La Stampa, 9 dicembre 2025
Marcell Jacobs: "Contro di me un’invidia fuori controllo Mi hanno spento la scintilla"
Dove eravamo rimasti. Sulla pista di Tokyo così centrale per Marcell Jacobs che ci ha vissuto giorni straordinari alle Olimpiadi del 2021 e ore irreali nel Mondiale del 2025 da cui è uscito senza più voglia di correre.
Tre mesi dopo come sta?
«Ancora in fase di riflessione. Sono successe troppe cose che mi hanno fatto perdere la scintilla».
Non è ripartita?
«Fatico a tenerla accesa. Sto bene, ma mi manca il primo passo: la voglia di andare in campo ad allenarmi che poi si porta dietro tutto il resto. Mi sono tenuto in forma, il mio corpo necessita movimento e non sono il tipo che si stravacca sul divano».
Sente il richiamo della pista?
«No, zero e mi preoccupa»
Si è dato un tempo?
«Non mi metto fretta. In questo momento sono un uomo senza pressioni. Mia moglie Nicole fa il tifo perché riprenda ma non me lo chiede: sa che potrei arrivare ad altre medaglie. Tutto qui».
Ogni questione è in sospeso o se riparte sa da dove?
«Resto in Florida e ho fatto un discorso chiaro al mio allenatore Rana Reider. Se ricomincio mi servono garanzie, vengo da una stagione complicata perché lui è partito per la Cina, dove sarebbe dovuto restare un breve periodo. Per un motivo o per un altro, non è più tornato. Credevo di potermi gestire a 31 anni, ma vale solo fino a che va tutto liscio».
Ha avuto le rassicurazioni che cercava?
«Sì, non potrei permettermi errori. Quando lui è presente è ideale: dopo un 2023 deludente sono tornato al mio miglior livello e ho corso una finale olimpica in 9"85. Rana mi ha detto: per me puoi fare anche meglio e mi ha già proposto dei lavori tecnici intriganti».
Mantiene i suoi legami con la Cina però.
«Non metto il naso nei contratti altrui. Mi ha spiegato che si è trattenuto là per problemi personali. Ci credo fino a un certo punto, quel che conta è la trasparenza, devo sapere quanto starà in Cina e se serve ci vado anche io».
Si è sentito abbandonato?
«Lì per lì no, mi stavo riprendendo dai guai fisici, ma nel bilancio di stagione mi sono accorto dei dettagli non curati, del tempo perso, degli intoppi con il fisioterapista. Riprenderei su altri presupposti».
Quanto pesa il fattore economico?
«Ho dei contratti da rispettare, però la moneta da sola non è una motivazione. Senza entusiasmo e inutile perché se mi metto in gioco non lo faccio per l’Europeo, vado dritto fino Los Angeles 2028».
La Federazione l’ha declassata: è negli atleti di punta, ma non più tra i top. Come glielo hanno spiegato?
«L’ho letto, ero consapevole e non mi sono posto il problema. Già nel 2025 non ho avuto accordi con loro. Con la finale a Parigi ho dimostrato di esserci, non mi pareva di essere da buttare via, invece mi hanno presentato nuovi parametri. Li rispetto, poi scopro che per altri, a parità di condizioni, è andata diversamente: mi sento preso in giro».
La Federazione lamenta una scarsa condivisione.
«Mi sono comportato come quando stavo in Italia. Ci pensa l’allenatore a comunicare i programmi. Non si sono mai messi in contatto con Rana. A gennaio, colpa mia, non avevo l’abilitazione sportiva e la Federazione voleva mandare a tutti i costi un tecnico qui. Avevo bisogno di un medico e loro cercavano di controllarmi. Non il massimo. Devo ringraziare le Fiamme Oro che hanno risolto».
Lascia il rapporto interrotto?
«Lo hanno interrotto loro e se mi tolgono dagli atleti top vuol dire che non hanno interesse per me. Prendo atto».
Si stupisce che Tamberi, l’unico con un percorso simile al suo, resti nell’élite?
