20 ottobre 2025
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Biografia di Benjamin «Bibi» Netanyahu
Benjamin «Bibi» Netanyahu, (Binyamin Netanyahu), nato a Tel Aviv (Israele) il 21 ottobre 1949 (76 anni). Politico (Likud). Primo ministro di Israele (dal 29 dicembre 2022; già dal 1996 al 1999 e dal 2009 al 2021). Presidente del Likud (dal 20 dicembre 2005; già dal 1993 al 1999). Tra i suoi primati, quello di primo ministro d’Israele più giovane al momento dell’insediamento e più longevo in carica, nonché primo a essere nato nello Stato di Israele. «Nec tecum nec sine te vivere possum: Israele non riesce a vivere né con né senza Benjamin Netanyahu. Quando divenne premier nel 1996 in America c’era Clinton, in Germania Kohl, in Francia Chirac, in Russia Eltsin, in Egitto Mubarak. I suoi colleghi sono quasi tutti morti» (Aldo Cazzullo) • «La famiglia ha radici lituane, legata al Gaon di Vilna, il leader del mondo ebraico anti-chassidico del Settecento e uno dei più importanti rabbini di tutti i tempi. Il capostipite della famiglia che mise per primo piede in Israele nel 1920 fu Natan Milejkovskij» (Giulio Meotti). «Sembra strano che nonno paterno e nipote non portino lo stesso cognome, ma così non è per gli ebrei che sono emigrati in Israele e che sono autorizzati a cambiare il cognome che adottavano durante la diaspora. È così che i Milejkovskij diventano, nel 1922, i Netanyahu. […] Natan non era però solo il primo sionista della famiglia: era anche un sionista di minoranza, come poi le altre due generazioni dei Milejkovskij/Netanyahu. Si oppose infatti ai sionisti di maggioranza come Weizmann e poi Ben Gurion, soprattutto sul cosiddetto “piano Uganda”, che avrebbe creato lo Stato nazionale nel Paese africano invece che nelle terre bibliche. In questa opposizione, Natan si incontrò con Ze’ev Žabotinskij, futuro leader della destra sionista. […] Benzion, il padre di Binyamin, aveva all’epoca dell’emigrazione già dieci anni. Entrò nel Partito revisionista nel 1928 e presto divenne il direttore del suo quotidiano Jordan, che si opponeva alla leadership socialista e gradualista del sionismo rappresentata allora da Ben Gurion e da Weizmann. […] Nel 1938, fallita la carriera accademica nell’allora Mandato britannico, Benzion si trasferì a New York, dove divenne assistente personale del leader Žabotinskij. Vi sarebbe rimasto per dieci anni, dirigendo gli uffici americani del Partito revisionista e iniziando quell’attività di “pressione” nei confronti dell’opinione pubblica e degli attori politici americani in cui il figlio sarebbe diventato maestro. […] Benzion avrebbe poi ricevuto una cattedra alla Cornell University nel 1962 e in America avrebbe avuto i suoi riconoscimenti accademici, soprattutto nello studio dell’antisemitismo e dell’Inquisizione spagnola. Poco tempo dopo questo trasferimento, l’intera famiglia aveva ricevuto la cittadinanza americana, un passaporto al quale Binyamin rinunciò solo vent’anni dopo, per poter diventare un diplomatico israeliano proprio a Washington. Gli studi compiuti in America e il periodo precedente passato al fianco di Žabotinskij avrebbero profondamente influenzato il pensiero di Benzion, che, a sua volta, sarebbe stata la base sulla quale Binyamin avrebbe costruito la sua proposta politica» (Mattia Toaldo). «Nato a Tel Aviv nel 1949 e cresciuto negli Stati Uniti, […] al termine delle scuole superiori arriva per Bibi il momento di rientrare in Israele per il servizio militare, dove, dopo l’addestramento di base, viene selezionato per entrare in una unità di élite. È il Sayeret Matkal, un reparto specializzato in recupero