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 2025  settembre 25 Giovedì calendario

Biografia di Giacomo Manzoni

Giacomo Manzoni, nato a Milano il 26 settembre 1932 (93 anni). Compositore. Docente. Critico musicale. Tra i vari riconoscimenti ricevuti, il Leone d’oro alla carriera (Biennale Musica 2007). «Uno dei padri dell’avanguardia italiana» (Luigi Di Fronzo). «Maestro, cosa è rimasto oggi dell’utopia della nuova musica? “La voglia di una ricerca nelle infinite possibilità dell’universo sonoro, senza percorrere strade già battute”» (Di Fronzo) • Nipote del celebre scrittore e umorista Carlo «Carletto» Manzoni (1909-1975). «“Mio zio faceva parte di un contesto lontanissimo dal mio, era vicino a Guareschi. Mi piaceva molto un suo personaggio, il signor Veneranda. Nella parte iniziale della mia vita ci siamo visti spesso, abitavamo in Sicilia e vivevamo vicini. La mia infanzia e la mia adolescenza sono state caratterizzate da diversi spostamenti della famiglia. Infatti sono stato in Sicilia perché a mio padre, che prima lavorava a Milano come amministrativo, nel 1930 fu proposto di andare a lavorare presso la Sanderson a Messina, una ditta di agrumi. Mio padre era irrequieto: era stato prima a Venezia, dove avevo iniziato a frequentare la scuola, poi andò a Roma e noi lo seguimmo. Ma la guerra incombeva, e quindi ci trasferimmo sul lago Maggiore. Mio zio in qualche modo ci seguiva, e così prese casa anche lui vicino a noi. Ci vedevamo spesso, era una persona incredibile ma per motivi politici ci allontanammo, soprattutto quando io scrivevo per l’Unità”. […] Come si è avvicinato allo studio della musica? “Casualmente. Non ricordo se fu mio padre o degli amici di famiglia a regalarmi una fisarmonica: quello strumento mi incuriosiva molto, e così iniziai a suonarlo. Nella mia famiglia non c’erano interessi musicali, tranne che per mio padre, che, da buon italiano fascista, ascoltava Wagner”» (Marco Ranaldi). «“Avevo cominciato a studiare musica con dei maestrini, quei maestri di quartiere, per così dire, quasi dilettanti. Io ero comunque curioso, avevo incominciato per caso a mettere le mani sulla fisarmonica, avevo studiato abbastanza bene la teoria e il solfeggio e poi ero passato oltre, ma sempre un po’ a tentoni, perché questi insegnanti non sapevano bene dove portarmi, non avevano delle idee didattiche precise, e perciò, la composizione, non sapevo neanche bene cosa fosse. Poi, con la mia famiglia, ci trasferimmo da Milano a Messina, e qui mi andai a iscrivere al liceo musicale privato. Lì, per combinazione, c’era un musicista, un compositore che si era formato alla scuola di Roma, con Respighi, e faceva parte del gruppo di Petrassi, D’Amico, Peragallo, tutta quella cerchia intorno a Casella che aveva un’esigenza di rinnovamento della musica”. Come si chiamava? “Gino Contilli. Insegnava storia della musica e armonia complementare e, a chi avesse voluto, composizione. Io mi iscrissi subito al suo corso di composizione. Questo maestro fu fondamentale perché mi aprì la mente su cose che io assolutamente ignoravo: mi fece capire non solo la musica, ma anche la cultura, la modernità, le innovazioni culturali che c’erano state. Sapeva un sacco di cose, era un intellettuale di alto livello e per noi tre o quattro che seguivamo questo corso era una miniera. Io, in questi due anni che studiai con lui, capii quello che era necessario capire. Poi tornai a Milano con la mia famiglia, avevo ormai diciott’anni, mi iscrissi al Conservatorio di Milano, continuai a studiare, ma non è che abbia avuto degli stimoli analoghi a quelli che mi aveva dato Contilli. Andai avanti da solo su questo indirizzo, seguendo le indicazioni che mi aveva dato lui, studiando e leggendo le nuove tendenze insieme ad alcuni colleghi che come me condividevano questa esigenza come Castiglioni e Gaslini. Tra noi giovani c’era questo scambio, questo interesse, e quindi ci siamo formati anche al di fuori del conservatorio”» (Luca Iavarone). «“Io e Claudio Abbado eravamo compagni al Conservatorio: lui ovviamente studiava direzione d’orchestra. Anni dopo ci siamo rivisti per lavorare insieme. Ho insistito affinché la direzione di Atomtod venisse affidata a lui, un emergente di talento sensibile alla contemporanea”. […] Il racconto degli anni della formazione gli strappa più di un sorriso, perché, come lui stesso ammette, ne ha “combinate parecchie”: da quando appena ventenne raccoglieva in Conservatorio “le firme a favore dei coniugi Rosenberg (negli anni della Guerra fredda