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 2025  dicembre 09 Martedì calendario

Uso e abuso del golden power

Negli ultimi anni il “golden power” è diventato l’interruttore d’emergenza più usato a Palazzo Chigi. Nato per bloccare operazioni davvero pericolose su asset strategici, si è trasformato spesso in un freno generalizzato a investimenti, acquisizioni e perfino a normali operazioni di credito. La domanda è semplice: stiamo proteggendo l’interesse nazionale o stiamo sterilizzando il mercato?
Per capire di cosa parliamo, basta qualche coordinata chiara. Con golden power indichiamo i poteri con cui il governo può dire “sì”, “no” o “sì ma a condizioni” a operazioni che incidono sul controllo di imprese in settori sensibili come energia, reti, telecomunicazioni, difesa, digitale. Lo strumento è stato introdotto nel 2012 e poi ampliato al punto da includere operazioni sempre più piccole e soggetti interamente europei o italiani nonché una molteplicità di ulteriori settori: trasporti, robotica, cybersicurezza, biotecnologie, salute, sicurezza agroalimentare, credito (come si è ben visto nella recente vicenda Unicredit-Bpm), assicurazioni, finanza, media, acqua e così via. In pratica: se una transazione può spostare il controllo o un’influenza decisiva su una società cosiddetta strategica, va notificata e il governo può intervenire.
Il problema è l’uso. In molti casi l’intervento si è spinto oltre lo stretto necessario, con richieste onerose e condizioni invasive anche quando non c’era un vero cambio di controllo. È qui che entra in scena la recente decisione del Consiglio di Stato sul caso Cedacri–Pignataro, che mette un paletto importante.
Il caso in due righe. Andrea Pignataro, un noto imprenditore, aveva dato in garanzia ai finanziatori un pegno sulle azioni di Cedacri, società italiana specializzata in servizi informatici per banche, senza concedere loro i diritti di voto o amministrativi ed economici se non si verificava un inadempimento. Un pegno non è una vendita: è una garanzia a fronte di un prestito. Il debitore resta proprietario e può mantenere i diritti di voto; solo se non rimborsa, la banca può vendere quelle azioni o, a certe condizioni, prenderle. Il Consiglio di Stato ha chiarito che il golden power non si applica quando c’è soltanto il pegno “puro”, cioè privo di trasferimento di diritti di voto o di poteri di indirizzo. Perché conta? Perché negli ultimi anni il perimetro dei poteri speciali si è dilatato fino a lambire atti che non spostano il controllo: garanzie finanziarie standard, quote minoritarie, clausole senza impatto sulla gestione. Questo produce incertezza, ritardi e costi, e spinge gli operatori a notifiche “difensive” per paura di sanzioni, ingolfando la macchina amministrativa e allontanando capitali. La sentenza rimette la barra al centro: i poteri speciali devono colpire gli atti che cambiano proprietario o potere decisionale, non gli strumenti di credito che non alterano la guida dell’impresa.
C’è un altro fronte, forse ancora più delicato: quello europeo. La Commissione europea ha aperto una procedura di infrazione contro l’Italia contestando che alcune parti del regime e della prassi sul golden power siano troppo ampie e poco prevedibili, quindi in contrasto con la libertà di stabilimento e la libera circolazione dei capitali. Secondo Bruxelles, l’obbligo di notificare anche operazioni intra Ue e la possibilità di imporre condizioni generiche, senza criteri sufficientemente chiari e proporzionati, creano un freno ingiustificato agli investimenti. La procedura è stata avviata con una lettera di messa in mora e poi proseguita con un parere motivato. Il messaggio è cristallino: proteggere sì, ma con regole precise, proporzionate e prevedibili.
È qui che l’Italia rischia di scivolare dall’oro al ferro. Un “Iron Power” che pretende di entrare in ogni dossier con ampia discrezionalità finisce per fare quattro danni: riduce la contendibilità delle imprese, scoraggia i finanziatori (che vedono complicarsi perfino le garanzie), incentiva favoritismi e rende più costose le operazioni per tutti, compreso lo Stato. L’effetto paradossale è che la tutela dell’interesse nazionale si indebolisce: meno investitori seri, più negoziazioni opache, meno crescita. Tutto questo pesa sulle privatizzazioni annunciate. Si parla di cessioni in realtà molto diverse tra loro, come Acciaierie d’Italia (ex Ilva) o l’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato. Ma una cosa va detta con franchezza: non è una vera privatizzazione se lo Stato resta in maggioranza, se la società non è perlomeno quotata e così sottoposta alla disciplina del mercato finanziario e se l’operatività del management entrante è vincolata da obblighi regolatori o contrattuali troppo pesanti. Aggiungiamo un golden power onnipresente e il risultato è scontato: pochi interessati, prezzi più bassi, rischio di dossier che si trascinano all’infinito. Qual è allora la via d’uscita? Tre mosse semplici. Primo: mettere nero su bianco che gli strumenti di garanzia “puri” – come il pegno senza diritti di voto – non rientrano nel golden power; l’eventuale escussione, invece, si notifica e si valuta. Secondo: definire con chiarezza quando una quota minoritaria comporta davvero un’influenza decisiva, riducendo la discrezionalità politico-amministrativa. Terzo: allineare il regime agli standard europei di necessità e proporzionalità, stabilendo che salvo prova contraria le operazioni intra-europee o nazionali sono sempre legittime, così da chiudere la procedura di infrazione e dare agli operatori un quadro prevedibile.
In sintesi: difendere alcuni asset strategici da compratori pericolosi è giusto (non vorrei vendere Eni a Gazprom, per dire). Ma impicciarsi di tutto, sempre e comunque, non è difendere: è immobilizzare. Il golden power torni quindi ad essere strumento eccezionale, non scorciatoia di politica industriale.