la Repubblica, 9 dicembre 2025
Prezzi giù e stalle in ansia, la crisi del Grana Padano affossa il mercato del latte
«Se davvero ci trovassimo costretti a buttare via il latte, per noi allevatori sarebbe la fine». Fuori l’inverno padano che non fa sconti; dentro, al relativo caldo della stalla di Settimo milanese, duecento Frisone da mungere due volte al giorno e accanto a loro Paolo Maccazzola, allevatore, appunto, e presidente lombardo dell’associazione agricola Cia. A seicento chilometri di distanza, ministero dell’Agricoltura, un tavolo aperto per cercare soluzioni alla grande crisi che sta scuotendo il settore; proprio oggi un nuovo incontro.
Ci si può ubriacare di latte? E il dopo sbronza è doloroso? Di questi tempi, contro ogni evidenza, la risposta è un doppio sì. Come chiamare altrimenti la corsa delle quotazioni del latte della prima metà dell’anno, quando il resto d’Europa produceva meno e gli allevatori italiani mungevano a tutto spiano, che a luglio erano arrivate a superare i 63 centesimi per litro? E come definire la gelata autunnale dei prezzi? In agosto, sul mercato spot – quello di chi ha bisogno subito della materia prima – per un litro di latte servivano poco meno di 70 centesimi di euro, adesso siamo sotto i 50 centesimi: un crollo del 30% che lascia esterrefatti e preoccupatissimi Maccazzola e i suoi colleghi, spaventati anche dalle disdette che alcuni caseifici stanno dando sui contratti a prezzo prefissato che altrimenti si sarebbero rinnovati automaticamente il primo gennaio 2026.
Dinamiche di mercato, certo, ma con picchi e cadute che ricordano più le quotazioni del settore tech che non il vecchio e caro (in senso affettivo) latte. Nei primi mesi dell’anno i produttori tedeschi erano fermi per la paura di un’epidemia di sindrome da lingua blu del bestiame, alcuni paesi del Nord Europa cercavano di ridurre i capi per diminuire le emissioni di azoto, e l’Italia correva. A spingere la produzione era sia la mancanza di latte straniero, sia la parallela corsa dei formaggi italiani; anzi, di un formaggio in particolare, il Grana Padano, una Denominazione di origine protetta che, da sola, assorbe circa un quarto dei 13 milioni di litri che escono ogni anno dalle nostre stalle. Anche in questo caso domanda scatenata, complici i dazi di Trump in arrivo che nella prima parte dell’anno spingevano gli importatori ad aumentare le scorte e facevano salire il prezzo del Grana. In estate, con le quotazioni al chilo vicine agli 11 euro – mai così scarso il divario con il Parmigiano Reggiano che ne quotava 13 – i caseifici che aderiscono al consorzio del Grana si sono fatti prendere la mano: invece di rispettare le quote assegnate le hanno sforate alla grande. «I responsabili della crescita non sono i big, ma i caseifici medi e quelli medio-piccoli. In questo ambito nei primi dieci mesi del 2025 la crescita media è stata sopra il 12% rispetto alle quote assegnate», spiega il direttore generale del consorzio, Stefano Berni. In teoria, e anche pratica, chi sfora le sue quote viene multato per ogni forma prodotta in più. Ma, come è ovvio, se le quotazioni del Grana Padano volano, vale la pena anche di pagare le penali pur di aumentare offerta e profitti. Secondo Berni, così, «in estate ci siamo trovati ad affrontare problemi per esuberi del latte, che abbiamo riassorbito trasformando in formaggio più latte». Gli agricoltori spiegano il fenomeno in senso inverso: «I caseifici ci hanno spinto a produrre di più perché i loro prodotti, specie il Grana Padano, tiravano – dice ancora Maccazzola, con un’opinione condivisa dalle altre associazioni di settore – e adesso non possono lasciarci in questa situazione». Sia, come sia, di Grana Padano – secondo i piani del consorzio – dovevano arrivare quest’anno sul mercato quasi 5,4 milioni di forme, ma ce ne son quasi 700 mila in più.
Ora la battuta d’arresto che vede i magazzini pieni di forme invendute, l’obiettivo di passare circa il 2% della produzione alla cosiddetta “retinatura” (sul marchio della Dop viene sovrimpressa una X e il Grana si trasforma in meno pregiato “formaggio duro italiano”) e soprattutto, l’impegno a ridurre la produzione per il 2026, in modo orientativo del 4% circa rispetto a quest’anno. Fattori che deprimono il prezzo del latte italiano, assieme a una ripartenza dell’industria europea – con la Germania che a fine anno dovrebbe aver incrementato i volumi del 6% e alla Francia del 4% – e gettano gli agricoltori, che pure hanno goduto di un paio d’anni di prezzi forti, con i relativi vantaggi – nello sconforto. «E mentre la produzione cresce – spiega Massimo Forino, che è direttore di Assolatte, ossia l’associazione dei produttori caseari – la domanda invece ha subito un rallentamento. Anche la domanda internazionale ha frenato, tant’è vero che l’esportazione negli ultimi due mesi, dopo cinque anni di crescita continua, ha mostrato segni negativi».
Che di fronte alla gelata del formaggio i contratti firmati dai produttori per ritirare il latte nel 2026 mantengano lo stesso livello di prezzo che nel 2025 è una speranza impossibile – anche perché il benchmark di mercato, la cosiddetta “quotazione Lactalis”, operata dai colossi francesi che sono i primi produttori in Italia, si basano su un algoritmo che pesa al 70% il valore medio del latte europeo e al 30% le quotazioni del Grana Padano. Ma mentre i contratti che si avviano a scadenza vengono disdettati perché ormai troppo alto è il divario con i prezzi “spot”, gli allevatori ricordano che il loro prodotto non può certo restare in magazzino. «Non parliamo, per carità, di battaglia sul latte – sdrammatizza sempre Forino – perché con i prezzi così in calo è normale che i produttori disdettino i contratti: non lo fanno certo per smettere gli acquisti, ma solo per non rinnovarli in modo tacito e trattare invece sul nuovo prezzo». Non sarà una battaglia, allora, ma di certo un braccio di ferro in cui tutti – i produttori di formaggio come quelli di latte – chiedono l’aiuto del governo.