condannati alla pena capitale come spie dell’Urss, ndr), che mi valsero una sospensione”, alle dure battaglie per affermare e difendere “il nuovo che avanzava in musica”» (Luca Pavanel). «Manzoni ha vissuto la grande spinta “rivoluzionaria” dello Studio di Fonologia della Rai di Milano, centro intorno al quale gravitavano figure del calibro di Maderna, Luciano Berio e Nono. Tutti alla scoperta di un nuovo modo di fare musica, che utilizzava l’elettronica. La rivoluzione musicale era già avvenuta con Arnold Schönberg e la seconda scuola di Vienna: il liberarsi dagli schemi accademici della tradizione attraverso la dodecafonia avrebbe consentito ai compositori, da quel momento in poi, di spaziare più liberamente nell’universo sonoro, di esplorare nuovi linguaggi, di utilizzare voci e strumenti in modo non convenzionale» (Daniela Uccello). «Noi facevamo di tutto per entrarci, essenzialmente di nascosto. Io divenni molto amico di Berio e Maderna. Fu fondamentale poter mettere il naso lì, capire cosa facevano, come ottenevano certe cose, come si potevano combinare i suoni attraverso le nuove tecnologie. […] Nel tempo, tra noi, si sono costruite amicizie solide». «Fui uno dei primi a entrare nello Studio. […] Per noi giovani era sempre una festa: entravamo nel palazzone Rai di corso Sempione (senza bisogno di distintivi di riconoscimento) e andavamo dritti al quinto piano. Era un luogo di creatività unico. Io l’ho frequentato fino agli anni ’70 per scrivere pezzi contemporanei, ma la Rai l’aveva ideato per tutto il corredo di musiche da film e commedia, che toccavano a Berio e Maderna». «Le sue scelte a un certo punto lo portano anche a Darmstadt, in Germania, dove entra in contatto coi “rivoluzionari della musica” di quel periodo, correva l’anno 1956. “Ho conosciuto Pierre Boulez e Karlheinz Stockhausen: ai loro corsi partecipavo come uditore. Non siamo diventati amici, ma negli anni li ho rivisti”» (Pavanel). «Manzoni è stato critico musicale per l’Unità, saggista (il suo libro Guida all’ascolto della musica sinfonica è diventato ormai un classico), traduttore e infine interprete. Sebbene parli poco e quasi malvolentieri di questa sua ultima attività, vale la pena ricordare la sua presenza come pianista nell’orchestra che montò il Piccolo Teatro nel 1956, sotto la direzione di Bruno Maderna, per eseguire in prima italiana L’opera da tre soldi di Brecht/Weill, con la regia di Giorgio Strehler. C’è poi il Manzoni umanista, laureatosi all’Università Bocconi di Milano in Lingua tedesca con una tesi su Thomas Mann, personaggio che ebbe anche modo di conoscere personalmente in Svizzera. Non si deve tuttavia pensare a una personalità frammentata, a un procedere erratico attraverso discipline diverse. Al contrario: Manzoni è e sarà sempre un intellettuale organico nel senso gramsciano della parola, per il quale – per esempio – i fortissimi interessi extra-musicali, soprattutto letterari, hanno sempre fornito un sostrato formidabile alle sue composizioni. Allo stesso modo, la sua attività di critico “militante”, attento cioè ai nuovi fermenti artistici del nostro Paese, lo portò a riflettere sull’organizzazione musicale, contribuendo con le sue idee al tentativo di svecchiare l’anchilosata cultura italiana del secondo dopoguerra» (Federica Lonati). «Nel 2004 […] Manzoni, rispondendo a una domanda sul “comune denominatore” riconoscibile nella sua attività di compositore, in una intervista disse: “Mi piacerebbe che fosse riconosciuto un senso di unità nella varietà: corro volentieri il rischio dell’invenzione”. Chi conosce qualche aspetto del suo catalogo […] si rende facilmente conto della verità di questa dichiarazione. C’è in Manzoni una grande coerenza, affiancata da viva curiosità e da una costante ricerca, da una inquietudine che lo porta a interrogare la materia sonora in modi sempre nuovi. Possiamo citare velocemente, ad esempio, l’ispirazione matematica di Insiemi (1966/67), i grandi pezzi corali Ombre (alla memoria di Che Guevara), privo di testo (1968), Parole da Beckett (1970/71) e Hölderlin (1972), che sono anche una premessa alle “scene musicali” Per Massimiliano Robespierre (Bologna, 1975), esperienza teatrale non convenzionale, basata su testi di e su Robespierre, impersonato da un quartetto vocale. Segue una svolta con l’indagine sui suoni multipli dei fiati, tra l’altro in Modulor (1979) e prima in Masse (1977), con la parte pianistica scritta per Maurizio Pollini, che ha interpretato il pezzo più volte. Nuovi flessibili procedimenti