«No, lo conosco, sa mantenere i rapporti con le persone, caratteristica che al presidente Mei piace. Io ho un altro carattere, non riesco a fingere di fare l’amico».
Altra spina. Il caso spionaggio: l’inibizione di Giacomo Tortu lo chiude?
«La situazione non è stata percepita nella sua gravità. Mi ha destabilizzato e travolto, pagare qualcuno per frugare negli affari miei è inconcepibile, definisce, a prescindere dalle questioni penali, che c’è un livello di invidia fuori controllo. Resto turbato, è stata violata la mia privacy e da una persona con cui ho condiviso la nazionale nel 2014».
Parla di Giacomo. È credibile che il padre e il fratello non sapessero nulla?
«Non metto la mano sul fuoco per nessuno e non ho voglia di ipotizzare scenari. Non ho elementi, fare congetture mi stancherebbe e basta, non mi interessa. È più rilevante il modo in cui si vivono le rivalità: mi ricordo benissimo il periodo in cui Filippo mi rompeva le gambe a ogni gara e io sapevo che l’unico modo per batterlo era lavorare. Non ho mai avuto altri pensieri».
Come è stato rivivere la nazionale con Filippo Tortu?
«Ha affrontato la situazione e glielo riconosco, mi ha chiamato quando è uscita la notizia e ci è voluto coraggio. Siamo andati avanti».
Nessun imbarazzo?
«Magari i primi 5 minuti».
Si è chiesto come fosse così semplice associarla al doping senza motivo?
«Ci sono migliaia di persone che vivono di storie trovate nei social. Qualcuno ha fatto passare l’idea che io fossi comparso alle Olimpiadi e sparito dopo aver vinto. Chi non segue l’atletica ha deciso che era la verità».
Kerley, il suo rivale, partecipa ai Giochi a doping libero.
«Fa strano vederlo così convinto. Ma è squalificato, dopo due anni fermo avrebbe smesso. Ha cinque figli di cui nessuno sapeva niente e prende un’occasione. Temo sarà il primo di tanti: ci sono troppi atleti di livello che non hanno sponsor e fanno i professionisti senza essere pagati come tali. La tentazione è pericolosa».
Ci penserebbe mai?
«No, che cosa mi porterebbe gareggiare da dopato? Il sogno da bambino era vincere i Giochi e l’ho fatto».
Si è trasferito negli Usa per ragioni sportive, ora ci resta per scelta di vita. I suoi figli crescono meglio in Florida?
«Non meglio, è solo che oggi li vedo inseriti, soddisfatti, hanno preso la cittadinanza. Per questa parte di infanzia mi piace Jacksonville».
Suo figlio Anthony va in moto, una sua passione.
«Mi diverte seguirlo. Ora guardo come cammina, come usa il piede. Mi piacerebbe vederlo nel football americano: è forte, ha una struttura muscolare potente ed è veloce».
Più di lei alla sua età?
«L’ho visto correre per gioco 400 metri con le crocs e credevo avesse le scarpe chiodate. Ha una resistenza non mia».
Sua figlia Meghan ha 5 anni. Viviamo in un mondo che ha bisogno della Fondazione Cecchettin per sensibilizzare al rispetto. Le fa paura?
«Sì, parecchio. Ora le lascio la sua ingenuità. La vedo come la mia principessa, è adorabile e mi piace il suo carattere aperto, allo stesso tempo mi interrogo su come insegnarle che cosa è la confidenza senza spaventarla».
Mentre aspetta la scintilla si è immaginato la vita oltre l’atletica?
«Ho costruito qualcosina mentre gareggiavo e guardo tranquillo al futuro. Sull’Academy Center di Desenzano non ho messo solo il nome. È un luogo per l’avviamento allo sport e anche per la forma fisica, partecipare mi permette anche di stare vicino a mio figlio Jeremy, il più grande, che vive lì. In Italia non c’è un altro posto così. Nei prossimi dieci anni l’obiettivo è di aprirne dieci uguali nel mondo».
Ha visto correre Doualla, la sprinter sedicenne?
«In video sì. È giovane, ha talento ed è ben strutturata, ma bisogna aspettare. È troppo presto per fare valutazioni».