Robinson, 7 dicembre 2025
Lo sguardo dolce del mio Dondero sulla vita nuda
Mario Dondero morì il 13 dicembre del 2015. Passò gli ultimi mesi in un hospice per malati terminali. Se ne andò circondato dagli affetti famigliari, dal bene degli amici e di Laura Strappa, la compagna con cui aveva condiviso gli ultimi quindici anni: «Ci conoscemmo alla stazione di Bologna all’inizio del Duemila. Mario andava a trovare sua figlia Elisa che era lì per un Erasmus. Quel nostro incontro fu per me un colpo di fulmine. E lo fu anche per lui, come disse in seguito. Allora aveva già lasciato Parigi e si era stabilito a Fermo, nelle Marche».
Perché scelse di vivere a Fermo e non a Genova dove era nato? «Gli piaceva la dimensione raccolta della piccola città, dove tutti si conoscevano. Aveva cominciato a frequentare Fermo nella seconda metà degli anni Ottanta. Veniva con la sua compagna Annie Duchesne e i figli, soprattutto d’estate. Annie, che era una storica, collaboratrice di Fernand Braudel, fu molto colpita dalla biblioteca di Fermo, ricchissima di testi antichi. Acquistarono una piccola casa e continuarono a venirci fino alla morte di Annie nel 1995. Un paio d’anni dopo decise di stabilirvisi definitivamente. Anche se in lui non c’era mai nulla di definitivo». E tu sei nata a Fermo?
«No, sono nata a Montegranaro, che è un paese vicino. Poi i miei genitori si trasferirono a Fermo perché papà era medico e lavorava all’ospedale di Fermo. Era un tisiologo e radiologo molto amato dai suoi pazienti. Io ero la prima di nove figli. Ho fatto il liceo classico a Fermo. Ho studiato lingue a Venezia e mi sono laureata con una tesi su Virginia Woolf. Non ho mai avuto rapporti facili con mio padre. Era un convinto democristiano e io, negli anni Settanta, ero stata presa dalla passione comunista e femminista. Sono andata via dall’Italia nel 1978. Ho fatto la lettrice di italiano per sette anni a Jakarta e poi a Tunisi ho lavorato come addetta all’istituto di cultura. Sono rientrata in Italia alla fine degli anni Ottanta e ho insegnato inglese nei licei».
In queste settimane è uscito “Mille parole” un libro di scritti sparsi di Mario Dondero. È un suo lato che non si conosce.
«Si è sempre pensato a Mario solo come fotografo. Ma in realtà, fin dai primi anni Cinquanta lavorò come giornalista per numerose testate. Nell’Archivio Dondero, oltre ai 500 mila scatti, ci sono 200 quaderni di appunti più una quantità innumerevole di fogli sparsi. Si deve alla cura di Francesco Pascali e a un testo di Massimo Raffaeli la messa a punto del libro».
Accennavi alle numerose testate con cui lavorò.
«Mario iniziò all’Unità diretta da Davide Lajolo e poi al Lavoro di Genova con Sandro Pertini. La condizione di freelance era quella che preferiva. L’unica volta che si fece assumere fu al Milano sera. Poi collaborò a Il Mondo, Il Giorno, Tempo illustrato, L’Europeo, l’Epoca di Biagi e l’Illustrazione Italiana di Pietro Bianchi. Realizzò dei reportage per il Guardian, il Times, per Le Monde e Newsweek. Nell’ultima fase della sua vita scrisse per Il Venerdì di Repubblica e per Diario di Deaglio. Credo di aver dimenticato diversi altri giornali e settimanali a cui contribuì».
È sorprendente il lungo elenco di collaborazioni.
«Ha stupito anche me. Credo considerasse la scrittura il naturale complemento dello sguardo. Gli interessavano le persone e le loro storie. Aveva l’orecchio assoluto per la condizione umana. Non si riteneva un artista ma un testimone per nulla geloso del suo lavoro. Condivideva le sue foto con gli amici fotografi che a volte passavano a Fermo. Ma poteva tranquillamente mostrarle anche a degli sconosciuti».
Aveva mai dubbi sulla sua professione?
