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 2025  dicembre 11 Giovedì calendario

Fame: l’ironia spietata di Jane Austen sulle sue donne inappetenti e quel desiderio (mai celato) per i piaceri della vita

Ci sono date che non si possono ignorare. E quella del 16 dicembre 2025 si è insinuata nella mia testa e in quella di Isabella Fantigrossi per mesi. Jane Austen nasceva il 16 dicembre 1775. Duecentocinquanta anni fa. E avrebbe cambiato per sempre il modo di scrivere, amare, ridere, di tante (e tanti) di noi. È colei che ha ridisegnato la narrazione, elevando la quotidianità a genere letterario. Ma Jane è anche diventata l’amica che tutti vorremmo. Quella con cui ridere di una delusione d’amore. O sognare un futuro di libertà. Quella con la quale assaggiare un porridge ben fatto. O correre in un prato bagnato dalla pioggia d’estate. A me, per esempio, ha insegnato a sentirmi libera di essere chi volevo. Proprio come lei. Ecco, quando abbiamo capito che questo giorno si stava avvicinando, con Isabella ci siamo chieste in che modo festeggiarla al meglio. E così abbiamo iniziato a progettare questo numero speciale, come un grande banchetto a Netherfield, che è un regalo per voi lettori e lettrici che da anni ci seguite con affetto. Nel realizzarlo abbiamo avuto l’aiuto di alcune persone speciali. In primis vorrei ringraziare Antonella Paternò Rana, che si è tuffata in questo sogno con la generosità e la passione che sono parte integrante di lei, aiutandoci come solo lei sa fare. Grazie Anto... Grazie poi a Patrizia Sardo e ad Antonio Marras che ci hanno aperto le porte della casa-laboratorio abbracciandoci con la loro creatività. Grazie alle sei grandi firme che, assieme a me e a Patrizia Sardo, hanno scelto ciascuna una parola chiave per raccontare «la loro Jane»: Stefania Auci, Teresa Ciabatti, Antonella Lattanzi, Bianca Pitzorno, Liliana Rampello e Chiara Valerio. Grazie a Stefano Rosselli, che quel pomeriggio guardando negli occhi me e Isabella ha detto: facciamolo! Sei stato fondamentale. Grazie poi a tutta la crew (è lunghissima. Troverete i nomi nelle prossime pagine) che ha accettato di «salpare» per questa avventura. E ovviamente grazie alla redazione di Cook che ogni mese consente un piccolo miracolo. Infine, vi saluto con le parole di Jane: spero sinceramente che il vostro Natale possa essere ricco di allegria.
Jane Austen aveva fame. La stessa fame che Betty Friedan ne La mistica della femminilità identifica come un desiderio «di cibo che la donna non può soddisfare, ed è il bisogno di esistenza simbolica». La raccolta di lettere della Austen è un prezioso diario-confessione di questa sua urgenza di esistere. E di catturare il piacere, anche a tavola. Ponendosi in antitesi con le donne del suo tempo, e anche con le stesse protagoniste dei suoi libri, pronte, per convenzione, a rinunciare a qualsiasi desiderio anche di tipo alimentare. Non Jane. 
Nel 1808 scrive alla sorella Cassandra: «Tu sai quanto io ritenga interessante l’acquisto di un pan di Spagna». Insomma, non era inappetente. Era una di noi. E sapeva di essere imperfetta. Sempre a Cassandra scrive: «Ricordati sorella mia, le donne perfette non esistono». Nei suoi romanzi infatti non tratteggia modelli da imitare, ma caratteri-specchio tramite i quali (ri) conoscerci attraverso le nostre sbavature. Il critico inglese Lionel Trilling sosteneva, e come non dargli ragione, che Emma Woodhouse fosse la prima eroina moderna perché dotata di amor proprio. Un sentimento di sé che Jane Austen si è costruita da sola nel corso della sua vita. Assecondando però sempre la sua fame, reale e simbolica. 
Il cibo dunque era per lei una metafora di quello che le donne erano disposte a reclamare per loro stesse. «Siate affamate», sembra dirci Jane. Eppure le sue eroine non mangiano tanto. I suoi romanzi, così come sono pieni di romanticismo e di conflitti sociali, sono anche pieni di cibo. Però le protagoniste hanno paura di avere appetito. Solo occasionalmente cedono alla fame, e anche se mangiano lo fanno in modo sommesso e parco, per timore di apparire poco educate. Mangiano per mantenersi in salute, per essere socievoli, per conformarsi. Ma nessuna di loro esprime mai piacere per un pasto, o ammette di apprezzare un cibo in particolare. Quelle che mangiano sono invece spesso figure comiche, goffe, volgari. Un esempio eloquente? La invadente ma festosa Mrs. Jennings in Ragione e sentimento. Signora dagli appetiti corposi, tanto che è un po’ imbarazzante per le schizzinose sorelle Dashwood, con i suoi discorsi entusiastici sull’abbuffarsi di more in un’idilliaca giornata di raccolta. Attirando le Dashwood nella sua casa di Londra, si lamenta della loro indifferenza in fatto di cibo durante il tragitto, «turbata solo dal fatto di non poterle far scegliere la cena alla locanda, né di estorcerle una confessione sulla loro preferenza per il salmone al merluzzo, o per il pollame bollito o per le costolette di vitello». Quando il cuore di Marianne si spezza, la signora Jennings prescrive cibo e bevande: ciliegie secche, dolciumi, olive, un bicchiere di Constantia, il leggendario e delizioso Muscat del Capo, non alcolico a quei tempi, ma non per questo meno tonico per le ragazze lamentose. E quando