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 2025  dicembre 09 Martedì calendario

Adam Aleksic: “Do you algospeak? Così la lingua dei social ci spinge a comprare”

C’è un momento, nella vita digitale di ciascuno di noi, in cui ci accorgiamo che qualcosa è cambiato. Può capitare quando sentiamo per la prima volta nostro figlio 13enne usare un intercalare misterioso come six-seven, magari ignorando che proprio “67” è la recentissima scelta di Dictionary.com come parola dell’anno. Tutto nasce da una canzone del 2024 del rapper Skrilla, che pronuncia six-seven senza dargli un senso particolare. La canzone viene scelta come sfondo musicale da molti creator del mondo del basket giocando sul fatto che 6,7 piedi equivalgono a 2 metri, altezza di molti cestisti, che sempre più spesso, nelle loro interviste, oggi trovano il modo di citare la parola magica, per essere parte attiva di questo trend virale. “Dictionary.com ha fatto la stessa operazione, ha diffuso il termine sapendo che gli algoritmi dei social, in questo modo, avrebbero fatto impennare le visite al sito”, spiega Adam Aleksic, linguista e divulgatore americano molto seguito (@Etymologynerd) su TikTok, YouTube e Instagram e autore del recente saggio Algospeak: How Social Media Is Transforming the Future of Language (Knopf).
“Quando un ragazzino dice six-seven esprime un’aspirazione e una consapevolezza: è come se sapesse che quel momento, nell’epoca dello smartphone, potrebbe essere ripreso da qualcuno, finire su TikTok e diventare virale”. Chi inframmezza con “67” i suoi discorsi evoca l’algoritmo come presenza totemica, quasi oracolare, e spera di ingraziarselo. È come parlare sempre con un doppio pubblico: quello reale e quello potenziale dei social. “Anche quando una frase non viene registrata, mantiene un retrogusto performativo: viene pronunciata come se potesse diventare un frammento virale”, commenta Aleksic. Tra le altre innovazioni linguistiche nate sotto l’occhio degli algoritmi ci sono delulu, versione più musicale di delusional (ovvero “illuso”), rizz, surrogato di “carisma” e seggs, rimpiazzo di sex per aggirare la censura di TikTok. “Un caso ancora più significativo è unalive, usato al posto di kill per evitare la rimozione dei video”, spiega Aleksic. “Molti, soprattutto i più giovani, non conoscono più nemmeno l’origine censoria: le utilizzano semplicemente perché le sentono usare. Così l’algospeak, il linguaggio plasmato dai social, supera i confini digitali e invade l’offline, come quando al Museum of Pop Culture di Seattle, nella mostra per i trent’anni dalla morte di Kurt Cobain, un cartello recitava: “Cobain unalived himself at 27”. O quando gli studenti utilizzano unaliving nei saggi su Shakespeare”. Per Aleksic ci troviamo a un punto di svolta nella storia del linguaggio: gli algoritmi stanno accelerando, con una potenza inedita nella storia dell’umanità, la velocità con cui le parole cambiano. E il motore di questo nuovo fenomeno culturale è piuttosto prosaico: il denaro.
“Alla fine dei conti, queste piattaforme vogliono quindi catturare la nostra attenzione per venderci qualcosa. Una natura insita nel loro design e negli incentivi che muovono i creator, costretti a usare tutte le tattiche possibili per intrattenere o tenere alto l’interesse”, continua il linguista. “Per esempio, attraverso agganci forti nei primi secondi, perché poi oltre la metà degli spettatori viene persa poco dopo. Così la scelta delle parole diventa cruciale: si usano termini legati ai trend perché funzionano come “metadati”, che aiutano l’algoritmo a spingere i video per farli diventare virali”. In questo processo a volte cambia anche la voce dei creator: l’“accento da TikTok” è emblematico, con intonazioni ascendenti anche nelle frasi non interrogative, vocali allungate, ritmo ipnotico.
La diffusione dei contenuti segue lo stesso schema: utenti comuni e influencer assorbono modelli e li ripetono. “C’è un forte effetto di customizzazione attraverso “microetichette estetiche”, come il #barbiecore, ispirata all’immaginario di Barbie, o il #cottagecore, che idealizza la vita rurale”. In pratica, nel mondo digitale sono le sottoculture a formare le categorie demografiche, usando le parole come marcatori identitari e mostrandoci pubblicità mirate per trasformare subito le nuove “personalità” in business. Con effetti anche a medio e lungo termine. “Si crea così un rapporto circolare in cui il nostro comportamento sul web e le scelte indotte dalle piattaforme si modellano a vicenda, contribuendo a “formare” la persona che diventiamo. Alla fine il cambiamento del linguaggio è solo uno dei sintomi di questa (piccola o grande) trasformazione identitaria, che ci plasma a immagine e somiglianza dell’algoritmo”. Detto questo, Aleksic invita a non essere catastrofisti, ma vigili: “Il linguaggio si è sempre evoluto insieme agli strumenti: Platone era preoccupato per la scrittura, perché pensava che avrebbe ostacolato la memoria. Nell’Ottocento alcuni temevano che i libri potessero avere un’influenza nefasta sulle giovani donne. C’è sempre un “panico morale” nei confronti del nuovo. Per me non c’è nulla di male se un termine ne rimpiazza un altro. Il linguaggio in sé non è un problema, ma è un indicatore: un canarino nella miniera. Chiedendosi da dove vengano queste parole, si può capire in che modo la società si stia trasformando. E in questo caso tutto conduce all’algoritmo”.