La Stampa, 9 dicembre 2025
Intervista a Michele Guardì
Troneggia – letteralmente – al centro dello studio dei Fatti vostri Michele Guardì: lo storico programma di Rai2 l’ha creato quasi 35 anni fa ma, anche se è ormai in pensione (82 arzillissime primavere), non riesce ad abbandonare la sua creatura. Per mezzo secolo uomo Rai come pochi altri, prima come autore poi come regista e ideatore quotidianamente in prima fila, gli piace spaziare: è al lavoro su un nuovo spettacolo teatrale e su un sesto romanzo. Questo mentre è appena arrivato in libreria Casa Farfalla (e altre storie di Castroianni), (Baldini + Castoldi), racconti ambientati in un paese immaginario che ricorda quello della sua infanzia, Casteltermini: Sicilia profonda, postbellica, povera e semplice, periferica ma anche molto «uguale al resto del mondo». Pettegolezzi, complotti, amori, un’umanità un po’ tenera e un po’ buffa. E sullo sfondo la Sicilia che cambia, dall’arrivo degli americani nel 1943 agli Anni ’60 del boom. «Di quel mondo io sono una specie di cronista: riporto storie vere di un tempo lontano, in cui sono cresciuto e mi sono formato e che alla fine ho ritrovato un po’ ovunque».
Cosa la spinge a varcare ancora dopo tanti anni le soglie degli studi Rai?
«Il divertimento. Al mattino mi alzo contento sapendo che mi aspetta la piazza dei Fatti vostri. Lo faccio da 35 anni, e se non fosse così, staccherei subito. Ma non credo che accadrà tanto presto».
Emulo di Molière?
«Non esageriamo: non arrivo a ipotizzare di morire in scena, ma di lavorare finché ne avrò la forza».
Giancarlo Magalli disse che siete una «generazione degli immortali». Aveva ragione?
«Diciamo che, dopo 50 anni di professione, sono pronto ai prossimi 50».
Con lui, conduttore più longevo dei Fatti vostri come vanno i rapporti? Tra voi, spesso, sono state scintille.
«Ma no. Solo scaramucce per fare spettacolo. Il successo di un programma si nutre anche di questo. È uomo dall’intelligenza vivace e divertente, con un carattere molto simile al mio, soprattutto quando si tratta di fare una battuta».
Come fu che da Casteltermini, provincia di Agrigento, negli Anni ’70 arrivò a Roma, in Rai?
«In realtà inizialmente fu Milano: perché le “Lotterie” si facevano lì. Io lavoravo già da un po’ per la Rai in alcuni programmi radio regionali. E da tempo mi esibivo insieme a mio cugino Enzo Di Pisa: scrivevo i testi, cantavo, parlavo, ero portato per lo spettacolo. Pino Caruso ci aveva già notati; ma fu Tuccio Musumeci a segnalarci a Baudo, che volle incontrarci. Ci diede fiducia e subito ci prese nella sua squadra di autori. Da lì passai a lavorare con Falqui per programmi come Al Paradise (vinse la Rose d’Or de Montreux, che in Europa che premiava la miglior tv dell’epoca). Milano fu utile perché cominciai a entrare nel meccanismo Rai, e quando mi trasferii a Roma non ero più un pivello».
È vero che tutto cominciò con Mike Buongiorno?
«Da bambino, lui e i suoi quiz per me erano la tv, insieme agli sceneggiati. Lo vedevo e sognavo di fare come lui. Quando l’incontrai molti anni dopo, mi inginocchiai e gli baciai la mano. Era molto stupito. Poi fu il mio turno di esserlo, quando mi disse di conoscermi e di apprezzare il mio lavoro. Lui che lo diceva “bravo” a me! Per quanto faccia, so che non raggiungerò mai il suo livello».
Che bambino era Michelangelo Guardì detto Michele?
«Vispo ma non discolo. Accentratore (volevo per me tutta l’attenzione). Direi comunque molto normale. Sereno. Gli anni in collegio dai salesiani, non mi hanno reso né mezzo vescovo né nemico della fede, come si diceva dalle mie parti per chi cresceva tra i preti».
Famiglia?
«Papà era commerciante di cereali, di famiglia contadina, attaccato alla terra che continuava a coltivare: mi ha insegnato il rispetto per il lavoro e per li altri. Mamma, casalinga: era molto dolce e mi ha insegnato la gentilezza e la tenerezza».
Baudo è stato il papà televisivo?
«Ho cercato da subito di capire i confini dentro cui si muoveva per imparare dalla sua grande esperienza e professionalità. Era un altro mostro sacro. Difficile che sbagliasse qualcosa. Preciso, puntiglioso, informatissimo. Si svegliava alle 5 e leggeva tutti i quotidiani: quando arrivava in studio sapeva già tutto».
E quai erano quei confini?
«Il rispetto del pubblico. L’occhio all’attualità».
Anche lei ha creato non pochi personaggi che hanno fatto la storia della tv.
«Diciamo piuttosto -per fare un paragone calcistico – che io li ho messi in campo, poi sono loro ad aver fatto goal».
Massimo Giletti.
«L’ho preso dall’informazione su segnalazione di Minoli. Capii subito che aveva una marcia in più. E infatti, da giornalista che era, si è rivelato un vero uomo di intrattenimento».
Vero che una volta lo stressò al punto da farlo svenire?
«Leggenda metropolitana. Non gli davo tregua su non so più cosa e lui (forse) disse “mi farai morire”, fingendo un mancamento. Poi il racconto è montato, fino a creare qualcosa di mai accaduto».
Fabrizio Frizzi.
«Grande professionista. Scrupoloso e gentile. Studiava, si preparava. Ricordo la volta che lo trovai angosciato perché in trasmissione doveva venire Andreotti. Lo tranquillizzai: “tu incontri la persona, non il personaggio”. E infatti andò benissimo. Al di là di quel che si dice di lui, poi, Andreotti è uno simpaticissimo, battuta pronta e molta ironia. Come dimostrò anche in quella occasione».
Cosa accadde?
«Inciampò e stava per cadere. Giovanna Flora – mia storica, indispensabile autrice – ebbe la prontezza di prenderlo per le spalle e fermarlo. Poi: “Vede, signora, lei è l’unica che può dire di avermi impunemente toccato la gobba” (Guardì ne imita la vocetta nasale, ndr)».
Alberto Castagna?
«Altro grande professionista mancato troppo presto. Di grande umanità. Ricordo che una volta, durante una telepromozione gli scoppiò la risarella. Andò avanti senza riuscire a fermarsi per una ventina di minuti. La mandammo in onda: ebbe ascolti da record».
E dei due attuali conduttori di “Fatti vostri”?
«Montrucchio è stato una vera sorpresa. Non lo conoscevo affatto: me l’ha proposto il direttore di Rai2 e ho capito subito che era perfetto per noi. Come Castagna ha la mia stessa concezione di tv: non esagera mai, è empatico con pubblico (NB: Falchi non pervenuta, ndr)».
50 anni dopo, dice di amare il suo lavoro nello stesso modo. Mai avuto momenti di crisi?
«Quando morì mio cugino nell’incidente aereo di Punta Raisi. Pensai di abbandonare. Mi mettevo alla macchina da scrivere e piangevo. Poi intervenne mia moglie e mi spinse ad andare avanti anche nel nome di Enzo».
Cosa pensa della tv di oggi?
«È la fotocopia dei tempi. Racconta la vita com’è. Non possiamo dirla più bella o meno bella. Diciamo che oggi in pittura non c’è un Raffaello... Ecco, anche per la tv è così».