formali caratterizzano Ode (1982), e sono tra le premesse della lungamente meditata opera Doktor Faustus, dal romanzo di Thomas Mann (Milano, 1989), un capolavoro basato solo su parole di Mann (tradotte) in discorso diretto. Almeno fino al 2001 segue una produzione soprattutto vocale particolarmente ricca e varia nelle scelte dei testi. E poi altri lavori vocali e strumentali importanti, in una ricerca dagli esiti non riassumibili in modo schematico. […] L’impegno, profondamente sentito, non ha mai escluso in Manzoni tematiche esistenziali, non meno profonde» (Paolo Petazzi). «Manzoni prende le mosse, negli anni ’50, dallo strutturalismo, ovvero quello che in musica è stato il rigoroso serialismo post-schönberghiano, per poi distaccarsene gradualmente, esplorando anche possibilità più liberamente espressive e, nell’ultimo periodo, maggiormente liriche» (Iavarone). «Le parole per Manzoni sono come suoni e, a loro modo, musica. Materiali tematici di cui il compositore s’impossessa, portando così alla luce il loro potenziale semantico» (Uccello). «Grazie alle sue fondamentali traduzioni, ha inoltre introdotto in Italia il pensiero di Schönberg e Adorno, parallelamente a numerose pubblicazioni di carattere musicologico, testi imprescindibili al servizio dell’arricchimento formativo e della divulgazione musicale» (Alberto Massarotto). «Lei ha insegnato in diversi conservatori, in particolare a Bologna e a Milano. Come lavorava con i suoi allievi? “Ho insegnato una trentina d’anni. Lavoravamo molto sull’analisi: partivo dalla base dell’analisi e ci concentravamo anche, e molto, sulla musica antica, perché la conoscenza delle forme, dell’armonia di quel tempo è importante. Poi, attraverso l’analisi delle composizioni contemporanee di autori come Schönberg o Stockhausen, cercavamo una strada da percorrere. Cercando di capire come faceva Berg, come risolveva Bartók: attraverso queste analisi pian piano cercavamo di buttare fuori quello che loro sentivano. Questa era la concezione, e ha funzionato”» (Ranaldi). Tra i suoi allievi di maggior successo, Adriano Guarnieri, Fabio Vacchi e Giovanni Verrando. Nel 2022, nell’ambito delle celebrazioni per il suo novantesimo compleanno, cui è dedicato anche il documentario biografico di Francesco Leprino Manzoni90, «il Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto ha pensato di portare in scena l’una accanto all’altra due brevi opere del compositore milanese, precisamente la prima e la più recente. Sono La legge del 1955, quando Manzoni aveva ventitré anni e studiava al conservatorio, e Gli occhi di Ipazia, scritta ora che il compositore milanese ha superato i novant’anni ma sembra proprio non aver pagato alcun pegno al tempo trascorso. […] La legge, su testo del compositore stesso, ha per argomento la violenta repressione del movimento dei braccianti agricoli dell’Italia meridionale, che chiedevano la distribuzione delle terre dei grandi latifondi. […] Nell’Italia del 1955 un’opera del genere era inimmaginabile – o piuttosto poteva immaginarla e realizzarla soltanto il giovane Manzoni –, e infatti la rappresentazione inizialmente prevista a Milano fu cancellata. La legge sarebbe stata eseguita – in forma di concerto – mezzo secolo dopo, alla Biennale di Venezia del 2007. […] La seconda opera era Gli occhi di Ipazia, su un testo di Sonia Arienta. […] Protagonista è una certa Vera, biologa odierna, i cui studi rischiano di danneggiare gli interessi economici di una casa farmaceutica, che aizza una folla di fanatici ad ucciderla. […] Nucleo delle due opere […] il contrasto tra il potere – in ogni sua forma – e chi ne è schiacciato e cerca di lottare per la libertà e la giustizia» (Mauro Mariani). «Le differenze fra i due lavori sono palpabili: “In sessant’anni il mio linguaggio è cambiato radicalmente”, precisa il compositore: “nella Legge non ero ancora entrato nella mentalità dodecafonica e ci sono gli influssi di Bartók e Berg, negli Occhi di Ipazia si respira il clima di libertà creativa che domina il panorama attuale dopo il tramonto delle avanguardie”» (Andrea Penna) • Pressoché ignota alla stampa la vita privata, fuorché per un figlio, Nicola Manzoni, docente di filosofia nonché primo marito di Daria Bignardi • Scarsa simpatia per Giacomo Puccini. «“Per carità, è stato un grande orchestratore, ma il suo gusto fonico, il suo teatro non mi interessa per nulla”. Cosa la interessa del teatro italiano del passato? “Naturalmente Verdi, grandissimo, e poi Malipiero, ma anche Il prigioniero di