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 2025  dicembre 08 Lunedì calendario

Storia del ghiaccio

Libro in gocce
Max Leonard
Le vie del freddo
Storia del ghiaccio e della civiltà
Introduzione
Secondo la mitologia norrena contenuta nell’Edda in prosa, il mondo ebbe inizio quando il ghiaccio incontrò il fuoco nel vuoto primordiale. La continua presenza del ghiaccio nell’Antico Testamento potrebbe essere una traccia della memoria popolare del trauma dell’Era glaciale. Il ghiaccio rimane miracoloso nel cristianesimo, quando san Sebaldo, nel VIII secolo, fa il miracolo di accendere il fuoco con un ghiacciolo.
Circa 650 milioni di anni fa la Terra era tutta ricoperta di ghiaccio. Con l’effetto serra, da allora il ghiaccio è stato completamente assente per circa l’85% del tempo. La temperatura di oggi, che permette i tre stati dell’acqua è praticamente un miracolo.
Capitolo I
Per più di 2 milioni di anni, periodi glaciali più freddi – con il ghiaccio diffuso in entrambi gli emisferi – si alternarono a periodi di temperature più alte e poco ghiaccio, chiamati «interglaciali». L’ultimo periodo glaciale iniziò circa 115 000 anni fa (115 Ka) e l’ultimo massimo glaciale (quando la copertura glaciale raggiunse la sua massima estensione) si verificò tra 26,5 e 19 Ka; poi, intorno a 11,7 Ka, la Terra entrò nel periodo interglaciale in cui stiamo tuttora vivendo.
Le aree in cui le specie e gli habitat sopravvivevano durante le dure glaciazioni – ambienti relativamente sicuri – sono chiamate refugia.
La divisione in più specie a partire da un antenato comune, valida per i ricci europei, gli orsi polari, e la specie Homo (divisa in Neanderthal e Sapiens) è frutto dell’evoluzione particolare avvenuta in questi refugia isolati.
Il ghiaccio determinava in quali zone era possibile andare. L’Inghilterra era collegata ai Paesi Bassi da un’area di tundra nota come Doggerland. Il primo Homo sapiens che raggiunse l’Inghilterra ci andò semplicemente a piedi. Allo stesso modo, esisteva un ponte terrestre tra la Siberia e l’Alaska, oggi noto come Beringia, che permise a piccole popolazioni di esseri umani moderni di arrivare nelle Americhe dalla Russia orientale.
Lo scioglimento dei ghiacci e la conseguente avanzata dei mari potrebbe aver sommerso una quantità enorme di reperti dell’Era glaciale. È il caso della grotta Cosquer, vicino a Marsiglia, scoperta nel 1985 da un subacqueo. La gran parte della caverna è finita sott’acqua, ma si è salvata una stanza affrescata che la rende importantissima per l’arte preistorica.
Molto probabilmente l’estinzione dei Neanderthal è stata una conseguenza del picco dell’Era glaciale: il loro metabolismo, basato su uno stile di vita incredibilmente attivo alimentato da grandi quantità di carne sarebbe stato sopraffatto dall’abbassamento delle temperature e quindi dalla scarsità di cibo.
Freud, in un articolo mai pubblicato del 1914-15, sostenne che l’avvento dell’Era glaciale sarebbe stato un trauma enorme, vissuto come la cacciata dall’Eden, e avrebbe originato tutte le nevrosi moderne
L’invenzione dell’ago fu una reazione tecnologica all’intensificarsi del freddo prima del raggiungimento dell’ultimo massimo glaciale. Usati per confezionare indumenti dalle pellicce animali. I cacciatori se li portavano dietro nelle battute di caccia più lunghe.
A giudicare dall’aspetto degli animali ritratti, le pitture rupestri sarebbero in realtà un calendario delle stagioni riproduttive e delle nascite, con tanto di date. Permetteva di stabilire il momento più adatto per la caccia. È un esempio di memoria esosomatica.
