31 luglio 2025
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Biografia di Fulvio Scaparro
Fulvio Scaparro, nato a Tripoli (all’epoca Libia italiana) il 1º agosto 1937 (88 anni). Psicologo dell’età evolutiva. Psicoterapeuta. Accademico. Cofondatore (nel 1987) e presidente onorario dell’Associazione GeA-Genitori ancóra. «Fare una famiglia è realizzare un sogno e combattere perché si realizzi ogni giorno, nonostante le difficoltà: la crisi e la separazione generano rabbia e frustrazione perché si vede tradito il sogno iniziale. Il punto sta nel ripartire da un nuovo sogno. Quale? La collaborazione tra i due genitori» (a Francesca Amé) • Fratello minore del celebre regista e critico teatrale Maurizio Scaparro (1932-2023), il quale raccontò: «La prima infanzia a Tripoli, con mio padre che stava là con Balbo. Si salvò per miracolo quando l’aereo di Balbo fu abbattuto: era a bordo di un velivolo vicino. Una famiglia vivace la mia. Mio fratello è Fulvio Scaparro, uno dei più bravi psicologi italiani. Siamo molto legati, e la sua esperienza mi è stata utile. Per fare i registi bisogna essere un po’ psicologi… E poi mio fratello mi ha fatto amare il teatro fin da bambino, sia pure indirettamente. Il suo maestro elementare era Mario Scaccia, che fu il mio primo regista all’oratorio quando interpretai Gesù Bambino. Chi l’avrebbe detto, che tanti anni dopo sarei stato io il suo regista in Chicchignola di Petrolini?». Marchigiano il ramo materno. «La madre di Maurizio e Fulvio era Ada Censi (Tolentino, 1907-Roma, 1966), figlia di Agapito Censi (Esanatoglia, 1877-Matelica, ?) e Augusta Carfagna. Agapito a sua volta era il primogenito di quel Giuseppe Censi (Esanatoglia, 1846-Esanatoglia, 1929) figura di spicco della imprenditoria locale che fu protagonista nei primissimi anni del ’900 del fallimento della omonima conceria, sconquasso che ebbe ripercussioni serie per buona parte dell’economia paesana. […] Miglior fortuna ebbero altri suoi fratelli, tra cui Federico (Esanatoglia, 1854-Esanatoglia, 1931). […] Fu proprio nella capiente casa di Federico, rimasta dopo la sua morte avvenuta nel 1931 ai figli Corrado e Margherita, che nel 1943, oltre agli stessi proprietari, trovarono rifugio, arrivando da Roma con le loro famiglie, due delle quattro figlie di Agapito, nipoti di Giuseppe, Agnese e Ada (le altre due erano Adriana e Albertina). […] Ada aveva […] sposato nel 1931 Mario Scaparro (1895-1971), che dopo i giovanili furori futuristi che l’avevano visto attivo membro del movimento romano a stretto contatto con Filippo Tommaso Marinetti, con progetti di “poemi cinematografici” rimasti però allo stadio di pagine scritte, aveva messo la testa a partito e […] era entrato a pieno titolo nel regime mussoliniano come funzionario di primo piano del ministero dell’Africa Italiana, occupandosi di lavoro e di corporazioni anche con alcune pubblicazioni specialistiche sull’argomento (L’artigianato tripolino, 1932; Arti indigene delle colonie italiane, 1934; Il libretto di lavoro in Libia, 1938). Dalla sua unione con Ada Censi a Roma nel 1932 nacque Maurizio. Nel 1937, a Tripoli, durante un periodo di soggiorno nella Libia italiana, nacque il secondogenito Fulvio. Quando nel 1943 tantissimi civili cominciarono a sfollare dalle città rifugiandosi in zone ritenute più sicure perché lontane da obiettivi militari, giunsero quindi a Esanatoglia Maurizio e Fulvio, che all’epoca avevano rispettivamente 11 e 6 anni» (Pino Bartocci). «Dall’età di cinque anni sono stato un bambino prima in fuga e poi sfollato. Sto parlando degli anni dal 1942 al 1945, quando […] [a occuparsi di lui – ndr] avevo […] mia madre, una zia, un fratello maggiore di cinque anni e un cuginetto di tre. Non c’erano più uomini adulti in questo gruppo familiare, perché, per non coinvolgerci, vivevano lontani, impegnati a sopravvivere alle conseguenze della caduta del fascismo, che aveva azzerato la loro posizione sociale precedente alla guerra. […] Io e mio fratello fuggimmo da Tripoli in aereo prima che vi arrivassero gli inglesi vincitori della battaglia di