«Non direi, anche se spesso citava il suo incontro con un pastore in Anatolia che gli aveva chiesto sorpreso se quello di fotografare si potesse considerare un mestiere. Fotografare era il suo modo di essere. Sentivo che gli piaceva farlo. Come gli piaceva vivere».
Accennavi ai suoi amici fotografi. Chi erano?
«Sicuramente Uliano Lucas, Gianni Berengo Gardin, Lisetta Carmi, Tano D’Amico, Ferdinando Scianna. Ma poi c’erano gli amatori, verso i quali aveva una curiosità e una pazienza incredibili. Li incoraggiava, li elogiava, gli piaceva condividere con loro la sua passione».
Tra i fotografi ammirava qualcuno in particolare?
«Considerava Robert Capa il suo maestro. Ritenne quasi un’offesa personale il fatto che fosse stata messa in dubbio la veridicità della foto del miliziano che cade. Impiegò anni per raggiungere la certezza dimostrata della sua autenticità».
La figura di Capa è legata alla guerra civile spagnola.
«Mario la considerava una sorta di epopea tragica dell’internazionalismo di sinistra. Dondero andò in montagna con i partigiani quando aveva 16 anni. Un’esperienza che lo segnò in modo indelebile. Nella sua vita ha conservato il sogno del comunismo, di un mondo giusto, in cui i deboli non fossero più oppressi. Di quel grande progetto mai realizzato ha toccato con mano i molteplici fallimenti, conservandone però l’ideale. L’immortelle, come diceva».
Ti parlava mai della sua famiglia, delle sue origini, dei suoi viaggi?
«Raccontava della mamma antifascista che aveva nascosto in casa alcuni ebrei perseguitati durante la guerra. Di suo padre che definiva borghese. Gli era grato per avergli fatto conoscere William Garbutt, il “mister”, grande allenatore del suo amato Genova. Quanto ai viaggi era un continuo di storie, di incontri e di esperienze vissute in Sud America, in Africa, in Canada, in Russia, in Afghanistan. La sua vena affabulatoria si accendeva particolarmente davanti a un pubblico che lui stesso creava. Bastava che aprisse bocca e immediatamente vedevi accendersi l’attenzione della gente. Alla fine qualcuno lo invitava a casa a mangiare. Erano i suoi famosi corsi di amicizia accelerata».
Che genere di fotografo è stato Dondero?
«Fu un amante delle persone e della vita. Si era formato a modo suo, senza una scuola, senza curarsi della tecnica; ma con una motivazione assoluta nel voler rendere testimonianza della verità».
Fa pensare quasi a un atteggiamento religioso.
«Di una religione laica, certo. Aborriva l’estetismo e ogni forma compiaciuta verso le apparenze, la decorazione. Rifuggiva la fotografia che rischiasse di togliere dignità alle persone. Cercava la bellezza di ciascuno e la riconosceva. Era anche molto umile, niente sussiego. Per questo credo è stato così amato».
Si dice che a volte scattava foto senza rullino nella macchina. Se fosse vero sarebbe una forma di supremo snobismo.
«Uliano Lucas ha detto che Mario è stato vittima di un’aneddotica fuorviante che ha sottolineato i suoi aspetti non convenzionali, ma ha oscurato la scelta di fondo, cioè di essere un fotografo freelance, senza vincoli contrattuali. Fu una scelta dura e faticosa che lo portò a fare un mestiere senza rete di protezione. Specialmente all’inizio della carriera, capitava che non avesse la pellicola per mancanza di soldi. Altre volte per dimenticanza. Escluderei lo snobismo».
Pensavo a una forma involontaria di disinvoltura.
«Mario anche dopo gli ottant’anni viaggiava con grandi pesi sulle spalle. Mi raccontava di quando si era trovato a fare fotografie perché gli era stato chiesto e lui faceva finta di scattarle pur sapendo che in quel momento non aveva il rullino. Più che allo snobismo la sua vita mi ha fatto pensare alla gentilezza».
Aveva vissuto a lungo in Francia. Perché?
«Sia per il legame fortissimo con Annie ma anche perché pensava alla Francia come la terra della rivoluzione che aveva rotto i pilastri del mondo feudale e aveva proclamato i diritti universali. Del motto della Rivoluzione francese, preferiva Fraternité a Égalité e Liberté. E poi gli piaceva la Francia del dopoguerra, povera e fraterna, la Francia esistenzialista, dove si era affermata la fotografia humaniste».
