il manifesto, 6 dicembre 2025
Su "Partenope" di Ennio Morricone
Ennio Morricone era solito distinguere, all’interno del proprio sterminato corpus d’opera, tra due filoni creativi. Da un lato metteva la musica applicata, costruita sull’immagine e per l’immagine; sull’altro versante quella che definiva “musica assoluta”, coltivata sin dagli anni di militanza col gruppo d’improvvisazione romano “Nuova consonanza” e tenuta da conto come uno spazio d’inventiva complementare e indispensabile. “Quando scrivi musica per il cinema”, diceva, “non sei libero. Devi rendere conto al regista, al film, al pubblico, e anche a te stesso. Molto diverso è quando scrivi musica assoluta, non funzionale a un’immagine, a un testo già definiti”. A questo secondo ambito Morricone destinò molte pagine da camera e per orchestra, per coro e per elettronica. Compose anche un’opera lirica, una sola; ma non fece in tempo a vederla in scena. Quell’opera, dedicata al mito fondativo della città di Napoli, s’intitola Partenope e sarà rappresentata per la prima volta al Teatro di San Carlo il 12 e 14 dicembre, punto clou delle celebrazioni per i 2.500 anni dalla nascita del capoluogo partenopeo. Un lavoro agile e compatto – dura poco meno di un’ora – su testo scritto da Guido Barbieri e Sandro Cappelletto. Furono proprio i due librettisti a proporre a Morricone, nel 1995, di confrontarsi per la prima volta con un mondo, quello dell’opera, che il compositore dichiarava di amare, manifestando una sana predilezione per Puccini. Non dovettero insistere più di tanto Barbieri e Cappelletto, subito assecondati da Morricone, che, nel progetto vagheggiato di Partenope, stava già immaginando di mettere a frutto la propria passione nei riguardi del mito classico. La composizione vide la luce in meno di un anno, ma non andò mai in scena. “Nel 1996”, avrebbe raccontato Morricone, “scrissi Partenope, opera da camera: ne parlai sui giornali: dovevo portarla al Massimo di Palermo, ma a me sembrava più giusto che debuttasse al San Carlo, dal momento che vi si racconta la leggenda della nascita di Napoli. Il problema è che dal San Carlo non si fece vivo nessuno, così decisi di non rappresentarla, giurando poi a me stesso che non l’avrei data al lirico partenopeo nemmeno per tutto l’oro del mondo”. E invece, come a compensare l’antico torto, è proprio al San Carlo che si ascolterà Partenope per la prima volta, in un allestimento con la regia di Vanessa Beecroft, artista nota per la felice vocazione alla forma del tableau vivant, qui al debutto d’opera. Trent’anni fa, per la messinscena, Ennio Morricone aveva coinvolto nell’impresa Giuseppe Tornatore, prima che l’ipotesi di produzione svanisse inopinatamente. Nello spettacolo di Beecroft, quasi quaranta mimi (tutte donne: «un’eco di Partenope» secondo la regista) daranno plasticità all’azione. A vestire i panni della sirena del titolo, invece, saranno in due: Jessica Pratt e Maria Agresta. Guido Barbieri spiega che «Partenope è attraversata da violenti contrasti emotivi e cognitivi, identitari e di genere. La protagonista, allora, è una e bina, suddivisa in due voci di soprano». L’idea di un personaggio con due anime separate era stata dei librettisti, e piacque subito a Morricone che, da cultore attento dell’universo pasoliniano, si adoperò per tenere la sua sirena sospesa tra la carne e il cielo, anche in termini di scrittura vocale, adoperando linee melodiche che si rincorrono. Il cast cantante è completato da Persefone, mezzosoprano in voce registrata (per rimarcarne la distanza emotiva dall’azione); Melanio, unico tenore; quindi il Coro, con funzioni da tragedia greca. Il libretto concilia suggestioni ricavabili da varie declinazioni del mito di Partenope, da Esiodo a Plinio il Vecchio e fino a Matilde Serao, ricorrendo a un Narratore (l’attore Mimmo Borrelli), quasi un cantastorie di strada chiamato ad accompagnare e commentare l’azione, rigorosamente in lingua napoletana. Partenope, opera da camera secondo Morricone, pretende in buca una quarantina di elementi: niente violini, solo viole e contrabbassi, oltre a molti flauti e un corposo set di percussioni. Il direttore Riccardo Frizza – che in una settimana, al San Carlo, prima inaugura la stagione con Medea, poi tiene a battesimo Partenope – ci dice: «La sensazione è che, con questa strumentazione, Morricone abbia ricercato i colori della mitologia greca, o comunque un certo gusto d’antico». Nell’apparente dicotomia tra musica applicata e assoluta, Partenope è un’opera di transizione. E suona dunque tanto più significativo ciò che Morricone confidò a Cappelletto, in un’intervista del 2017: «Sono conciliato con me stesso. Ho avuto due facce, ma oggi queste due facce sono più vicine. Certe sottigliezze di scrittura che uso per le colonne sonore appaiono anche nell’altro repertorio. Credo ci sia una certa riconoscibilità nella mia musica».