El Alamein. Arrivammo a Roma, dove ci sistemammo in qualche modo fino all’inizio dei bombardamenti alleati sulla capitale. Giù ammucchiati nelle cantine, gli adulti con le orecchie tese per capire dove sarebbero cadute le bombe, io rannicchiato accanto a mia madre e mio fratello giocherellando con la torcia dinamo, che facevo fatica ad azionare con una sola mano. Fummo presto costretti a sfollare insieme a mia zia e al cuginetto verso le Marche, dove un tempo la famiglia delle due sorelle, marchigiane di nascita, aveva proprietà terriere e ancora qualche appoggio di parenti alla lontana e di anziani contadini che avevano lavorato per la loro famiglia in tempi lontani. […] La guerra infuriava nelle Marche, anche se con modalità diverse da quelle che avevamo vissuto in Libia e a Roma. Dopo qualche mese di relativa tranquillità, che ricordo con nostalgia per i giorni trascorsi sempre all’aria aperta giocando con gli amici o vivendo la vita dei campi sotto la guida di qualche contadino, la guerra si presentò nella sua veste più dura. Arrivarono i tedeschi in ritirata, ci furono rastrellamenti alla caccia di partigiani, due dei quali furono trovati, fucilati sul posto e i loro corpi appesi nella pubblica piazza. Durante il coprifuoco pattuglie giravano per il paese sparando contro qualunque finestra illuminata e uccidendo in questo modo anche un uomo al quale ero affezionato – lo chiamavo “zio” – perché mi portava in campagna sulla sua Guzzi, esperienza indimenticabile». «Subimmo anche una perquisizione in casa che mise a dura prova l’autocontrollo di zia e mamma. Un soldato tedesco, armato di tutto punto, bussò con violenza alla porta. Voleva sapere se avessimo armi in casa e dove fossero gli uomini. Qui mia madre e mia zia diedero il meglio di sé. Cercarono di apparire tranquille e perfino ospitali, offrirono un caffè e un po’ di pane, riuscirono non so in che modo a spiegare al soldato che gli uomini erano rimasti a Roma e che loro non solo non avevano armi ma che non avrebbero nemmeno saputo cosa farne. Aprirono le stanze al soldato, che si guardò intorno e parve soddisfatto di ciò che vedeva. Se ne andò salutato con cordialità da mamma e zia, che, appena chiusa la porta, si abbracciarono sopraffatte dall’emozione per il pericolo scampato. Per fortuna il soldato non aveva chiesto di vedere la soffitta. Lì avrebbe trovato tre fucili da caccia e molte cartucce, lasciate lì dal simpatico “zio” che mi aveva iniziato alla motocicletta. […] Poi arrivarono gli americani e, poco dopo la notizia della liberazione di Roma, venne a prenderci il marito di mia zia, che si era procurato un piccolo furgone a tre ruote, dove riuscì non so come a stiparci tutti. Il viaggio fu lungo e faticoso attraverso strade disastrate e ancora non molto sicure. In una salita dovemmo scendere tutti e trovare nelle vicinanze un contadino che per pochi soldi attaccò il veicolo a un paio di buoi portandoci fino in cima. Lungo il percorso vedemmo in almeno due occasioni due cadaveri sul ciglio della strada, che le madri si affrettarono a definire “persone addormentate” per non spaventarci. Anche questo viaggio, benché estenuante, noi bambini l’abbiamo vissuto come un’avventura. La realtà della perquisizione, dei drammi vissuti dal paese e del lunghissimo viaggio di ritorno, l’abbiamo conosciuta anni dopo. A noi bambini era rimasta la memoria di un periodo nell’insieme piacevole anche se turbato da qualche raro cedimento emotivo delle madri, quando non ce la facevano più, a fingere sicurezza e ottimismo per il futuro. Solo molto più tardi avremmo apprezzato la potenza dello scudo materno». «Risalendo nel tempo fino al secondo dopoguerra ho un’immagine vivida e festosa dei fumetti di Jacovitti. […] Leggevo tanto, libri e fumetti, […] ugualmente attratto da Jacovitti e da Lazarillo de Tormes, da Stevenson o Conrad e da Jerome Klapka Jerome o Mark Twain, da Tartarino di Tarascona e dal Signor Bonaventura e, più avanti, dal Buon soldato Švejk di Hašek e, come spettatore, da Monsieur Hulot». «Ero un giovane uomo appena avviato agli studi universitari