Capitolo II
Negli anni Cinquanta, il paleoclimatologo danese Willi Dansgaard teorizzò che fosse possibile utilizzare la composizione isotopica del ghiaccio come misura indiretta delle temperature globali al momento del congelamento (…) ottenne la prima dimostrazione della validità della sua idea nel 1952, analizzando l’acqua piovana raccolta in bottiglie di birra nel suo giardino.
Combinando i dati sulla temperatura ricavati dalle “carote di ghiaccio” con informazioni sulla composizione dell’atmosfera negli stessi periodi, estratte dalle minuscole bolle d’aria intrappolate nel ghiaccio, si riesce a stabilire un legame tra i gas atmosferici e la temperatura.
L’archeologia glaciale era una branca così poco conosciuta che il nome della disciplina fu coniato solo nel 1968 e venne utilizzato per la prima volta in un giornale studentesco.
Grazie al ghiaccio che ha preservato la mummia dell’uomo di Similaun in Val Venosta per 5000 anni, assieme ai suoi oggetti, sappiamo com’era vestito ed equipaggiato; il suo stato di salute; cosa aveva mangiato; dove era stato nelle ultime ore e come era stato ucciso. Ma non sappiamo il perché. È il cold case definitivo.
Le mummie rinvenute nei tumuli coperti dai ghiacci della tundra siberiana hanno permesso agli archeologi di ricostruire la cultura di una tribù semisconosciuta di pastori nomadi, i Pazyryk. Il ritrovamento principale è stato quello della tomba della «principessa di Ukok», una donna di cui è stato rinvenuto non solo il corpo, ma anche tutto il corredo funebre.
Seppellire un corpo nel ghiaccio è molto difficile: per questo i ritrovamenti sono rari e casuali, legati alle circostanze anomale in cui era sopraggiunta la morte di individui estranei alle comunità locali. Come l’alpinista Mallory, ritrovato sull’Everest nel 1999, 75 anni dopo la morte. O i bambini incas sacrificati agli dèi.
Capitolo III
La Crisi del Seicento aveva tra le cause la Piccola Era glaciale. Si potrebbe dire che il ghiaccio e quindi la fame abbiano abbattuto il feudalesimo (e scatenato la colonizzazione).
Le cronache seicentesche riportano, in tutto il mondo, descrizioni di inverni rigidissimi. Nel 1626, in Germania meridionale. dopo una grandinata seguita da temperature polari vengono giustiziate oltre 900 persone accusate di stregoneria.
Le prime tracce di pattinaggio sul ghiaccio risalgono al 2000 a.C., e sono rintracciabili in Finlandia e in Ungheria. Le lame dei primi pattini erano ricavate dalle ossa delle zampe delle mucche o dei cavalli. Il loro utilizzo, finalizzato allo spostamento nelle aree pianeggianti, richiedeva l’uso di bastoni per sostenersi.
Nonostante la grande popolarità che i pattini riscossero in Cina (dove venivano utilizzati anche per scopi militari) nel corso dei secoli, furono gli olandesi a introdurre per primi le lame metalliche all’inizio del ‘500, creando una forma d’intrattenimento di massa e un soggetto molto popolare per gli artisti (Bruegel, Avercamp).
Il colf, antenato più prossimo del golf, si praticava nei Paesi Bassi a partire dal XIV secolo. Sebbene non fosse obbligatorio giocare sul ghiaccio, per motivi di praticità era uno sport quasi esclusivamente invernale.
A causa del terribile freddo invernale della Piccola glaciazione il Tamigi si congelava spesso, con un impatto enorme per le attività cittadine (e per ispirare gli intellettuali). Ogni volta che il fiume rimaneva solidificato abbastanza a lungo, si organizzava una «fiera del ghiaccio», un carnevale al gelo (ultima edizione 1814).
Capitolo IV
A partire dall’inizio del ‘500 comincia in Europa una costosissima ossessione per cercare di raggiungere l’estremo Oriente passando da Nord. Il primo a tentare il viaggio cercando un passaggio a Nord-Est è il veneziano Giovanni Caboto nel 1497, morendo nell’impresa. A un certo punto il focus si sposta sulla pura esplorazione e sulla sfida al ghiaccio di per sé, come testimoniano i tentativi dei cartografi di “riempire le mappe”
L’esplorazione era «il risultato di compromessi tra banchieri e sognatori, portato avanti da piloti tenaci e sagaci e da equipaggi pieni di risorse».
