello smartphone. Li vede in giro? Non alzano più lo sguardo» • «Non ho mai desiderato essere popolare e riconoscibile, ma fare il mio lavoro nel migliore dei modi, ricavarmi le opportunità. Mi fa piacere — oddio, per la verità relativo — che le persone mi fermino e mi facciano i complimenti. Fa parte del mestiere, lo so bene, e dovrebbe essere gratificante. Ci sto lavorando, sono molto giovane (ride, ndr) ho ampie possibilità di miglioramento». Si ritrae perché si imbarazza? «Ho il mio carattere Sono impreparato rispetto al pubblico. Ammiro i miei colleghi che riescono a costruire un personaggio di sé che poi vanno a proporre in giro, nei programmi. Io in tv faccio fatica». Però è un grande interprete di commedie: tifa per il sorriso? «Tifo per l’ironia e la leggerezza… È fondamentale bilanciare situazioni miserabili con momenti più leggeri» [Silvia Fumarola, Rep 3/6/2024] • Sogna di andare in tivù condurre un programma gastronomico. «Ma non le gare tra invasati che imperversano in questo paese dove pare che tutti vogliano imparare a cucinare e nessuno a mangiare, tutti chef poi quattro salti in padella perché non c’è tempo! Piuttosto una cosa come il Viaggio lungo la Valle del Po alla ricerca dei cibi genuini, che Mario Soldati s’inventò nel ’56 agli albori della nostra tivù. Per scoprire e raccontare un paese, le persone, come vivono, cosa cambia». E perché non ci prova? «Lo abbiamo proposto più di una volta, Matteo Oleotto e io. Tempo un’ora e in bocca ai nostri interlocutori diventava un’altra cosa: “Potremmo metterci dentro un quiz” oppure “Se ne facessimo un bel reality?”. In tivù va così, vogliono programmi non solo già masticati ma anche già digeriti, in modo che lo spettatore non debba fare nessuno sforzo». Invece cosa bisogna fare allo spettatore? «Togliergli via via la terra da sotto i piedi. Spiazzarlo. Provocarlo. Lo sento come un dovere. Io lo faccio in primo luogo con me stesso: è la condizione della ricerca espressiva di un attore» [Perelli, cit.] • Ha appena esordito alla regia con Io vivo altrove! I suoi personaggi si danno alla fuga in campagna. C’è qualcosa di autobiografico? C’è qualcosa che riguarda il luogo da dove provengo, sì, ma non è il racconto di una fuga. È una fiaba che parla di amicizia, del darsi una seconda occasione a prescindere dall’età. Poi i protagonisti trovano tutto ciò in campagna, è vero». E non vengono accolti benissimo. «È tutto un dar loro dei “mona”. Ciò non li scalfisce. Sono i don Chisciotte della positività». Lei è ottimista? «Ci proviamo» [Gandolfi, cit.].
Titoli di coda «Sarà probabilmente anche per l’affinità di stazza fisica che Battiston ha scelto di accostarsi alla figura di Orson Welles. Certo è che l’attore friulano palesemente ne richiama certi tratti esteriori. E la sua sorprendente adesione al personaggio, che quasi trascende la mera immedesimazione, passa in gran parte da un linguaggio del corpo: non tanto il peso, né la rotondità delle forme, ma una sorta di morbida pinguedine interiore, suggerita, ancor più che dalla pancia, dal sigaro che fuma, dall’accappatoio che indossa, dall’indolente accento americano che sfoggia» [Alibi, cit.].