Dallapiccola”» (Roberto Iovino) • «Sono stato iscritto al Pci da subito, per 30 anni. Mi sembrava un partito più radicale rispetto anche alla subalternità americana: il comunismo italiano poteva essere un’idea che poteva portare oltre certe dimensioni. Berlinguer aveva aperto nuovi spazi. Ma l’America è stata forte, e la Fiat ha fatto i suoi giochi». «Che impressione le fa vedere qual è l’eredità odierna del Pci? “Pessima”» (Gregorio Moppi e Gaia Rau) • «Artista schierato, rigoroso e senza compromessi» (Angelo Foletto). «La dedizione assoluta a un’ideale di ricerca pura e incondizionata e l’impegno politico sono state le costanti del percorso, umano prima ancora che artistico, di Giacomo Manzoni. Intellettuale di primissimo piano dal dopoguerra ad oggi, Manzoni si è affermato come una delle voci più autorevoli e prolifiche nel dibattito italiano sulla nuova musica» (Iavarone) • «Quanto tempo dedica alla scrittura? “Non sono come Stravinskij, che sosteneva l’obbligo morale di scrivere tutti i giorni almeno una paginetta. Preferisco farlo quando ne sento la necessità”» (Di Fronzo) • «Prima l’attività di traduttore dei testi di Schönberg e di Adorno, poi le scelte dei testi nelle sue opere (Mann, Rilke, Hölderlin…): come nasce questa passione specifica per l’area culturale tedesca? “Ho cominciato a studiare il tedesco perché mi sembrava un po’ strano fare il musicista senza conoscere bene la lingua e il mondo tedesco. La lingua tedesca, poi, mi attirava anche per altri motivi; cominciandola a studiare mi addentrai nella cultura tedesca. Scoprii Adorno, e questa fu veramente una grande scoperta; poi gli scritti di Schönberg, che era stato per me un punto di partenza (infatti accettai con entusiasmo l’idea di tradurli). Per ciò che riguarda i testi, poi, forse li ho prediletti anche un po’ troppo: poiché ho sempre letto autori tedeschi, li conosco, mi attirano, e quindi li scelgo spesso”» (Angela Ida De Benedictis) • «La situazione della musica è alquanto disastrosa, ma non è una novità. Abbiamo respirato un’atmosfera di vitalità solo negli anni Settanta e Ottanta, quando pareva che potesse cambiare qualcosa. Ma siamo tornati la cenerentola delle arti, come eravamo prima» • «Ritengo che nonostante l’espulsione della musica di ricerca il compositore debba continuare a lavorare, non per la cosiddetta audience a tutti i costi, ma per sollecitare l’attenzione di quella parte del pubblico, sicuramente minoritaria, certo, che ritiene necessario un atteggiamento critico nei confronti della società di massa, generatrice di cattive masse. Il ruolo del musicista e dell’artista in generale è di far leva sul nucleo critico per esercitare l’intelligenza di chi ascolta alla comprensione di qualcosa che può sembrare difficile, ma che deve essere capito. Il compositore non si può sottrarre al compito di inventare, di proporre, di provocare, non può rinunciare ad affrontare determinati problemi e non deve cedere al ricatto del mercato. Altrimenti viene meno la funzione reale e profonda dell’artista in generale» • «Oggi il tempo che è passato è servito a stemperare a far capire meglio il significato della parola “impegno”, tanto abusata negli anni ’60, ’70 e ancora ’80. E qui sono costretto a guardare indietro alla mia storia. Che cosa vedo? Vedo una persona che è stata dentro al Partito comunista, fino a quando questo non ha mutato la sua natura, che ha scritto articoli e saggi su quotidiani e periodici di sinistra, dove ha strenuamente difeso la causa della musica di ricerca, che ha firmato appelli a favore di cause libertarie, comuniste e socialiste. Di tutto questo non si pente di sicuro, anche se sa che non è rimasto gran che. E vede anche un compositore che si è ispirato alle figure di Che Guevara, di Robespierre, alla condizione dell’uomo nell’èra della morte atomica, ma che nello stesso tempo ha messo in musica Samuel Beckett, Friedrich Hölderlin, i versi sereni e strazianti di Bruno Maderna morente e così via. Questo per dire che non ha senso applicare etichette a chicchessia, perché il sentire dell’uomo è troppo ricco, troppo vasto e troppo sfuggente perché ad esso si possano adattare. Infine perché proprio la musica per la sua natura proteiforme continuamente invita il compositore a immaginare orizzonti nuovi, a evitare legacci e vincoli di qualsiasi tipo. A meno che non si voglia parlare dell’impegno nella totalità e nel rigore del proprio inventare musica. Ma questo dovrebbe essere il comandamento primo di ogni compositore che prenda sul serio il suo lavoro».