ostaggi e operazioni di raccolta di intelligence dietro le linee nemiche. Netanyahu rimarrà nel Sayeret Matkal per cinque anni, partecipando a numerose operazioni, tra cui la liberazione degli ostaggi del volo SN 571, durante la quale viene ferito a una spalla. Nel 1972 completa il servizio militare e torna negli Usa per gli studi universitari. Quattro anni dopo, l’esercito israeliano completa con successo un’altra missione di recupero ostaggi, l’Operazione Entebbe, che però si lascia dietro una vittima: Yonatan Netanyahu, fratello maggiore di Benjamin, anche lui in servizio nel Sayeret Matkal. Saputo della morte di Yonatan, Benjamin interrompe gli studi e rientra in Israele dagli Usa, dove nel frattempo si era laureato in Architettura e Management al Mit di Boston e stava preparandosi a iniziare un dottorato in Scienze politiche. È il 1976 e Netanyahu è alla vigilia dell’inizio della sua carriera politica. Dopo un breve passaggio nel mondo della consulenza al Boston Consulting Group, Netanyahu fonda nel 1978 un centro di ricerca su temi di sicurezza e antiterrorismo, dedicandone il nome al fratello ucciso» (Fabio Parola). «La svolta fu […] quando Colette Avital, nuova console israeliana a Boston, ne capì le potenzialità “con quella combinazione di forze speciali, accento americano e aspetto pulito”. Fu un successo clamoroso: Bibi diventò l’invitato conteso da tutti i talk show d’America per spiegare i diritti d’Israele» (Ugo Tramballi). «Nel 1982 l’inviato israeliano negli Stati Uniti Moshe Arens propone a Netanyahu di fargli da vice ambasciatore; Bibi accetta. Due anni dopo, a 35 anni, Netanyahu viene nominato ambasciatore di Israele alle Nazioni unite. Nel 1988 Netanyahu viene eletto alla Knesset, il Parlamento israeliano. Netanyahu diventa ben presto una figura chiave all’interno di Likud, il partito di centro-destra fondato da Menachem Begin, e nel 1996 viene eletto primo ministro di Israele» (Parola). «Commentando la sconfitta alle elezioni del 1996, Shimon Peres disse che gli “israeliani” avevano perso e che gli “ebrei” erano usciti vincitori. C’era del disprezzo in quella frase, ma anche della verità. Netanyahu è stato il più abile a sedurre l’identità di un popolo sotto assedio. È l’“orientalizzazione” di Israele, che guarda sempre più a Est anche in termini di alleanze e abbraccia il sionismo religioso, forte fra gli ebrei sradicati della cultura araba» (Meotti). «Appena diventato premier nel 1996, Netanyahu licenziò dal ministero degli Esteri Colette Avital: era una ferma sostenitrice di Oslo. Contro la filosofia di quell’accordo, secondo la quale la pace è portatrice di sicurezza, Bibi avrebbe dedicato la sua vita. […] “Chi c… si crede di essere quello? Chi è qui la fottuta superpotenza?”, gridò esasperato Bill Clinton, appena Benjamin Netanyahu uscì dallo Studio Ovale. Era il luglio 1996, l’israeliano era appena diventato premier e il presidente si aspettava che confermasse l’adesione agli accordi di Oslo con i palestinesi, lasciati in eredità da Rabin e Peres. Bibi invece tenne una lezione interminabile sulla storia del popolo ebraico, l’Olocausto, la sicurezza d’Israele e la pericolosità degli arabi» (Tramballi). «Nessuno avrebbe scommesso su di lui dopo il suo primo disastroso premierato, quando nell’ottobre del 1997 la copertina dell’Economist lo bollò come “il pasticcione seriale di Israele” (“Israel’s serial bungler”). Dopo la sconfitta elettorale dal laburista Ehud Barak del 1999 e la lunga eclissi alla guida del Likud dietro ad Ariel Sharon prima e ad Ehud Olmert poi, durata fino al 2009. Dopo che una rivolta coalizzata di forze politiche