Corriere della Sera, 9 dicembre 2025
Soldi, spie, scoperte. Il viaggio della seta
Nel Duecento e nel Trecento la seta è il principale punto di collegamento materiale tra un’Europa arretrata economicamente (ma in forte crescita) e l’Asia più avanzata che appare a un viaggiatore come una terra misteriosa e ad un tempo meravigliosa. Quello di cui parla Luca Molà – in Nel segno di Marco Polo. Venezia, l’Asia, la seta (Laterza) – è l’inizio di una storia che al di là dell’incanto complessivo descritto nel Milione è destinata a produrre un’autentica rivoluzione. Una storia di viaggi per acquisire nuove tecnologie che si sviluppa lungo tutto il Trecento «inseguendo l’arrivo da Oriente di macchine e tinture rosse pregiate» che cambieranno radicalmente la produzione italiana dei tessuti di seta.
Marco Polo è nato a Venezia nel 1254. Come ha ricostruito Alvise Zorzi nel celeberrimo Vita di Marco Polo veneziano (Rusconi) parte, assieme ai fratelli Niccolò e Matteo alla volta della Cina nel 1271 quando di anni ne ha diciassette. Tonerà a Venezia nel 1295. Il viaggio iniziale durerà oltre tre anni prima di arrivare nell’odierna Xanadu, città allora in costruzione, alla corte del Qubilay Khan di cui Marco Polo saprà conquistare un’illimitata fiducia. Fiducia che – come ben descrive Vito Bianchi in Marco Polo. Storia del mercante che capì la Cina (Laterza) – gli consentirà di impadronirsi di tutto ciò che rendeva il Catay un’avanguardia della modernità. A partire dai segreti della tessitura della seta.
Quando tornerà a casa i suoi concittadini stenteranno a riconoscerlo e allorché proverà a prender possesso della sua abitazione molti manifesteranno dubbi sulla reale identità sua e dei suoi fratelli: «sembrano quasi tartari», scrive Molà, «nel vestire e nei modi, la loro lingua si fatica ad intendere».
C’è un solo modo per farsi riconoscere. Uno stratagemma «perfettamente coerente con i valori di fondo di una società mercantile, nella quale il successo degli affari e la ricchezza acquisita testimoniano il diritto di tornare a far parte con orgoglio di una comunità da cui si erano assentati per lungo tempo».
Lo racconta Giovanni Battista Ramusio in Dei viaggi di messer Marco Polo (Edizioni Ca’ Foscari). I Polo invitarono molti parenti a un «convito» e venuta l’ora del sedere a tavola «uscirono fuori di camera tutti e tre vestiti di “raso cremosino” in veste lunghe fino a terra»; poi si cambiarono con altre vesti di «damasco cremosino» dopo aver tagliato le precedenti e donato le «pezze» ai servitori. Quando tutti hanno mangiato, danno vita una terza volta nello stesso rito indossando vesti di «velluto cremosino», dopo aver tagliato e regalato ai servitori quelle di damasco. A fine cena indossarono i «panni consueti che usavano tutti gli altri». Cosa che fece restare «come attoniti tutti gli invitati».
Quindi, tolte vie le tovaglie e fatti uscire i servitori, presero «tre veste di panno grosso consumate con le quali erano venuti a casa», scucirono gli orli e ne tirarono fuori rubini, zaffiri, carboni, diamanti e smeraldi a dimostrazione della ricchezza che avevano portato con sé. L’intera Venezia si fece incantare da questa esposizione di ricchezza e smise di nutrire dubbi sulla loro identità.
La seta, comparsa in quella cena, è onnipresente nel Milione. Marco Polo, scrive Molà, la menziona 58 volte nella prima versione franco-italiana del testo, «spesso in relazione ai tessuti prodotti nelle regioni visitate, agli abiti o come materia prima». Nessun altro bene o merce ha un numero di citazioni paragonabile, «neppure lontanamente». Il fatto non dovrebbe stupire troppo «dal momento che le regioni dell’Asia descritte nella prima e seconda parte del testo basavano parte della loro economia e della loro cultura sulla seta». Gli scavi archeologici fatti nel Novecento «hanno portato alla luce in uno stesso sito una coppa in avorio con incise rappresentazioni dei bachi da seta e una scopetta impiegata per dipanare i bozzoli risalenti a settemila anni fa». I primi frammenti di tessuti serici ritrovati hanno invece un’età di circa cinquemila e cinquecento anni.
