Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  dicembre 10 Mercoledì calendario

Giovanni Rana: «Ho iniziato in una stalla Zeffirelli mi voleva Papa. Ricevo ancora lettere d’amore. Se potessi rinascerei donna»

C’è un momento, durante la serata organizzata a Padova dalla Fondazione «Bellisario», in cui Giovanni Rana si aggiusta il microfono con la naturalezza di chi non ha mai confuso la popolarità – lui, che è una vera icona pop – con il protagonismo. È un uomo di 88 anni: ormai centellina le uscite pubbliche; ma ha ancora l’energia dei mestieri imparati da ragazzo, quando i fratelli lo misero nel loro forno a San Giovanni Lupatoto «per raddrizzarlo» e lui, invece, trasformò un’arte in un successo planetario. Un’energia che pare inestinguibile, come la sua umanità.
«Sì, sono stato fortunato», confessa davanti alla platea di imprenditrici e professioniste venete, raccolta in silenzio ad ascoltarlo. Il Cavaliere del lavoro oggi parla solo per persone a cui vuole bene. Per questo è un’occasione. Al suo fianco c’è Gianni Canella, seconda generazione dei supermercati Alì, figlio del patriarca Francesco, morto due anni fa: vecchio amico di Rana. Da Verona, per questa famiglia e questa platea, si è mosso fin qui. Una promessa, un legame del passato. Il dialogo tra i due è affettuoso, quasi familiare. Sono mondi che si riconoscono: la bottega e il retail, i tortellini e le corsie, l’Italia che ha costruito benessere e quella che ora si interroga sul futuro.
Così Rana si apre e si confida. «Ero birichino, ricordo la maestra che diceva alla mamma: “Signora, purtroppo il ragazzo non ce la fa a stare fermo”». «Ero un tipo impulsivo – sorride —, se fossi diventato medico o ingegnere, chissà cosa avrei combinato...». A cambiarlo è la fatica, la passione per il lavoro. «Portavo il pane nei negozi e vedevo che cominciavano a vendere i primi tortellini. Sono sempre stato curioso, continuavo a chiedere: quanto costano? Quanti ne vendete? Era una specie di marketing casereccio». Da quell’occhio – curioso, ostinato – nasce l’intuizione che negli anni Sessanta cambierà il destino suo e un po’ anche quello dell’Italia: «Le giovani spose non avevano più il tempo di fare i tortellini a mano? Allora li ho fatti io per loro», racconta. Una frase che è già un modello industriale e sociale.
Rana ricorda la stalla che gli mise a disposizione il suocero, venti metri per venti: «Non voleva i soldi dell’affitto, ma solo che pensassi io a sistemarla. Insieme a un amico la ristrutturammo: lui si occupava della parte della muratura e io dipingevo le pareti; la trasformammo in un laboratorio artigianale. Una signora, che morì centenaria, mi insegnò la ricetta: io facevo la pasta, la mia fidanzata il ripieno». L’Italia era un Paese in cui c’era ancora spazio: «Un prato verde, dove tutti potevano provare».
Canella parla di responsabilità, di formazione dei giovani, della necessità di ridare una «famiglia» alla generazione dei social. Rana ascolta e annuisce: «C’è bisogno di tutti, c’è spazio per tutti. Bisogna insegnare, avere pazienza. Il mondo non è più lo stesso, ma i giovani hanno tanti strumenti per realizzarsi». Oggi lo sorprende l’America: «Io l’ho sognata, mio figlio Gian Luca (Ceo, nelle cui mani l’azienda è saldamente ormai da trent’anni, ndr) l’ha pensata, voluta, conquistata. Devo dire che hanno una logistica eccezionale e hanno scoperto anche loro il fresco...».
Così il discorso scivola sui ricordi di una vita, ricchissima, piena. La televisione, con Mike Bongiorno che lo prendeva da parte: «Giovanni – mi diceva – non fare l’attore. Sii te stesso: la gente percepisce la tua semplicità». La pubblicità, con Gavino Sanna, «capelli lunghi, serissimo, che non rideva se non davanti a un buon bicchiere di vino», che gli regala una popolarità vertiginosa: «Con lui sono nati gli spot in cui recitavo accanto a personaggi famosi, come Marylin o Rita Hayworth, grazie al computer. Un successo incredibile: arrivò a conoscermi praticamente tutta Italia». Poi le sorprese, come il cinema sfiorato con Zeffirelli. «Franco veniva sempre a trovarmi a Verona. Un giorno mi guardò e mi disse: mi serve un attore. Mi voleva come Papa in un film su San Francesco che incontra il Sultano. Risposi: Franco, vestire i panni del pontefice sarebbe un’emozione incredibile!». Un sospiro: «Purtroppo Zeffirelli si ammalò e saltò tutto. Invece dissi no a un produttore quando mi propose di fare un cinepanettone».
Ma la parte intensa arriva quando il discorso entra nel profondo. «Sono credente – confessa —. Da ragazzo facevo il chierichetto e volevo fare il prete. Anche mia mamma lo pensava. il parroco glielo diceva: sarebbe perfetto. Alla fine però ho preso altre strade. Ma la fede è rimasta, come una compagna di lavoro».
Quindi gli amici («Non mi sono mai sentito solo: vado a Roma, a Napoli e mi sento dire: “Ciao Giovanni”») e perfino le dichiarazioni d’affetto, che continua a ricevere: «Una signora mi ha scritto decine di lettere da innamorata – svela —. Conservo comunque i messaggi di tutti con profondo rispetto».
E Rana parla molto delle donne. Che «hanno sempre avuto un ruolo importante nella vita». Sottolinea: «Hanno un udito speciale, quello del cuore». Spunta un aneddoto: «Capitava, qualche volta, che chiedessi alla segretaria di ascoltare i colloqui da dietro alla porta. Le dicevo: poi dimmi cosa ne pensi». Quindi l’espressione che illumina la sala: «Se rinasco, vorrei avere il cervello di una donna. Basterebbe mezz’ora al giorno. Le donne hanno una marcia in più».
Sembra che tutto lo diverta, lo attraversi. «La parola più bella del mondo è felicità – confessa candido, come la sua corona di capelli bianchi —. Le disgrazie arrivano da sole. Mentre la felicità bisogna cercarla: costa niente e vale tutto». Alla fine, alla platea, non resta tanto l’imprenditore globale quanto l’uomo: un orfano di padre, ultimo di sei figli, diventato simbolo popolare; un artigiano che non ha mai smesso di fidarsi dell’istinto; un nonno che parla di valori come se fossero segreti semplici: migliorarsi, restare curiosi. La serata si chiude così, con un sorriso largo e un mezzo inchino, appoggiato al bastone: «Vorrei lasciare solo questo: volersi bene. Il resto passa».