A proposito di foto e di Francia. C’è uno degli scatti più famosi di Mario, che lui stesso racconta nel libro. Parlo de “La photo du Nouveau roman”.
«Bhem, giustamente celebre, oggi si direbbe iconica. Era la mattina del 16 ottobre 1959. Mario si trovava nella sede delle Editions Minuit, aveva un appuntamento con l’editore Jérôme Lindon quando vide entrare alla spicciolata alcuni scrittori. Fu allora che gli venne l’idea di fotografarli in gruppo. Li portò fuori, davanti all’entrata, e li immortalò. Tra loro c’erano due futuri Nobel, Samuel Beckett e Claude Simon, e tra gli altri Alain Robbe-Grillet, Nathalie Sarraute e Claude Mauriac».
Quella foto fissò per sempre un momento fondamentale della Francia letteraria del dopoguerra.
«È incredibile ma fu davvero così. Claude Mauriac nel suo Diario raccontò nei dettagli come Mario era riuscito a realizzare quella foto».
Laura, tu lo hai seguito e curato fino alla fine. Che ricordo hai degli ultimi tempi?
«Molto dolore e molta gioia. Per tanto tempo ho pensato che sarebbe stato meglio per lui morire presto, ma poi mi sono accorta che anche in quelle condizioni Mario era legato alla vita e l’accettava com’era. Non si è mai lamentato. Era capace di tirare fuori il suo humour. Una volta che qualcuno gli aveva chiesto come stava rispose: bene, tra un coma e l’altro. Raramente passava un giorno senza visite: i suoi tre figli, i nipoti, gli amici. Ricordo che Bernardo Valli venne a trovarlo con un taxi da Forlì. E poi Luciana Castellina, Vinicio Capossela. E lui gioiva delle attenzioni degli amici, delle infermiere, dei medici. Dei volontari».
Di cosa parlavate?
«Non parlava molto. Manifestava il piacere di vedere gli altri, sorrideva, accettava tutte le cure. Continuava a essere gentile. Ho incontrato diverse persone che lavoravano all’hospice, anche recentemente, che ricordano quei mesi come un tempo bello della loro vita».
È vera la storia che poco prima di morire a un tratto si svegliò, chiese di andare a mangiare in una trattoria sottostante e i medici acconsentirono?
«In realtà in occasione delle visite degli amici ci recammo diverse volte alla trattoria vicina all’hospice. I medici avevano dato il loro assenso. Andavamo in ambulanza e poi Mario stava a tavola con noi. Anche senza parlare, era presente e sereno».
Sono trascorsi esattamente dieci anni dalla sua scomparsa. Com’è la tua vita senza di lui?
«C’è stato un grande vuoto, ma riempito da molte manifestazioni di affetto e di vicinanza. Ancora adesso sento fortissima la sua assenza, soprattutto nelle occasioni pubbliche. Era capace con la sua presenza di trasmettere buonumore».
Ricordo un pranzo con lui, te e altra gente. Alla fine gli chiesero di cantare “Les feuilles mortes”.
«Lo rammento, accadeva nella casa di Alessandra e Tullio Pericoli nelle Marche. Mario aveva una voce profonda, se avesse studiato sarebbe diventato un buon baritono. La cantava alla maniera degli chansonnier, del suo amato Yves Montand. Ricordi i primi versi? Li recitava: Oh je voudrais tant que tu te souviennes (vorrei tanto che ti ricordassi), Des jours heureux où nous étions amis (dei giorni felici quando fummo amici), En ce temps-là la vie était plus belle (a quel tempo la vita era più bella), Et le soleil plus brûlant qu’aujourd’hui (e il sole più splendente che oggi)… Il testo è di Jacques Prévert».
Cosa ti manca di lui?
«La sua gioia di vivere, i suoi mazzetti di fiori comprati per strada, la sua mano calda con la mia dentro la tasca del cappotto, quando camminavamo insieme d’inverno; i suoi fantastici regali, come una zebra di cartapesta, una gallina di terracotta; la sua calma interiore, la sua bontà, la sua equanimità, la sua accettazione della vita. E perfino della morte».