lo aveva estromesso nel 2021, per le brevi successioni di Naftali Bennett e Yair Lapid. Soprattutto, dopo il tragico 7 ottobre del 2023, quando l’incursione di Hamas massacrò 1.195 persone, fra israeliani e stranieri, e prese 251 ostaggi. […] Quand’anche gli errori di intelligence e di sicurezza non siano direttamente imputabili al primo ministro – in Israele il dibattito è aperto –, l’attacco di Hamas rappresentò un fallimento della sua politica, che si fondava sull’assunto di avere il Movimento islamico di Resistenza sotto controllo dentro la prigione a cielo aperto della Striscia. Malgrado i soldi dal Qatar e le armi contrabbandate dall’Iran, incoraggiati gli uni, tollerate le altre, Hamas era ritenuto incapace di nuocere, se non per gli inefficienti razzi dai quali Israele era capace di difendersi con i rifugi e l’Iron Dome. Il 7 ottobre cambiò radicalmente l’equazione. Ma non smosse di un centimetro Benjamin Netanyahu» (Stefano Stefanini). «Qualche anno fa un gigantesco poster ricopriva nove dei dodici piani di un grattacielo lungo l’autostrada che da Tel Aviv porta al Nord, verso il confine con il Libano: Netanyahu con Putin, con Trump, con l’indiano Narendra Modi, abbracciati dalla scritta “leader di un altro livello”. Da lassù il primo ministro […] ha guardato lontano verso l’orizzonte globale degli accordi di Abramo, la normalizzazione con gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain, il Marocco, il Sudan. Quel che succedeva in basso – tra i palestinesi della Cisgiordania, a qualche chilometro da quel palazzone, e, più a sud, nella Striscia di Gaza – gli sembrava superabile allargando la rete di rapporti con il mondo arabo, costruendo il “Nuovo Medio Oriente”. […] Benjamin Netanyahu si è sempre considerato l’unico leader in grado di proteggere Israele. Eppure, quando l’ora più buia è rintoccata all’alba luminosa del 7 ottobre, Mr Sicurezza – racconta chi gli stava attorno – ha vacillato, quasi incapace di reagire. Almeno per le prime 48 ore, traumatizzato come il resto del Paese dall’eccidio. Così lo trova Joe Biden quando riesce a parlargli: durante la telefonata – ricostruisce The Atlantic – il primo ministro ripete al presidente americano che l’invasione di Hamas è il preludio a un assalto apocalittico contro lo Stato ebraico. Lo slogan che nel 2012 lo aveva accompagnato sulla copertina della rivista Time – “Chi è forte sopravvive” – diventa durante lo sfogo con Biden “Se ci mostriamo deboli, non sopravvivremo”. Un mantra che si rafforza in quei primi giorni di caos» (Davide Frattini). «Altri al suo posto avrebbero dato le dimissioni, come fece Golda Meir dopo la guerra del Kippur del 1973, per un simile fallimento di intelligence. Non Bibi. Il quale incassò l’iniziale crollo di popolarità e seppe ribaltare la situazione» (Stefanini). Determinato ad annientare Hamas e a recuperare tutti gli ostaggi, Netanyahu iniziò allora un lungo e sanguinoso conflitto, il cui teatro principale fu la Striscia di Gaza, dove si stima che a causa della guerra siano complessivamente morti quasi 70 mila civili (oltre un quarto dei quali bambini); a tale proposito, il 21 novembre 2024 la Corte penale internazionale dell’Aja ha emesso un mandato d’arresto internazionale nei confronti di Netanyahu e del suo ex ministro della Difesa Yoav Gallant accusandoli di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. «La risposta di Israele al massacro del 7 ottobre ha: distrutto Hamas a Gaza, pur a un costo altissimo di vittime palestinesi e di distruzione della Striscia; sconfitto Hezbollah in Libano; sferrato un pesante colpo alle difese aeree dell’Iran; con