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 2025  dicembre 09 Martedì calendario

«Franzo Grande Stevens, mio padre. L’infanzia in un monastero, l’amicizia con Agnelli e l’Aga Khan, il suo letto rivolto verso Napoli prima di morire»

Franzo Grande Stevens è stato uno degli avvocati più influenti d’Italia, l’uomo di fiducia di Gianni Agnelli e di tutta la sua famiglia. Un rapporto professionale ed umano così profondo da cui è scaturito il soprannome «l’avvocato dell’Avvocato». Nato a Napoli, ha studiato all’Università Federico II per poi trasferirsi a Torino dove ha fondato uno dei più prestigiosi studi legali internazionali. Ricoprì molti incarichi prestigiosi e di rilievo. Sua figlia Cristina, che ha lavorato cinquant’anni al suo fianco, lo ricorda così.
Partiamo dall’infanzia di suo papà.
«Un’infanzia dura a causa di una separazione difficile, peraltro, vissuta negli anni in cui era considerato un tabù».

Che ne fu di lui?
«Trascorse la sua infanzia all’interno dell’Abbazia di Montecassino, monastero benedettino, luogo a lui molto caro. La stanza spoglia di ogni orpello in cui ha dormito per anni è stato il luogo che ha fatto visitare, commosso, ai suoi figli e ai suoi nipoti».
Perché finì lì?
«Per decisione del tribunale dei minori che tolse l’affidamento ai genitori in virtù difficile rapporto tra loro: mio nonno, profondamente innamorato di mia nonna, cadde in depressione; lei patì le nozze imposte dalla sua famiglia».
Suo padre ricevette una formazione benedettina.
«Tutta la sua vita è stata impostata sulla regola di San Benedetto “Ora et labora”, motto che ha segnato la sua filosofia di vita e ha guidato tutto il suo operato».
Esempi?
«Era infaticabile, disciplinato, affamato della conoscenza. Non aveva alcun interesse per il superfluo di cui non capiva il valore. Non dava importanza all’apparenza né all’estetica, tanto che mia mamma si occupava di gestire il suo look, di arredare il suo ufficio, di selezionare il personale da assumere, di gestire le relazione sociali in cui, lo coinvolgeva. Viveva all’insegna dell’educazione monacale che aveva ricevuto».
Mi sembra di intuire che sua mamma abbia svolto un ruolo importante per suo padre.
«Decisivo. Era il suo opposto, per questo l’amò e la stimò molto. Intelligentissima, aveva una forte personalità che le permise di non restare nella sua ombra ma, al contrario, di alleggerirgli l’esistenza così carica di dovere, lavoro e disciplina. Lei ha rappresentato, per lui, l’amore e la famiglia che non aveva mai ricevuto».

Un ricordo del monastero?
«La sensazione di solitudine che provava sulla grande scalinata dell’Abbazia quando, in estate, tutti i genitori, tranne i suoi, venivano a prendere i bimbi per trascorrere le vacanza insieme. Per consolare la sua delusione i monaci gli diedero libero accesso alla biblioteca dell’abbazia, una delle più fornite al mondo. Ecco, quello era il suo ricordo splendente».
Un bimbo felice da solo in una grande biblioteca?
«Sì, per lui fu straordinario leggere le avventure di Ivanhoe, di Walt Scott o quelle di Lancillotto. Lì imparò ad apprezzare le opere di Shakespeare e, soprattutto, scoprì la musica classica che ascoltò per tutta la vita, anche lavorando. Abitudine che ho imparato da lui».
Sua mamma sarebbe stata felice di passare la sua infanzia in una biblioteca?
«Lei ha sempre sostenuto che sarebbe fuggita…».
Che giochi faceva con suo padre?
«Giochi legati all’uso del cervello, mai fisici. Ricordo i viaggi in auto (guidata da mamma) verso la casa di Courmayeur. L’indovinello più semplice era: “Quali sono gli affluenti, di sinistra e di destra, del fiume Po?”. Ne uscivamo sempre sconfitti».
Era competitivo?
«Molto. Mia mamma è stata molto brava a proteggerci dal confronto con lui».
Ha lavorato tanti anni con suo padre ma non le è mai piaciuta la professione, pur essendo avvocato. Perché?
«Intanto, perché non mi sentivo naturalmente portata per questo mestiere. Mi sono laureata per sfida nei suoi confronti: sosteneva che non sarei arrivata fino in fondo. Invece, fu lui ad affidarmi l’organizzazione dello studio e la gestione delle relazioni. Ebbe fiducia in me ma non mi risparmiò una lunga gavetta».
E qui inizia l’incontro con i grandi personaggi.
«Gianni Agnelli, Carlo De Bendetti, Luigi Giribaldi, Gianluigi Gabetti, le famiglie Ferrero, Pininfarina, Lavazza. Il principe Karim Aga Khan».
Un aneddoto con l’Avvocato?
«Il più emblematico avvenne negli anni in cui seguivo papà insieme all’Avvocato e a Pierluigi Gabetti. Ci recammo in Argentina per una riunione di tre ore con relatori di tutto il mondo. Al rientro, atterrammo a Ginevra dove avremmo dovuto pernottare per la notte. Loro tre, parlando concitatamente, superarono i controlli senza problemi, data la notorietà; io, un po’ distanziata, venni fermata perché molto sospetta: avevo solo ventisei anni, mi ero recata in Argentina per poche ore e avevo viaggiato in prima classe. Tutto faceva pensare che fossi un corriere della droga. Papà non si accorse di nulla e a quel tempo non esistevano i cellulari con cui comunicare. Passai la notte tra ispezioni corporali e lastre per dimostrare di non aver ingerito o nascosto ovuli».
Un aneddoto con il principe Aga Khan.
«Con papà organizziamo una festa a Venezia, al quinto piano dell’hotel Danieli, nel periodo in cui era presidente della Ciga. Avevo il compito di accompagnare gli ospiti ai tavoli, in particolare, l’Avvocato Agnelli e l’Aga Khan. Proprio con loro rimasi bloccata in ascensore per mezz’ora. Rimasi colpita dalla loro tranquillità mentre fuori gli staff della sicurezza si agitavano per correre ai ripari».
Anche con Michele Ferrero fu una gran amicizia. È vero che fu suo padre a rendere inespugnabile la formula della Nutella?
«Sì perché brevettò quella formula in Egitto, in virtù di una convenzione che l’Italia aveva stipulato con i paesi arabi. Non venne mai più reperita».

Cosa contava per lui?
«L’intelligenza e la conoscenza».
Cosa temeva?
«L’ignoranza».
Era credente?
«No, ma sentiva un forte senso della spiritualità».
Le sue virtù?
«Era semplice e molto umile. Tra i suoi grandi amici c’era Peppino, pescatore di Ischia».
Il suo più grande difetto?
«La competizione».
Che rapporto aveva con il denaro?
«Era molto generoso. Il denaro, per lui, era solo un mezzo per migliorare la vita delle persone care».
Quante lingue parlava?
«Cinque, oltre l’italiano: inglese, francese, russo, spagnolo e portoghese».
Ha sentito la nostalgia per la sua città natale?
«Tanto, per sempre. Ascoltava spesso le canzoni di Roberto Murolo. Conservò la positività e la malinconia napoletane. Alla fine dei suoi giorni mi chiese di orientare il suo letto verso Napoli».
Lavorò fino alla fine?
«È venuto in studio fino al 3 giugno 2025. È morto il 13 giugno, dieci giorni dopo».
Se potesse rivederlo per due minuti cosa gli direbbe?
«Grazie, per la vita meravigliosa che mi hai regalato».