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 2025  dicembre 09 Martedì calendario

Intervista a Don Dante Carraro

Faceva il medico, è diventato prete. Le vie del Signore, che non sono mai finite, lo hanno portato trent’anni fa dove andavano e continuano ad andare molti sacerdoti e laici: l’Africa. Don Dante Carraro ha 67 anni ed è il «prete-manager» del Cuamm, che sta per Collegio Universitario Aspiranti e Medici Missionari, oggi semplificato in Medici con l’Africa, il continente «povero» (le sue ricchezze se le sono sempre prese gli altri) dove l’Ong nata nel 1950 a Padova ha inviato migliaia di volontari sui fronti della sanità. Medici e infermieri italiani che portano cure e formano medici e infermieri africani su progetti specifici in Angola, Costa D’Avorio, Etiopia, Mozambico, Repubblica Centrafricana, Sierra Leone, Sud Sudan, Tanzania e Uganda con il seguente esercito del Bene: 3.880 «unità» tra medici e volontari. Un 5.0 dell’internazionale cristiana dello spirito e soprattutto delle opere. Un esercito che ha varcato le frontiere della povertà con forme di sostegno che hanno cambiato i canoni delle tradizionali missioni.
Don Dante, è nato prima il medico o il prete?
«Prima è nato il prete. L’idea mi piaceva fin da piccolo, anche se mia mamma ha fatto di tutto per dissuadermi e inizialmente ci è riuscita: quindi ho scelto il liceo scientifico perché mi piaceva la matematica e ho capito che avrei fatto il medico. Cardiologo, laurea all’università di Padova. Ma nel tempo ho sentito che non ero me stesso, non ero libero. Alla fine ho dato il mio cuore e la mia vita al Signore».
E la mamma come la prese?

«A mia mamma non piacevano i preti, la fede sì ma non i preti. Ha fatto di tutto per bloccarmi: se il parroco mi dava 30 lire per fare il chierichetto lei me ne offriva 50 per stare a casa.
Alla fine fu lei stessa a portarmi in seminario ma mi mostrò i posti più brutti, anche se c’erano i campi di calcio. Vinsi io».
A proposito di calcio, ce l’aveva «il piede»?
«Eccome, me la cavavo bene. Ero un dieci. Facevo gol e i rigori li battevo io...».
Ma con chi giocava?
«Con la squadra del paese, in provincia di Padova, anche se avevo avuto richieste di società più importanti. Però frequentavo Medicina e dovevo studiare. Mollai».
Come si dice in gergo calcistico, lei era «un ’58», nel senso di nato nel 1958. Se le dico Sarti, Burgnich, Facchetti...?
«Sììì. Sono un interista fortemente convinto. Agli altri chierichetti dicevo che anche Gesù era nerazzurro...».
Perché scelse Medicina?
«Io sono appunto del ’58, e il ’68 è stato l’anno in cui ammazzarono Robert Kennedy e Martin Luther King, figure che mi affascinavano tantissimo. A 13 anni avevo le registrazioni dei discorsi di Martin Luther King: sentivo una grande forza in quello che diceva e comunicava un senso di giustizia che mi sono portato dentro fino alla fine del liceo. Tradotto, volevo fare qualcosa a favore dei poveri».
Prima di fare il prete ha avuto una vita sentimentale? Una fidanzata?
«Una? Beh, anche più di una...».
Ma una «seria»?
«Sì, al quarto anno di liceo. Stavamo sempre insieme, è durata un anno e mezzo. Anni dopo è morta in un incidente stradale. Di lei conservo un ricordo carico di affetto».