Elinor beve finalmente il Constantia della signora Jennings, il romanzo la mostra un po’ più cortese. In un’opera incompiuta del 1792, Lesley Castle, Jane Austen prende pesantemente in giro questo atteggiamento femminile nei confronti del cibo. Come Ragione e sentimento, Lesley Castle ha due protagoniste. Una di loro, Charlotte, è l’unica tra le eroine di Jane Austen a cucinare davvero. Anzi, è ossessionata dalla cucina e dal cibo. Lesley Castle contiene una versione molto più cruda dell’opposizione presente in Ragione e sentimento tra la «sensibile» Elinor e la «sensibile» Marianne. Charlotte, la cuoca, è quella sensibile e pratica, in contrasto con la romantica sorella Eloisa. Eloisa è innamorata, in procinto di sposarsi, ma il suo fidanzato Henry Hervey viene melodrammaticamente disarcionato da cavallo alla vigilia delle nozze. Lo shock di Eloisa le fa diventare il viso, osserva Charlotte, ossessionata dal cibo, «bianco come una ciotola di panna». E Charlotte è angosciata non per la sofferenza di Eloisa, ma perché tutto quello che ha cucinato per il banchetto nuziale andrà sprecato. «Buon Dio (…) che ne sarà di tutte le vettovaglie?», esclama mentre la sorella singhiozza e sviene. Charlotte e sua madre concordarono «che la cosa migliore che potessimo fare era iniziare a mangiarli immediatamente, e di conseguenza ordinammo il prosciutto e il pollame freddi, e iniziammo subito il nostro piano di divorarli con grande alacrità. Avremmo convinto Eloisa a prendere un’ala di pollo, ma non si lasciò convincere». Eloisa rimane fedele al ricordo del suo fidanzato perduto e ai canoni della sensibilità femminile. Settimane dopo, è ancora pallida e silenziosa, ancora incapace di mangiare, troppo triste per consumare «anche solo un pasticcio di piccione». Con la giustapposizione delle due sorelle, Jane Austen ride, per quanto spietata possa sembrare, di entrambe, e della distinzione, implicita nei manuali di condotta e in altra letteratura femminile dell’epoca, tra chi si nutre e chi prova emozioni. Qui, come in quei libri su «come essere una signora», chi mangia non può provare sentimenti, chi prova sentimenti non può mangiare. Ma anche nei romanzi successivi, le eroine che lottano con questi sentimenti, soprattutto quelli che non riescono a esprimere, quelli segreti, si lasciano morire di fame: Marianne in Ragione e sentimento, Jane Fairfax in Emma, Fanny in Mansfield Park, Anne Elliot in Persuasione, piangono tutte in segreto e dimagriscono. 
Questa romantica opposizione femminile tra emozione e desiderio, così tipica della letteratura della fine del XIX secolo, definisce l’eroina romantica come una persona che non ha e non deve avere appetito. Ma nulla di tutto questo ritroviamo quando leggiamo le lettere di Jane Austen, che spesso mostrano, in totale contrasto con le sue protagoniste, un manifesto desiderio per il cibo. Al fratello in mare scrive: «Il mercato di Rostock fa venire l’acquolina in bocca, la carne del nostro macellaio più economica costa il doppio della loro». Jane è cresciuta in una canonica di campagna piena di bambini – i suoi fratelli e i ragazzi a cui il padre insegnava – e sembra ragionevole immaginare pasti vivaci, loquaci e soddisfacenti. Nella sua vita cittadina, negli anni instabili in cui visse con la famiglia a Bath e Southampton, gradiva uno spuntino a base di formaggio tostato e non vedeva l’ora di poter «bere tutto il vino che desiderava». Quando lei, sua madre, sua sorella e la cugina che viveva con loro si stabilirono nel cottage di Chawton, che sarebbe stata la sua ultima dimora, Jane Austen si occupò spesso di preparare la colazione. Non immaginatela con la spatola in mano. Come le sue eroine, si pensa che non preparasse altro che caffè e tè, forse solo pane tostato, ma era responsabile di assicurarsi che la colazione fosse in tavola e che ci fossero in dispensa piccole scorte di tè, caffè e zucchero, tutti prodotti costosi e importati. Nell’ottobre del 1808, dopo un viaggio, scrive ancora una volta alla sorella Cassandra: «A Devizes avevamo camere confortevoli e una buona cena, a cui ci siamo seduti verso le cinque; tra le altre cose abbiamo mangiato asparagi e un’aragosta, che mi hanno fatto desiderare di vederti, e delle cheesecake...». Subito dopo Natale, mentre scrive dalla casa di famiglia in Castle Square, a Southampton, racconta: «Il fischione e lo zenzero in conserva erano deliziosi. Ma per quanto riguarda il nostro burro nero, non attirate nessuno a Southampton con un’esca simile, perché è finito tutto». Una gaudente, Jane, che si concede di aver fame di tutti i cibi, anche quelli succulenti. L’opposto di Elizabeth Bennet, che quando si siede a cena nella tenuta di campagna dei Bingley, a Netherfield Park, in Orgoglio e pregiudizio, scopre che il conservatorismo dei suoi gusti le si ritorce contro. Il vicino di tavola è il marito di una delle sorelle Bingley, il signor Hurst, «che viveva solo per mangiare, bere e giocare a carte... Quando scoprì che lei preferiva un piatto semplice a un ragù, non ebbe più nulla da dirle». Il ragù, simbolo continentale decadente, rappresentava l’opposto di tutto ciò che era sano secondo il gusto britannico. Ma vi garantisco che Jane Austen, quel ragù, lo avrebbe mangiato con gioia.