Corriere della Sera, 10 dicembre 2025
Intervista a Pietro Valsecchi
Pietro Valsecchi è uno dei più importanti produttori italiani. Ha una casa bellissima, una moglie bellissima, una collezione d’arte invidiabile. Naso per gli affari, diretto, impulsivo, attento agli ultimi. Sarà che è come loro: è venuto a Roma con 500 mila lire in tasca. È nato a Crema nel 1953, ed è stato lui, grazie a suo figlio, ad aver lanciato Checco Zalone. Ma prima ci sono tanti incontri. Vuole cominciare da suo nonno.
Come si chiamava?
«Pietro, come me. Aveva frequentato il seminario insieme con il futuro Papa Roncalli. Aderì al fascismo e fu vicesindaco a Pognano, nel Bergamasco. Scriveva bene e aiutava gli abitanti del paese, in molti erano analfabeti, a redigere lettere. Era lui a correggere, per conto del sindaco, le lettere indirizzate a Mussolini. Possedeva delle terre, voleva che i suoi figli diventassero agricoltori. Ma a causa di acquisti poco prudenti, finì per perdere le proprietà ed emigrò a Lourdes perché mia nonna era molto cattolica».
E i suoi genitori?
«Mio padre aveva nove fratelli, tre morti in guerra, lui deportato a Mauthausen. Si salvò cucinando. Mi ha trasmesso l’amore per la cucina. Quando finì la guerra tornò come tanti a piedi. Mia madre invece la persi quando avevo appena 9 anni. Da lì iniziò la mia elaborazione del lutto, la ricerca di un rifugio. Quel rifugio lo trovai nel cinema».
Quando?
«Da bambino. Il cinema fu la mia scuola di vita. Mi infilavo in sala e vedevo tre film di fila. Si girava col cappotto consumato e si stava in coda davanti alla cassa, pigiati l’uno contro l’altro, il primo che spingeva entrava per primo. Io ero sempre davanti a tutti».
Sembra una scena di Nuovo Cinema Paradiso.
«L’esercente era un tipo basso, pelato, i baffetti sottili. Mi fissò e mi disse in dialetto: Ue ti, te va de entra’ gratis? Annuii di slancio. Allora vieni qui e dammi una mano a tenere a bada questi. Da spettatore, divenni parte di quel mondo».
Una specie di lunapark.
«Stavo dietro la cassa, controllavo i biglietti, salivo in cabina di proiezione, sentivo il rumore della pellicola che scorreva, respiravo l’odore caldo del proiettore. La sera tornavo a casa col cuore pieno di storie. Ma allo stesso tempo stavo scoprendo il teatro di Strehler».
Come cominciò la sua breve avventura d’attore?
«Il Teatro Zero era gestito da intellettuali e si esibiva in fabbriche occupate. Erano i politicizzati anni 70, i soldi che guadagnavamo andavano al movimento studentesco o al collettivo di Crema, la mia città. Poi entrai in una piccola compagnia di Reggio Emilia, con cui feci uno spettacolo a Roma, al Teatro dei Satiri. In platea tre persone, tra queste c’era Sofia Scandurra moglie di un regista di talento, Leone Viola. Mi disse che avevo una faccia da cinema. Mi prese».
Michele Placido?
«È stato un amico importante. Acquistai i diritti di Mery per sempre ed ebbe inizio la nostra collaborazione. L’ho convinto a debuttare alla regia. Col tempo le nostre strade si sono separate. La nostra amicizia nasce su un set in Spagna. Un bel cast, Placido, Stefania Sandrelli e alla fine arrivò Maria Schneider che era scappata da Buñuel. Era una star mondiale dopo Ultimo tango e Professione reporter».
Donna difficile, inquieta.
«Era instabile e imprevedibile, spesso ubriaca, soprattutto quando la raggiungeva Tina Aumont, con hashish e altre sostanze. Maria arrivava tardi, faceva scenate, si spogliava in pubblico. E il film non finiva mai. Fu un momento complicato per Silvio Clementelli che produceva il film e ci raggiunse sul set. Maria lo accolse in accappatoio bianco e con una bottiglia di whisky in mano, lui le disse buongiorno, lei gli gettò addosso il whisky, Silvio impassibile».
È vero che lei ha fatto causa a Bernardo Bertolucci?
«Feci causa alla produzione di un film che lui aveva prodotto, Sconcerto rock. Nel montaggio decisero di doppiare la protagonista femminile e, per non scontentare nessuno, a mia insaputa doppiarono anche me. Feci causa e ottenni che ridoppiassero tutto con la mia voce».
Come ha iniziato la sua carriera di produttore?