Tra i vichinghi dell’XI secolo e le tensioni di oggi per il controllo dell’Artico (passando per una sequela di spedizioni esplorative fallite con centinaia di morti a partire dal ‘500), c’è un filo rosso: la criopolitica. Una geopolitica capitalista che dà vita a un criocommercio e a una criocompetizione.
Capitolo V
Dalle esplorazioni nasce un «atteggiamento eroico» nei confronti dei ghiacci artici: un incontro tra il terrore e la meraviglia, tra morti orrende e bellezza di terre aliene in cui si trovano i corni degli unicorni (anche se erano solo narvali). Solo dopo la Rivoluzione scientifica ci si interessa al ghiaccio come materia.
I cinesi sanno che i fiocchi di neve sono esagonali già nel 135 a.C. In Occidente occorre attendere la «Strenna sulla neve esagonale» di Keplero del 1611. Keplero intuisce che la forma è una diretta conseguenza della struttura non visibile del ghiaccio. La conferma arriva dal microscopio di Robert Hooke nel 1665: ammirato, dice che «la perfezione geometrica era la prova della mano di Dio nel mondo».
La ricerca per la comprensione di cosa sia il freddo è stato il focus di decenni di studi e di centinaia di esperimenti di Robert Boyle che nel 1665 pubblica New Experiments and Observations Touching Cold, in cui affronta con metodo scientifico e strumentazione tecnica lo studio del ghiaccio.
All’accademia del Cimento di Firenze si sperimenta rompendo spesse sfere di ottone tramite il congelamento dell’acqua al loro interno.
Le indagini si concentrano sulla teoria corpuscolare del ghiaccio: esso deve essere freddo perché privo delle particelle di calore. Un’intuizione di Boyle che esclude proprietà immanenti nel ghiaccio.
Il ghiaccio si forma in seguito all’unione delle molecole d’acqua in reticoli tetraedrici regolari attraverso un processo chiamato «legame a idrogeno», in cui gli atomi di idrogeno con carica positiva in una molecola d’acqua sono attratti dagli atomi di ossigeno con carica negativa in altre molecole d’acqua. È un processo che può avvenire solo a bassa temperatura.
Nel Settecento e nell’Ottocento si riteneva ancora che l’acqua di mare non potesse congelare: il capitano Cook aveva osservato che gli iceberg erano composti da acqua dolce.
Il New Experiments and Observations Touching Cold è un best-seller, perché Boyle fa spesso riferimento al problema annoso del ghiaccio per uso alimentare, sperimentando con il congelamento dei cibi.
Capitolo VI
La pagofagia è la compulsione a mangiare ghiaccio o alimenti ghiacciati e, in senso non patologico, è un desiderio a cui cediamo da sempre.
DA QUI
Le più antiche testimonianze dell’esistenza di ghiacciaie provengono dalla Mesopotamia e risalgono all’inizio del II millennio a. C. Vi si pressava la neve portata dai monti finché essa non diventava ghiaccio. Il quale era molto richiesto per raffreddare le bevande dell’élite, oltre che per scopi sacri. Queste pratiche arrivarono in Occidente in seguito alle conquiste greco-romane.
I patrizi romani avevano uno strumento simile a un colino per il tè chiamato colum nivarium, un contenitore forato per il ghiaccio, spesso in argento, attraverso il quale veniva versato il vino. Era necessario che il ghiaccio o la neve fossero di altissima qualità.
Con la caduta dell’Impero l’uso del ghiaccio si perse fino al Rinascimento, di nuovo portato dall’Oriente. A Firenze si preparavano numerosi piatti a base di ghiaccio. Come il sorbetto, dal persiano sharbat, che significa «bevanda analcolica zuccherata».