quando, in un paesino abruzzese della Valle Roveto, incontrai uno di quei bambini che oggi considero ispiratori e destinatari del mio lavoro. Era sera e stavo passeggiando in un giardino pubblico. Mi passa vicino un uomo sulla trentina dal volto indurito. Più in là una donna infuriata si sta allontanando in direzione opposta. Penso a una lite fra innamorati, finché non noto che tra loro, sul bordo di un’aiuola, è rimasto un bimbetto. È ancora malfermo sulle gambe e non sa cosa fare. Forse spera che quella scena sia uno scherzo, che all’improvviso papà e mamma si voltino verso di lui e scoppino a ridere. Ma le cose non vanno così. Il piccolo muove qualche passo dietro al padre, chiamandolo con voce bassa. Nessuna risposta. Arriva di corsa un’anziana signora, forse la nonna, lo prende in braccio e lo porta via in una terza direzione. Lamentandosi in dialetto dice: “Cosa ho fatto di male per avere questa disgrazia?”. Mi è venuto spontaneo chiedermi cosa avesse fatto di male il piccolo per meritarsi un simile trattamento. Non ho dimenticato il volto di quel bambino e di tanti altri ancora. Più avanti negli anni decisi di dedicare buona parte della mia vita professionale al lavoro con i genitori affinché non smettano mai di essere tali, anche se tra loro non esistono più motivi per continuare la convivenza. Non hanno bisogno di commiserazione o di prediche moralistiche, ma di realistiche vie d’uscita che li aiutino a vivere meglio e a non perdersi di vista anche dopo una sofferta separazione, perché di guerre, di altre guerre, i nostri figli non hanno proprio alcun bisogno». È alla luce di esperienze come questa, oltre che di quelle maturate in qualità di psicologo e di psicoterapeuta nonché di docente universitario, che nel 1987, insieme alla collega Irene Bernardini (1953-2016), costituì l’«Associazione GeA-Genitori ancóra», «da lui fondata quando a parlare di mediazione familiare, di gestione dei conflitti, di alternativa alle carte bollate degli avvocati divorzisti erano in pochi, pochissimi. “Oggi ci sono centinaia di associazioni, pubbliche e private, che si occupano del tema. Noi siamo rimasti fedeli allo spirito originario della semplicità: la mediazione è un dialogo e confronto tra i due genitori e un mediatore”» (Amé). «“Nel 1987, fondando l’Associazione GeA-Genitori ancóra, abbiamo incominciato a lavorare su un progetto carico di utopia: affrontare i conflitti, in particolare i conflitti familiari, non solo come eventi distruttivi ma anche come occasioni di crescita e di trasformazione delle relazioni. Aiutare i genitori in separazione a ritrovare fiducia, speranza, capacità di comprensione e riconoscimento reciproco. Diffondere una cultura della mediazione da cui possano derivare risultati di grande utilità non solo per i singoli ma per l’intera collettività in termini di pacificazione delle relazioni sociali e di fiducia nelle risorse personali e comunitarie. Negli anni abbiamo trovato molti compagni di strada dotati di coraggio, di ottimismo, di profonda consapevolezza del fatto che, nella scuola come nella famiglia, nell’azienda come nelle istituzioni, si avverte sempre di più la necessità di mediatori che aiutino le parti a negoziare, a guardare più lontano di un’eventuale vittoria immediata, a cercare soluzioni alternative allo scontro frontale. Soprattutto, è stato fatto un lungo e proficuo cammino di pratica e di riflessione non solo su come, quando, in quali ambiti mediare, ma anche e soprattutto sul perché vale la pena di mediare”. L’Associazione GeA-Genitori ancóra Ets nel 1989 ha creato la 1a scuola italiana di formazione alla mediazione familiare per operatori pubblici e privati, e in oltre 35 anni di attività ha formato centinaia di mediatori familiari che hanno messo a disposizione dei genitori competenza specifica, ascolto e sostegno per affrontare la complessità della situazione in cui si trovano» (Laura Salonia). «Il cruccio del noto psicoterapeuta è la salvaguardia del benessere dei bambini: “Non conosco angoscia più grande per un bambino di quella che ha origine dalle