Per oltre due millenni la seta fu uno dei più importanti prodotti di scambio dell’economia mondiale. Già nel primo secolo a.C. «dall’Impero cinese i pregiati tessuti serici, sotto forma di articoli di commercio, dono o tributo giungevano fino a Roma e si andavano diffondendo in buona parte del continente asiatico». Usata a lungo «come supporto per la calligrafia e la pittura e nei rituali della religione buddista, la seta viaggiò con i monaci, i pellegrini e i mercanti attraverso l’Asia centrale». Poi, a partire dall’ottavo secolo, prosegue Molà «le regioni convertite all’Islam iniziarono a produrle e a confezionare con essa stoffe, le cui tecniche di lavorazione furono ben presto trasferite nella Spagna musulmana». Ma già prima, a partire dal VI secolo, «anche l’Impero bizantino aveva acquisito gli strumenti necessari alla lavorazione dei drappi di seta, prodotti nelle manifatture statali di Costantinopoli in raffinatissimi esemplari colorati con la porpora, riservati alla corte imperiale». O «da artigiani e imprenditori indipendenti a Tebe e a Corinto per un più vasto consumo».
Marina Montesano in Marco Polo. Un esploratore veneziano sulla via della seta, il primo europeo alla scoperta dell’Asia (Salerno) ben descrive il contesto in cui si svolse questa straordinaria avventura. Tra tardo Medioevo e Rinascimento, scrive Molà, lunghissime carovane portavano ogni anno dalla Persia tonnellate di seta all’Impero ottomano e alle regioni controllate dai mamelucchi. Un quantitativo ancor maggiore si indirizzava a sud-est, verso l’India, un commercio che sotto la dinastia Safavide era controllato da uomini d’affari armeni. E la storia proseguì in questa direzione con velocità sempre maggiore. La seta, dunque, può vantare a buon diritto, secondo Molà, «il ruolo di merce principe nella storia del primo sviluppo della globalizzazione economica».
Nella nostra penisola, Lucca fu la prima a sviluppare una lavorazione della seta di buon livello, a partire dal tardo XII secolo, «grazie probabilmente a maestranze ebree o greche emigrate dall’Italia meridionale». Vent’anni prima della nascita di Marco Polo, Bologna provò a importare decine di tessitori lucchesi, ma con scarso successo. Successo che arrise invece a Venezia che – come racconta John Julius Norwich in Storia di Venezia. Dalle origini al 1400 (Sellerio) – si era interessata alla seta ben prima che Marco Polo venisse al mondo. Venezia dal 1204 – anno culmine della «crociata deviata» indetta da Papa Innocenzo III che si concluse con il sacco di Costantinopoli – controllava oltre un quarto dell’ex Impero bizantino e aveva avuto modo di conoscere il valore del mercato della seta. Anche Venezia importò tessitori lucchesi ma una massiccia emigrazione artigianale e mercantile ebbe inizio soltanto dal giugno del 1314 «come conseguenza della cruenta conquista di Lucca da parte dei ghibellini capeggiati dal capitano di ventura Uguccione della Faggiuola che saccheggiarono per tre giorni la città bruciando centinaia di case e provocando la fuga di molte famiglie guelfe». Venezia fu la città che a detta di Adam Smith – già nel 1776 in La ricchezza delle nazioni (Utet) – intercettò più di altre questa migrazione forzata dei lucchesi. Che per una coincidenza storica messa in evidenza da Ermanno Orlando in Le Venezie di Marco Polo. Storia di un mercante e delle sue città (il Mulino) si intrecciò con gli ultimi dieci anni di vita del viaggiatore reduce dal Catay.
Tornato a Venezia, Marco Polo, scrive Molà, si trovò ad abitare a stretto contatto con artigiani della seta sia prima sia dopo il 1314 ed «è possibile che avesse sostenuto l’arrivo dei lucchesi presso il governo, mettendo a disposizione degli spazi per accoglierli nei piani inferiori del proprio palazzo». Ne è prova l’attività del mercante e imprenditore Dino di Parentuccio Paruta, arrivato da Lucca nel 1315 con la prima ondata di profughi e «stabilitosi a San Giovanni Grisostomo con tutta probabilità nel palazzo dei Polo, dove rimase per tutta la vita». Lo incontriamo «nelle fonti» per la prima volta nel 1322 che «elargisce un piccolo prestito a una vedova sua concittadina e vicina di casa». E successivamente «quando fa da testimone per la vedova di un battiloro della stessa contrada». Nel 1330 (Marco Polo è morto da sei anni) Dino ottiene la cittadinanza «de intus» concessa ai forestieri che avevano risieduto a Venezia per quindici anni. E nel 1340 quella «de extra» che consentiva di commerciare con il Levante.