la complicità (involontaria? casuale?) dell’Hayat Tahrir Al Sham e di Mohammed Ghazi Jalali, liberato lo Stato ebraico della minaccia posta dal regime pro-Iran di Bashar Assad e delle milizie di Hezbollah in Siria. Pazienza le condanne internazionali. Da vinto Netanyahu si è fatto vincitore, e non c’è nulla più della vittoria che incuta rispetto in Medio Oriente» (Stefanini). Con la mediazione di Stati Uniti, Qatar, Turchia ed Egitto, il 9 ottobre 2025 è stato siglato tra Israele e Hamas un accordo per un piano di pace articolato in più fasi, i cui primi, fondamentali effetti sono stati il «cessate il fuoco» entrato in vigore l’indomani e la restituzione degli ultimi venti ostaggi israeliani ancora vivi, avvenuta il 13 ottobre. «Netanyahu è l’uomo politico più detestato del momento, almeno tra la brava gente di buona coscienza. Il primo ministro di Israele è bersagliato da accuse infamanti. […] L’accusa più lancinante è anche la più grottesca: per due anni Netanyahu avrebbe prolungato la guerra, caparbiamente e inutilmente, allo scopo di tenere insieme la sua maggioranza, compresi ministri determinanti della destra religiosa e fanatica, e sopravvivere come primo ministro, sottraendosi anche a un processo in cui gli si imputa uno scambio di favori a potenti della finanza e dell’editoria contro il loro sostegno e consenso. […] Uno messo così si direbbe spacciato mille volte, tanto più nel contesto di un feroce isolamento internazionale del suo governo e del suo Paese, con l’eccezione dell’amministrazione americana sotto Donald Trump. Invece, a guardare le cose sotto l’aspetto della verità politica e non del pregiudizio propagandistico travestito da moralismo, Netanyahu può essere considerato oggi come il vincitore della guerra e della pace, e come colui che ha trascinato gli Stati Uniti in una coalizione capace di mettere in moto […] una sequenza di fatti militari e politici che è l’ultima speranza per una pacificazione e stabilizzazione del Medio Oriente. Una stabilizzazione nel segno della sicurezza per Israele e per i suoi vicini, obbligati a passare dal nichilismo sterminazionista a un difficile e incerto percorso di razionalità e di accettazione della rivoluzione sionista anticoloniale del 1948, dopo infinite guerre e infiniti lutti e infiniti e fallimentari tentativi di pace nel segno del mito dei due Stati. La pace eterna di cui parla il nobélisable non nobelizzato Trump è una chimera. Ma un nuovo inizio, a partire dalla sconfitta dell’asse Teheran-Hamas-Hezbollah-Assad, è possibile» (Giuliano Ferrara) • Il 21 novembre 2019 «i magistrati hanno depositato l’incriminazione in 3 casi per corruzione, abuso d’ufficio, frode. […] Lui ripete che si tratta di un golpe giudiziario, di un complotto (con la collaborazione dei media) per deporlo e sottrarre il governo alla destra. In un Paese che ancora considera l’austerità un valore e la ricchezza non viene ostentata, i sostenitori sembrano avergli perdonato le scatole di sigari e le casse di champagne rosé recapitate alla residenza ufficiale in via Balfour a Gerusalemme. Da ricchi ammiratori, sostiene la difesa. Da uomini d’affari in cerca di favori, vuole dimostrare l’accusa» (Frattini). Iniziato il 24 maggio 2020, il processo è ancora in corso • Tra i suoi soprannomi, «il Re» e «il Mago» • Tre matrimoni e varie relazioni extraconiugali. Una figlia dalla prima moglie, due figli dalla terza e attuale consorte • «Nel suo ufficio Bibi tiene un ritratto di Winston Churchill, pensando di poterne trarre ispirazione, e anche po’ di nobiltà» (Bernardo Valli) • «Netanyahu è un uomo per il quale nessuna considerazione