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 2025  dicembre 10 Mercoledì calendario

Antonio Porta, per passione

Per chi è cresciuto alla letteratura negli anni Settanta e Ottanta, il nome di Antonio Porta è stato certamente tra i più presenti e indimenticabili. Editore, poeta, critico, narratore, scrittore di teatro, fondatore di riviste, organizzatore culturale, giornalista (ha scritto per anni sul «Corriere»), Leo Paolazzi (questo il suo vero nome) era nato a Vicenza nel 1935, vissuto a Milano dall’ottobre 1936 e morto d’improvviso a Roma il 12 aprile 1989, quando era nel pieno della sua vita e della sua attività.
Un convegno in suo omaggio, che si tenne all’Università di Milano nel 2009, portava un titolo molto bello: Mettersi a bottega, con il sottotitolo «I mestieri della letteratura», che descriveva bene il tipo di intellettuale operoso e instancabile che fu Antonio Porta. Il convegno che si terrà domani ha un titolo altrettanto significativo che dice la pluralità e la fiducia: Andate, mie parole, un verso del 1983, invito energico e dichiarazione vitale: «Andate, mie parole,/ calcate le tracce/ dei linguaggi infiniti». La poesia si apriva con un virgolettato ironico e inquietante: «Dentro una Cadillac è difficile morire». Ad apertura di pagina, si trovano versi bellissimi la cui affabile chiarezza comunicativa (che cresce nel tempo) lascia storditi: «il vento si fa leggero/ non c’è più nessuno qui intorno/ la mia penna si mette a scrivere da sola/ senza occhi che la sorvegliano». E leggendolo, sembra impossibile che Porta abbia cominciato come poeta (visivo e «disgregato») della neoavanguardia. In effetti, la prima cosa che si ricorda di lui è la partecipazione, da protagonista, al Gruppo 63, ma in realtà bisogna partire da molto prima per avere un’idea della sua precoce vitalità, da quando ancora non era Porta, pseudonimo che volle assumere, in omaggio a Milano e al suo poeta dialettale Carlo Porta, nel 1960, l’anno della sua prima raccolta, La palpebra rovesciata.
Nel 1956, suo padre Pietro Antonio Paolazzi, stampatore veneto, fonda con Edilio Rusconi la casa editrice Rusconi e Paolazzi, che pubblica inizialmente solo settimanali popolari specialmente femminili («Gioia») per poi sconfinare nel settore dei libri, il cui regista sarà il giovane Leo. Laureato alla Cattolica in filosofia con una tesi su D’Annunzio, il ragazzo ha già avuto come insegnante al liceo-ginnasio Leone XIII Luciano Anceschi, che rimarrà il suo vero maestro e punto di riferimento, e sarà lui il direttore della rivista «Il Verri», fondata nel 1956 e redatta dal ventenne Leo (poi con l’amico Giuseppe Pontiggia). Sempre per la Rusconi e Paolazzi, nel 1961 uscirà, a cura di Alfredo Giuliani, il volume che rappresenta l’atto di nascita della neoavanguardia, l’antologia I Novissimi, manifesto della «voce violenta della nuovissima poesia italiana», con testi di Pagliarani, di Sanguineti, di Balestrini, dello stesso Porta, oltre che del curatore. Il quale indicava le strategie poetiche del gruppo nella «mimesi critica della schizofrenia, rispecchiamento e contestazione di uno stato sociale e immaginativo disgregato». A sottolinearne la formazione familiare improntata al forte senso religioso, Giuliani definisce Porta un «cattolico indocile».
In uno scambio epistolare inedito con il coetaneo Peppo (Pontiggia), depositato come tutte le carte portiane nell’archivio Apice di Milano e datato 1962, gli interrogativi sulla fede emergono con tutta l’ansia accorata della giovane età. I due fanno ipotesi sul rapporto tra fede e inconscio, che secondo Pontiggia è «l’unico modo di approssimarmi a una immagine così irrazionale come quella del Dio-padre». E all’amico che afferma di credere nei «limiti paurosi della ragione» e dunque di ritenere «l’idea di Dio generata da un tragico orgoglio», Porta risponde che: «l’orgoglio umano o nega Dio o cerca di avvicinarsi tanto da distruggerne la presenza nella nostra vita». Ci sono momenti (notturni), sostiene Antonio, in cui «le spiegazioni razionali della fede ci lasciano indifferenti ed è la tensione soprannaturale che ci muove».
All’amico che dichiara «credo solo in quello cui non credo», Porta ribatte che «la fede è esistenza» e dunque il paradosso proposto da Peppo «è la tensione massima della conoscenza». Un discorrere a tratti ingenuo e convulso, ma nell’affrontare questioni capitali, i due amici si spingono a motivare anche il senso della scrittura: «Caro Peppo, non sbagliamo credendo in ciò che diciamo, perché noi non parliamo credendo, non partiamo da un credo. Entriamo in contatto con la realtà (…) e cerchiamo di capire scrivendo».
Porta cerca di capire non solo scrivendo ma anche stando, a suo modo però (non è l’«interventista» Balestrini e neanche il teorico Sanguineti), nel fuoco della controversia. E dopo «Il Verri», non si stanca di promuovere altre riviste: sempre in clima neo-sperimentale, «Marcatrè», «Malebolge», «Quindici», fino al mensile «Alfabeta», che dal 1979 aprirà ad ex esponenti del Gruppo 63, a critici militanti, a teorici della letteratura, a scrittori e poeti, a linguisti, filologi, accademici. Non ama sottrarsi, Porta, né come poeta né come critico né come intellettuale. Abbiamo da tirar fuori la vita è un altro bel titolo, quello di un volume postumo che nel 2013 raccoglieva i suoi scritti per «Sette» e per il «Corriere». E postumo era uscito anche, nel 1991, Il progetto infinito, che invece segnala l’operosità del critico di poesia. Giovanni Raboni, nella prefazione, sottolineava non solo la generosità del lettore, ma anche la tendenza «fisica» a interessarsi e ad appassionarsi a ciò che non gli somiglia, aprendosi quasi naturalmente a esperienze lontane dalla sua per un’idea, appunto, di poesia come «progetto infinito».
Le numerose amicizie di Porta erano il logico pendant di questa capacità di ascolto: oltre ai vecchi compagni di strada neosperimentale, oltre a Eco, Volponi, Malerba, oltre a Pontiggia e a Raboni, a Maurizio Cucchi (che con Niva Lorenzini ne ha curato l’Oscar), oltre ai compagni acquisiti per strada (Maria Corti era tra questi), c’erano gli autori che aveva seguito da manager editoriale, presso Bompiani dal 1968 al 1977 e fino all’81 presso Feltrinelli, dove ebbe gran parte nella collana gialla della poesia.
Il poeta Cesare Viviani, che fu suo grande amico, ha lasciato una testimonianza sulla sua personalità accogliente, vulcanica, appassionata, ricordando il primo incontro nel 1974, i viaggi per fare dibattiti e letture in giro per l’Italia, «insieme a progettare, e a verificare lavori, iniziative». La sua «irriducibile ingenuità e ricchezza», il «candore di un bambino»: la «disponibilità a imparare, a farsi cambiare dall’esistenza, è l’eredità più preziosa che un amico, con cui avrei voluto vivere più a lungo possibile l’amicizia, mi ha così presto lasciato».