Schiere di intellettuali (da Plinio fino alla fine dell’Ottocento) criticheranno la pretesa degenerata di dominare la natura, conservando il freddo in estate: nulla di più opulento che servire bevande ghiacciate durante la calura estiva. Nelle residenze di campagna dei ricchi inglesi settecenteschi avere la ghiacciaia era uno status symbol.
Il mercato del ghiaccio divenne fondamentale in Europa, generando sistemi economici, politici e sociali. All’inizio del Settecento, il commercio di neve raccolta sull’Etna e su alcune montagne intorno a Napoli era controllato da banditi, che gestivano racket di protezione anticipando quelli della Camorra.
Il ghiaccio che proveniva dalla Groenlandia, Norvegia e Islanda era puro e trasparente e quindi il più ricercato, con una fiorente industria specializzata (continuava a usare navi a vela, in legno, anche nell’Ottocento, per evitare contaminazioni con la ruggine).
Il commercio di ghiaccioli e gelati in Inghilterra era una specialità molto proficua dei commercianti italiani.
Produzione artificiale del ghiaccio prima del frigorifero. In Persia: In condizioni normali, l’acqua liquida perde calore soprattutto attraverso l’evaporazione: in quel momento, le molecole che sfuggono traggono energia dall’ambiente circostante, raffreddando l’acqua rimasta. Invece in condizioni di estrema aridità, quali per esempio quelle del deserto persiano, grandi quantità di calore vengono disperse nell’atmosfera attraverso la radiazione, e il raffreddamento dell’acqua viene accelerato. Per trarne vantaggio, i Persiani costruivano nel deserto grandi bacini poco profondi riforniti da canali sotterranei oppure riparati dal sole da grandi pareti. Durante la notte, il raffreddamento radiativo agiva sui pochi centimetri d’acqua esposti all’aria e, anche se la temperatura dell’aria non scendeva al di sotto dello zero, al mattino in cima alla pozza si formava uno strato di ghiaccio. (…) Invece in India, nell’Ottocento, al calar del sole si ponevano delle bacinelle di terracotta piene d’acqua sul fondo di lunghe buche piatte scavate nel terreno e poi, dopo la frescura notturna (anche in questo caso, a causa delle particolari condizioni atmosferiche non era necessario che la temperatura scendesse al di sotto dello zero), si prelevava il sottile strato di ghiaccio che si era formato e lo si trasferiva in una ghiacciaia, dove veniva conservato in sacchi avvolto da foglie di vite.
L’ossessione inglese per il ghiaccio venne portata nelle colonie indiane, tentando di produrlo in loco. Da lì contagiò gli americani, che avevano trovato, nella prima metà dell’Ottocento, il modo di trasportarlo e venderglielo, generando un traffico enorme. Pochi decenni dopo Mark Twain osservò: «L’unico tratto distintivo del carattere americano che sono riuscito a scoprire è la passione per l’acqua ghiacciata».
Il commercio del ghiaccio rivoluzionò il consumo americano degli alcolici, creando una cultura del bere sempre più barocca e complessa che si diffuse all’estero. La disponibilità permanente del ghiaccio rese popolare le birre lager e pilsner, che richiedevano una fermentazione a bassa temperatura.
Il traffico dura pochi decenni: la produzione artificiale presto lo soppiantò. Il ghiaccio di produzione artificiale, anche se sulle prime non tanto bello a vedersi, iniziò a essere fabbricato in grandi quantità negli ultimi decenni dell’Ottocento e ben presto divenne abbondante ed economico. Il primo ghiaccio prodotto artificialmente a est di Suez veniva utilizzato dalla Marina britannica per raffreddare le torrette.
Capitolo VII
L’uso del ghiaccio per la conservazione alimentare probabilmente risale alla preistoria, quando gli uomini delle caverne si accorsero che la carne di mammut durava di più se tenuta in fondo alle grotte. Ma è solo in un secondo momento che l’idea del ghiaccio come conservante supera per importanza quella di una prelibatezza aristocratica da consumare.