morale sopravanza l’interesse politico e il cui principale interesse politico è la sua stessa persona. È un cinico avvolto in una ideologia e contenuto in un intrigo» (Bret Stephens). «È innegabile come una semplice scorsa al curriculum di Bibi Netanyahu dimostri che l’israeliano, mistificatore politico e antesignano del sovranismo europeo, sia anche una personalità straordinaria» (Tramballi). «Come figura di politico, Netanyahu è a metà tra due mondi: un po’ “politico di progetto”, figlio di uno dei padri della destra sionista e, a suo modo, anch’egli un intellettuale con una chiara visione dell’esistente; un po’ “politico di business”, che nel mondo degli affari americano e israeliano ha studiato, lavorato e tratto importanti finanziamenti. Da quell’ambiente Bibi ha anche imparato alcune tecniche e un modo di interpretare l’americanizzazione e la personalizzazione della politica che ne hanno fatto l’uomo giusto per la società israeliana degli ultimi decenni» (Toaldo). «In economia Benjamin Netanyahu ha inanellato un successo dietro l’altro, privatizzando una economia corporativa, arricchendo gli israeliani, […] allacciando rapporti con i giganti asiatici […] e l’Africa, scansando la crisi economica che ha colpito gli altri Paesi occidentali. […] Il grande lascito dell’immobilismo di Netanyahu: essere riuscito a impiantare nella testa degli israeliani l’idea che il conflitto non se ne andrà mai via, che devono imparare a gestirlo e mai a risolverlo con formule illusorie, che devono essere forti e che alla fine prevarranno con il “muro di ferro”» (Meotti). «Sospetto, come la Corte penale dell’Aia, che Benjamin Netanyahu a Gaza abbia commesso crimini di guerra. […] Servirà a qualcosa la nuova incriminazione in Medio Oriente? Le guerre si concludono, dopo orribile sperpero di morte, per volontà politica, perché la politica è la più alta delle attività umane: è flessibile, malleabile, trova l’incastro impossibile. La giustizia invece è per suo stesso nome assoluta: non vuole più nessuna sfumatura. Mi pare questo il caso perfetto in cui la giustizia si mette più in alto della politica, e fa solo danno» (Mattia Feltri) • «Probabile che gli elettori israeliani decidano di cambiare cavallo al prossimo voto. […] Ma sarà difficile nei libri di storia seri, se non nei materiali di propaganda politica antioccidentale, antisionista e antisemita, evitare il giudizio equanime sull’operato di Netanyahu. Strappare il nucleare all’Iran dei mullah, ridare al Libano e al fronte israeliano del Nord una speranza colpendo drasticamente Hezbollah, cambiare le carte in Siria, debellare il dominio di Hamas su Gaza, impedire che la Cisgiordania divenisse un’altra Gaza e imporre la riforma dell’Autorità nazionale palestinese, quel che resta dell’Olp: tutto questo, l’ha realizzato un esercito di liberi e forti, professionale e nazionale-popolare, che ha pagato il tributo di mille caduti, sotto la guida di Netanyahu, procedendo a decisioni drammatiche, apparentemente impossibili, che solo un leader testardo e pieno di persuasiva passione per il suo lavoro e per il destino politico del suo Paese poteva prendere contro tutto e contro tutti. Altro che criminale e genocida, altro che affamatore del popolo, nei libri di storia sarà questa la leadership che ha determinato un punto di svolta atteso da molti decenni» (Ferrara) • «Se si permette al terrorismo di conseguire successi da qualche parte, si diffonderà ovunque. Occorre che voi occidentali capiate bene che questa è una guerra di civiltà. Israele è in prima linea. La sua vittoria contro il terrorismo sarà anche la vostra» (a Renaud Girard).