Quando decise per il sacerdozio?
«Al sesto anno di medicina, fra un grande trasporto spirituale e l’indecisione, ho fatto un gesto di fiducia nel Dio in cui credevo. Facevo la mia vita, mi sono laureato, ho fatto il militare, ho iniziato Cardiologia ma sapevo che dopo avrei fatto altro».
Da chi fu fondato il Cuamm?
«Lo fondò nel 1950 Francesco Canova, un medico vicentino figlio di operai della Marzotto. Che storia! Si laurea nel 1933, parte per l’Africa nel ’35, sta via 12 anni e torna nel ’47. L’Italia è distrutta dalla guerra e si inventa il Cuamm, un collegio dove vengono ragazzi africani che diventano medici per poter servire il loro Paese. Un visionario, una potenza. Un missionario laico. Convinse l’allora vescovo di Padova, Monsignor Bortignon, a radicare il Cuamm nella diocesi di Padova. Una tradizione continuata fino a oggi con la reggenza di monsignor Claudio Cipolla e che ha come direttore un prete. Il primo, dal 1955, fu monsignor Luigi Mazzucato, dal 2008 il testimone è passato a me».
Ma cosa ha di particolare il Cuamm rispetto a tante altre organizzazioni?
«Io dico sempre, quando apriamo una zona nuova in Africa: when we start we stay. Quando iniziamo in un posto ci stiamo fino a missione compiuta. Siamo molto attenti ad essere medici “con” l’Africa rispetto a essere medici “per” l’Africa. Vogliamo condividere un tratto di cammino insieme con queste comunità, con le persone che soffrono e patiscono, che fanno fatica, in zone dove non c’è acqua, non c’è luce, non c’è assistenza sanitaria, la scolarizzazione è bassa, non c’è energia. Io formo te, ma tu insegni tante cose a me che io non conosco di quella comunità, di quella cultura, si cresce insieme e questo fa la differenza perché questo fa crescere anche queste comunità».
Per questo Mattarella vi premia? Il presidente della Repubblica l’ha anche nominata commendatore... Cos’ha visto in voi?
«Io credo proprio quello che ha detto quando è venuto sabato 22 novembre in Fiera a Padova per i 75 anni del Cuamm. “75 anni di crescita in comunità, in territori svantaggiati dell’Africa – ha detto – sono un valore per tutta l’Italia, di cui siete straordinari ambasciatori. Ha un grande significato ciò che il Cuamm esprime per contrastare guerre e conflitti, alimentati dalla paura”. Credo che abbia riconosciuto questo in noi perché anche l’Africa ha guerre di cui nessuno parla».
L’Africa è il continente del futuro?
«Ne sono fermamente convinto. Primo perché noi siamo vecchi e loro sono giovani. Secondo perché noi stiamo diminuendo e loro sono tanti. Quindi conviene diventare amici. Mattarella ha detto che dobbiamo costruire un continente verticale. Mi ha colpito. Cosa vuol dire? Che al nord c’è una regione di 500 milioni di abitanti, al sud un’altra un po’ più grossa, di un miliardo e 400 mila, in mezzo un laghetto che è il Mediterraneo e questo continente deve imparare a costruire un futuro insieme. Lo vediamo con le nostre esperienze. Abbiamo una rete di 35 sedi universitarie italiane con cui collaboriamo. Da qui vengono tanti giovani medici che partono e stanno via per periodi dai 6 ai 12 mesi. Noi possiamo dare molto a loro e loro a noi. In Italia mancano 50.000 infermieri, in Africa se ne formano molti che non trovano lavoro: in un continente verticale ne guadagneremmo tutti...».
Lei da prete manager dice ancora Messa?
«Ogni giorno. Magari la dico da solo perché mi capita a volte di essere sperduto in un ospedaletto africano. A volte anche in aereo, pensando che la sto dicendo alla comunità, al mondo...».
A proposito di Messa: le chiese sono semivuote, i locali della movida pieni...
«Ecco, su questo il continente verticale potrebbe aiutare. Io vado alle messe africane dove c’è forza, vitalità. Canti, balli, tamburi: c’è vita. Noi invece, a volte abbiamo delle eucarestie dove la gente è più preoccupata a non prendere sonno che a partecipare...».
La Chiesa sta dove c’è povertà e meno dove c’è la ricchezza...
«Per certi aspetti sì, o comunque la povertà ti provoca di più, rischiamo di prendere sonno perché siamo troppo adagiati e abbiamo la pancia piena, e con la pancia piena si dorme di più...».
Don Dante, chi sono i veneti? Sergio Saviane anni fa diceva che hanno la «fame vecia» e che l’uscita dalla povertà ha portato troppa ricchezza e molte contraddizioni. O è un luogo comune da aggiornare?
«Sì, veniamo anche noi dalla povertà in qualche maniera. Io credo che dovremmo recuperare la dimensione buona della fame. Penso ai nostri giovani, noi dobbiamo recuperare questa “fame vecchia” nello studio, nella fatica, nel lavoro, altrimenti siamo morti».
Il Veneto ha ancora un grande valore: il volontariato.
«Verissimo. Noi abbiamo avuto oltre duemila volontari che sono partiti, ma non per un mese, due mesi, tre mesi, per due anni, tre anni in Africa...».
E poi c’è chi aiuta il Cuamm.
«Sì, in molti. Fra questi c’è l’imprenditore titolare di Grafica Veneta, Fabio Franceschi, fra l’altro mio cugino acquisito, sempre pronto a darci una mano. E poi c’è lui...».
Lui chi?
«Il mio grande presidente, Massimo Moratti. Ci aiuta molto e soprattutto ci ha finanziato l’apertura dell’Inter Club Kayunga, il primo in Africa...».