Perché l’uso del ghiaccio per conservare gli alimenti non prese piede prima in Gran Bretagna e in Europa? La mia ipotesi migliore è che, nella maggior parte dei luoghi, quando c’era ghiaccio non c’era un’abbondanza di cibo da conservare e quando c’era cibo fresco – frutta, verdura, carne – in genere non c’era ghiaccio.
L’industrializzazione della pesca tramite il ghiaccio è un’invenzione cinese. Si costruivano ghiacciaie lungo le coste, e il ghiaccio accompagnava il pescato dalla cattura (nelle stive) al trasporto (sui carri). I depositi venivano riempiti durante l’inondazione delle risaie in inverno. La procedura cinese venne copiata alla fine del Settecento dai pescatori di salmone scozzesi
Per quanto riguarda l’uso domestico inglese, il ghiaccio cominciò ad essere impiegato come conservante solo nella prima metà dell’800. Le ghiacciaie in campagna diventano molto lentamente dei depositi alimentari, sostituendo gradualmente l’idea di conservare il ghiaccio solo per il gelato e per raffreddare le bevande. Prima i commercianti preparavano la merce di notte, al fresco, che veniva consumata in giornata.
Nel 1802, un agricoltore del Maryland di nome Thomas Moore creò una ghiacciaia, un armadietto con intercapedine isolante, per mantenere il burro fresco durante il trasporto al mercato. Dapprima Moore chiamò la sua innovazione refrigeratory, ma nella domanda di brevetto che presentò l’anno successivo eliminò la «y», coniando la parola che conosciamo oggi, refrigerator («frigorifero»).
Negli anni Quaranta dell’Ottocento, negli Stati Uniti in molte abitazioni della borghesia cittadina era ormai presente un frigorifero, un contenitore di legno isolato con sughero o zinco, con uno scomparto per il ghiaccio nella parte superiore progettato per adattarsi ai blocchi standardizzati consegnati dai produttori di ghiaccio della città. Da quella parte dell’Atlantico si pensava che il Vecchio Mondo fosse arretrato: «Il ghiaccio e un’istituzione americana – il suo uso un lusso americano– il suo abuso un difetto americano», affermava nel 1855 un giornalista su una rivista (americana)
Sulla costa Orientale americana, per ovviare al problema delle lunghe distanze e soddisfare la domanda alimentare del boom demografico, l’uso del ghiaccio per il trasporto ferroviario divenne imprescindibile, soprattutto per il trasporto della carne: gli animali vivi perdevano troppo peso. Con l’invenzione dei vagoni refrigerati il tempo e lo spazio venivano quasi annullati: il dove e il quando non contavano più. L’accresciuta importanza della ferrovia comportò il colpo di grazia colonialista agli indigeni.
Il primo a produrre il freddo con una procedura meccanica fu uno scozzese di nome William Cullen, che nel 1741 mise un po’ di etere dietilico sotto vuoto parziale; quando l’etere liquido si depressurizzò e divenne gassoso, fece abbassare la temperatura circostante, creando anche del ghiaccio, ma Cullen non esplorò le possibilità pratiche del suo risultato.
Nel corso del secolo successivo vennero compiuti vari esperimenti, combinando l’idea di usare un refrigerante come quello di Cullen con le possibilità offerte dai motori a vapore. Negli anni Quaranta dell’Ottocento, il medico americano John Gorrie, alla ricerca di una cura per la febbre gialla e la malaria, crea una macchina basata sull’aria compressa per conservare il ghiaccio necessario a mantenere un microclima favorevole per i febbricitanti. Il sistema non cura la malattia, ma Gorrie si rende conto delle applicazioni e nel 1847 pubblicizza il sistema. Viene schernito, contrastato e diffamato, morendo in povertà.
I pionieri come Corrie ebbero difficoltà nel dimostrare l’applicazione commerciale delle macchine, a superare le obiezioni di chi trovava sacrilego produrre artificialmente un elemento naturale e di chi trovava il ghiaccio artificiale più scadente, brutto, inaffidabile di quello naturale. La svolta arriva con la Guerra Civile americana, e la necessità dei sudisti di conservare il cibo senza poter accedere ai laghi del Nord.