Ovviamente una parte di lavoratori della seta era restata a Lucca anche dopo i «fatti del 1314». Una svolta determinante, scrive lo storico, si ebbe a cavallo del XIII e XIV secolo con l’impiego di un nuovo attrezzo, il torcitoio da seta meccanico, detto anche filatoio, «senza dubbio la più complessa e importante macchina inventata in Europa prima della rivoluzione industriale». Il vantaggio dato dal torcitoio consisteva nel consentire la lavorazione in contemporaneità di centinaia di fili con l’uso di una manodopera ridotta. Il torcitoio da seta a trazione manuale, dai documenti finora conosciuti, appare per la prima volta nel 1331 proprio a Lucca, città a cui è unanimemente attribuita la sua invenzione. Per poi diffondersi nei secoli successivi in parallelo con l’avvio della lavorazione dei tessuti serici in altre aree della penisola.
Stavolta Bologna fu più lesta a capire l’importanza di quella invenzione. Invenzione che perfezionò nel corso del Trecento con torcitoi mossi dall’energia idraulica anziché umana. Con un marchingegno prezioso per l’economia della città (nel Cinquecento sarebbe arrivato a dar lavoro a quasi metà della popolazione attiva). E che perciò fu protetto per secoli da una cortina di segretezza assoluta. Il torcitoio a energia idraulica «fu al centro di veri e propri casi di spionaggio industriale per apprenderne i meccanismi e il funzionamento da parte dei centri urbani e degli Stati che non lo possedevano ancora». A Bologna nel 1510 un bando minacciava la pena di morte e la scomunica a un gruppetto di torcitori locali che aveva trafugato la tecnica di costruzione dei mulini da seta portandola nella vicina Modena. Qui le autorità pubbliche diedero disposizione di vigilare sull’incolumità dell’impianto con una guardia armata, dal momento che degli emissari inviati dal governo di Bologna avevano tentato di appiccargli il fuoco e di distruggerlo.
Ma torniamo a Venezia e agli ultimi anni di vita di Marco Polo. A quel tempo si diffuse l’esibizione degli schiavi tartari che ritroviamo nel testamento dei Polo. Dapprincipio sembrò essere una moda. Ma venticinque anni dopo la morte di Marco Polo, i vuoti causati nella popolazione dalla peste nera del 1348 rendeva più economico il loro impiego rispetto ai servitori liberi, i cui salari erano saliti. Di qui una moltiplicazione di tartari nella città lagunare.
L’importanza per l’economia veneziana della lavorazione della seta divenne tale che nel 1408 il Senato cambiò idea rispetto a una legge di quattordici anni prima che vietava agli operatori israelitici la permanenza in città per più di quindici giorni. Cambiò idea dopo aver preso atto della circostanza che gli ebrei avevano spostato le loro attività nel porto (rivale) di Ancona causando alle casse del Comune veneziano una perdita di sessantamila ducati per le minori entrate daziarie. E concesse ai mercanti ebrei importatori di bozzoli il permesso di risiedere liberamente a Venezia,
Il palazzo di Marco Polo a San Giovanni Grisostomo dove ebbe sede l’Ufficio della Seta divenne il più importante della città quantomeno sotto il profilo economico. Nel 1507 lo stabile fu elevato di un piano per accrescerne la funzionalità. Ma già allora si capiva che ci si sarebbe dovuti trasferire altrove, in un luogo più adatto alle nuove esigenze, molto accresciute, dell’economia della seta. Nel 1591 quando fu ultimato il ponte di Rialto si decise lo spostamento. Fu eletta una commissione per decidere dove. Nel frattempo, all’inizio dell’autunno del 1596 il palazzo di Marco Polo andò a fuoco. Ma ci vollero anni fino a che nel 1602 poté essere inaugurato «con una riunione dei principali mercanti» l’Ufficio Novo della Seta che si affacciava sul Canal Grande e aveva l’ingresso in calle del Gambero. L’ufficio, scrive Molà, «restò nello stesso luogo durante i due secoli della dorata decadenza di Venezia». Fino alla fine della Repubblica nel 1797. Oggi esiste ancora intatto nella sua parte esterna «anche se la sua storia è ignota ai più». Così come sopravvive la vecchia Corte della seta a San Giovanni Grisostomo. A testimonianza di una storia poco conosciuta di Marco Polo, di Venezia. E dell’industria della seta.