«Con L’affare Danton, con la regia di Wajda, capii che non avevo il sacro fuoco del teatro. Ed entrai nella società di Pupi e Antonio Avati: aiuto regista di Marcello Aliprandi. Non riuscivamo a trovare il protagonista, per strada vidi un ragazzino che faceva l’autostop. Bello, biondo, occhi azzurri, viso delicato. Era Kim Rossi Stuart, aveva 13 anni. Gli chiesi se voleva fare un provino per una serie tv. Lo vinse».
Capitolo Camilla Nesbitt.
«Di mia moglie mi innamorai a prima vista, anche se lei non mi degnò di uno sguardo. Molti anni dopo sarebbe diventata la madre dei miei figli. È il motore della mia vita. Per più di trent’anni abbiamo condiviso ogni giorno, tra casa e lavoro, sempre insieme. Abbiamo costruito tutto fianco a fianco, sostenendoci senza mai fermarci. Progetti, idee, sogni condivisi, malgrado le sue amiche all’inizio ci remassero contro. È stata decisiva per farmi prendere in mano il mio destino. I miei riferimenti erano Rosi, Petri, Bertolucci e Bellocchio. Il vero successo è arrivato con Checco Zalone».
Come lo conobbe?
«La comicità di Zelig non faceva proprio per me. Un giorno mio figlio Filippo, che aveva 12 anni, mi disse: “Papà, guarda questo comico, mi fa morire dal ridere, si chiama Zalone”. “Sì sì, lo guarderò”. Non gli diedi molto peso. Tempo dopo lo rividi in tv e mi sorprese. L’ironia tagliente, il cinismo, l’irriverenza. Un comico fuori dagli schemi. Mi metto a cercare chi è e quello che aveva fatto. Trovo il suo numero di casa. Lo chiamo una mattina presto. Ciao, sono... E lui, fingendo di conoscermi, come stai? Mi raggiungono, dalla Puglia a Cortina, lui e Gennaro Nunziante, il suo amico e regista. Loro portarono la mozzarella, io li accolsi col tartufo».
A tavola si fanno gli affari.
«E a cena nacque l’idea di Cado dalle nubi. Un ragazzo che parte dal Sud per conquistare Milano e diventare il più grande cantante. All’interno di Medusa, la società di cinema di Berlusconi che in quel periodo era mia al 50 per cento, non tutti erano d’accordo all’idea di fare un film su Zalone. Ho fatto un film contro tutto e tutti. Incassò 18 milioni. Poi le cose si complicarono. Tutti volevano rubarmi Zalone. Abbiamo fatto cinque film insieme. Gli abbiamo trasmesso l’amore per l’arte e per il collezionismo, e affinato il gusto per il vino. Abbiamo condiviso serate di musica, risate e leggerezza: momenti preziosi che porterò con me. Fino a quando qualcosa si ruppe».
Perché?
«È diventato ossessivo, vinto dall’ansia del primo posto. Ma nel cinema è normale, l’invidia è ovunque, tutti vogliono essere unici. E Luca lo era davvero. Il secondo film ha fatto 45 milioni, il terzo 52, quello che è andato “male”, Tolo Tolo, ne ha incassati 48. Il film più difficile. Luca e Nunziante non riuscivano a venire a capo della storia. Lo vedevo spaesato. “Non mettermi ansia, Pietro” mi diceva. D’accordo, ma un’idea va trovata. Intanto Gennaro mi chiese una cifra assurda. “Stai scherzando?”. “No, sono serio”. “Ma tu non sei Zalone, tu sei il regista di Zalone”. La discussione degenerò. Lo cacciai dal mio ufficio in malo modo, urlandogli dietro fino in strada. Non l’ho più visto. A quel punto, ho lasciato Luca libero di fare il suo film».
È un film sugli immigrati.
«Luca non voleva più far ridere, ogni volta che gli mandavo un autore nuovo per affiancarlo lo snobbava. Aveva bisogno di essere accettato dall’intellighenzia di sinistra, che non l’aveva capito. È un democristiano fino al midollo, voleva il riconoscimento di quel mondo e quando l’ha avuto l’ha snobbato. Solo che a me questo suo riconoscimento è costato 24 milioni di euro. Mi disse, con tutti i soldi che ti ho fatto guadagnare, ora te li faccio spendere. Una sorta di vendetta poetica. Ma ero d’accordo con lui, dopo tutti i successi, aveva il diritto di prendersi la sua libertà».
Ha inventato...
«Un nuovo linguaggio, restando sempre molto attento ai soldi. Mi diceva ridendo: “Se canto la terza canzone nel film voglio un cachet a parte”. Non scherzava. Ma abbiamo fatto un lungo viaggio insieme ed è stato indimenticabile».