Il concetto di catena del freddo nasce per opera del vulcanico imprenditore inglese Thomas Sutcliffe Mort, che negli anni ’70 dell’Ottocento si trova a dover risolvere il problema di trasportare il burro (e poi la carne) di pecora dall’Australia fino in Inghilterra. Finanzia la progettazione di un impianto di refrigerazione attiva a bordo della nave. Morirà prima del completamento del progetto, ma l’idea, con qualche insuccesso, si rivelerà giusta.
Capitolo VII
Strabone (63 a. C. – 23 d. C.) ipotizzò correttamente che i ghiacciai fossero masse di ghiaccio formate da strati su strati di neve. A quanto pare, nel corso dei millenni questa conoscenza andò perduta. Leonardo da Vinci, per esempio, pensava che i ghiacciai fossero formati da «grandine non sciolta che si accumula durante l’estate». Per molto tempo l’ipotesi più diffusa era stata che il ghiaccio fosse una montagna e che le montagne fossero, in un senso importante, ghiaccio, come segnalavano nel modo più chiaro i cristalli che si potevano trovare scavando sotto la superficie. (…) A metà del Seicento una credenza simile era ancora talmente diffusa che Thomas Browne nella Pseudodoxia epidemica, il suo grande catalogo di errori, ritenne opportuno scrivere: «L’opinione comune è stata, ed è tuttora tra noi, che il cristallo non sia altro che ghiaccio o neve diventati consistenti e, con il passare del tempo, solidificati oltre la liquefazione».
Le errate interpretazioni e le false credenze in relazione alle montagne e al ghiaccio tendevano all’irrazionalità e alla paura. Un nome alternativo per il Monte Bianco era «La montagne maudite» (la montagna maledetta) e in tutte le Alpi si raccontano storie locali di draghi, fantasmi, demoni e sacerdoti senza testa, come se la vicinanza al ghiaccio infettasse l’aria e la mente. (…) «Ogni volta che il vescovo visitava queste zone, la gente lo pregava di andare a esorcizzare e benedire queste montagne di ghiaccio
Nel 1742 l’ingegnere e matematico Pierre Martel raggiunge la vetta del Monte Bianco con l’occorrente per fare delle misurazioni scientificamente rigorose. Smentì il mito del cristallo e determinò, con buona precisione, l’altezza della montagna.
Comincia una lunga passerella di importanti personaggi dei secoli successivi: Goethe visitò il Montanvert nel 1779 e Chateaubriand nel 1808.
Con l’aiuto di sessantotto guide e otto portatori, Joséphine de Beauharnais, appena divorziata da Napoleone Bonaparte, raggiunse la vetta nel 1810. E nel 1814 Maria Luisa d’Austria, seconda moglie di Bonaparte, vi si recò in visita, viaggiando leggera con sole diciotto guide – come se fosse una gara – mentre l’Incubo d’Europa scontava l’esilio all’isola d’Elba. Nel 1816 fu la volta di Mary Wollstonecraft Godwin. La Mer de Glace le fornì l’ispirazione necessaria per dare vita a Frankenstein.
Le sensazioni che Mary e Percy Shelley erano venuti a cercare sul ghiacciaio – una mescolanza di meraviglia e terrore caratteristica del sublime, quel sentimento esaltato e tuttavia inquietante di fronte all’insormontabile grandezza della natura, molto in voga tra i Romantici
Con il passare del tempo, i viaggi degli artisti e degli intellettuali romantici rendono sempre più popolare la visita sui ghiacciai, che vengono quindi “addomesticati”, perdendo la loro aura mistica e diventando il perno di una vera e propria industria: quella turistica.
Presto il turismo di massa prende il sopravvento sull’attrazione di per sé: i ghiacciai arretrano sia fisicamente che metaforicamente; un duplice moto perfettamente osservabile tramite l’esame parallelo dei primi ritratti ad acquerello, dipinti con mano ammirata e timorosa, e delle cartoline kitsch.