battaglie accanite quotidiane tra genitori, e non mi riferisco di certo ai conflitti di normale amministrazione che ci sono in ogni famiglia, ma agli effetti devastanti di guerre combattute senza esclusione di colpi”, dice con l’aria di chi, in tanti anni di professione, non si stupisce più di nulla. […] “Le ferite possono rimarginarsi”, dice Scaparro, “se padre e madre restano, anche dopo una dolorosa separazione, genitori insieme”. La fine di una famiglia è un fatto che colpisce profondamente chiunque ne sia coinvolto, ma il modo in cui si gestisce il fallimento fa la differenza per il futuro dei bambini: “Affrontare il dolore, comprenderne le cause è il primo passo per superarlo, per credere in futuri legami costruttivi. Sarà più facile la vita di quei figli i cui genitori saranno stati i primi ad aver elaborato la separazione: saranno educati alla resilienza”» (Amé) • A lungo collaboratore del Corriere della Sera. Autore di vari saggi, tra cui Talis pater. Padri, figli e altro ancora (Rizzoli, 1998), La bella stagione. Dieci lezioni sull’infanzia e sull’adolescenza (Vita e Pensiero, 2003) e Il senno di prima. Reimparare la vita dai bambini, una risorsa impensabile (Salani, 2022) • Sposato, un figlio. «Quando, molti anni fa, sono diventato padre, il mio bambino ha dovuto ascoltarmi per mesi di seguito mentre mugolavo, accompagnandomi con la chitarra, Summertime, convinto com’ero che il testo trasmettesse al pupo valori importanti quanto If di Kipling. Per dimostrare il suo avvenuto accesso al simbolico, dopo la trentesima esecuzione del capolavoro di Gershwin era sufficiente che io entrassi in camera con la chitarra perché mio figlio piombasse in un sonno profondo, o fingesse di farlo. Nei casi di ostinata renitenza al sonno, funzionava bene anche la lettura dei testi delle mie conferenze, una pratica che però ho interrotto presto perché mi sembrava più punitiva che tranquillizzante» • Sin da ragazzo, «non potevo che affidarmi fiducioso alla sinistra italiana, una palestra di masochismo senza eguali. La capacità che hanno sempre avuto i suoi dirigenti di mettersi i bastoni tra le ruote è talmente straordinaria che ho avanzato questa ipotesi: sarà pur vero che parte dei finanziamenti ai partiti di sinistra sono arrivati per molti anni da Mosca, ma dopo la caduta del Muro di Berlino le elargizioni devono essere pervenute dalle casse dei partiti di destra e dalla Cia in segno di gratitudine per la nostra comprovata capacità di autodistruzione. […] La sinistra italiana che aveva iniziato il XX secolo piena di coraggio e speranza ha affrontato il nuovo millennio nel segno dello stupore, o meglio in stato stuporoso. Trova tutto sorprendente, assiste a bocca aperta alla comparsa in forza dei nuovi potenti. Come la gentil farfalletta “tra l’erbetta a volo sorpresa”, sembra chiedere ai nuovi “pacchi” inviati dalla Provvidenza: “Vivendo, votando, che male ti fo?”. C’è di che andare in giro con naso e baffi finti per non farci riconoscere da figlie e figli, se è vero che tutto questo un giorno sarà loro. […] Potrei ribellarmi e diventare un ex elettore ma […] non ci riesco. Da quando ho raggiunto la maggiore età, la mia parte politica ha perso tante elezioni ma io non me ne sono persa una. Un vero serial loser, un perdente seriale. Eppure credo che, da buon masochista, insisterò almeno fino a quando mi sarà consentito» • Ha confessato di essere «uno che, dopo le prime e ultime tre sigarette trasgressive al termine del liceo, cinque anni dopo ha cominciato a fumare solo e soltanto sigari toscani e ha continuato a farlo fino ad oggi che ha superato da tempo gli ottant’anni. […] Le ho provate tutte per smettere. Sono riuscito a tenere sotto controllo o a eliminare del tutto molti altri vizi poco commendevoli, ma per quello del fumo ho fallito del tutto» • «Non amo le ipocrisie del linguaggio. Ad esempio, preferisco dire “vecchio” piuttosto che “anziano”. “Vecchio” è un termine più sincero, con più anima. Come non mi piace sentir dire “i giovani d’oggi”. […] È da quando sono nato che sento dire “i giovani d’oggi”».