Anche gli scienziati frequentavano le vette ghiacciate, alla ricerca di risposte che solo un contesto quasi alieno come quello poteva fornire. Pasteur fece esperimenti sulla diffusione dei microbi ad alta quota, mettendo la parola fine al concetto di generazione spontanea.
Sul ghiacciaio del Monte Bianco, si consumò una acrimoniosa sfida accademica tra i fisici James David Forbes e John Tyndall. Oggetto del contendere era il moto dei ghiacciai: era quello proprio di un fluido viscoso (ipotesi rivelatasi corretta) o un processo ripetuto di scioglimento, ricongelamento e di nuovo scioglimento. La fatica intellettuale si univa a quella fisica dell’ascesa, rendendo il confronto con il ghiaccio irresistibile per la mentalità ottocentesca.
A partire dalla metà dell’Ottocento le vette ghiacciate divennero oggetto dell’attenzione di un’ulteriore categoria: quella degli alpinisti. Spesso inglesi, e spesso di classe media o alta, gli alpinisti apprezzavano gli aspetti estetici e cerebrali dell’esperienza, ma venivano soprattutto per la sfida fisica – un approccio legittimato dalla fondazione dell’Alpine Club, la prima associazione alpinistica del mondo, nel 1857.
La vetta del Monte Bianco venne raggiunta nel 1786, e per molti anni rimase la sola, tra le più alte delle Alpi, a essere stata conquistata. Tra il 1854 e il 1880, tuttavia, alcuni scalatori inglesi raggiunsero diciassette delle rimanenti venti vette più alte delle Alpi. Perché furono gli inglesi e non altri a primeggiare in questa impresa? In parte, sospetto, a causa delle loro inclinazioni romantiche e capacità scientifiche, nonché di una specie di avidità territoriale legata al periodo di massimo splendore dell’Impero. Nel complesso, un insieme di sentimenti tipicamente vittoriani.
Gli interessi degli alpinisti per il primato, ma anche per la fisiologia e la scienza degli estremi presto soppiantarono un approccio iniziale fatto di curiosità e di timore reverenziale in direzione di una ricerca dei limiti delle facoltà umane. Chi scala non lo fa più per amore del sapere, ma per l’avventura. Forse un moto inconscio di liberazione dai lacciuoli della società vittoriana, oppure di attualizzazione corporea della rapidità con cui la tecnologia stava rivoluzionando il mondo.
La sfida al limite ha sin dall’inizio dei connotati machisti, che formano una metageografia dei ghiacciai come luogo di eroismo virile, propagandato da club alpinistici che erano e desideravano rimanere per soli uomini. Alle donne è riservato unicamente il turismo nelle località e alle quote più civilizzate.
L’alpinismo diventa l’ennesimo campo di battaglia in cui si svolge la lotta dei sessi. Oltre ai soliti problemi sociali della condizione femminile, le donne vengono giudicate dall’alpinismo maschile come semplici turiste, e per questo viene loro sbarrata la strada delle scalate più ardite. Ciononostante le alpiniste sono sempre una presenza costante. I loro diari sono molto diversi da quelli maschili: asciutti, precisi, niente iperboli né millanterie. L’ascesa e la solitudine della vetta sono spesso un’occasione e una trasposizione del desiderio di libertà.
Capitolo VIII
Nel 1799 un cacciatore di una tribù nomade della regione siberiana della Jacuzia, di nome Ossip Schumachov, scopre la prima carcassa congelata di mammut nel delta del fiume Lena. Quattro anni dopo la notizia arriva alle orecchie di Mikhail Adams, assistente di zoologia all’Accademia delle Scienze di San Pietroburgo, che recupera lo scheletro dell’animale e annuncia al mondo il ritrovamento.
Wilhelm Tilesius, l’uomo che rimise insieme le ossa di Adams, scrisse: «Secondo diversi autori, il termine “Mammut” è di origine tartara e deriva da mama, che significa Terra. Secondo altri, deriva da behemoth, citato nel Libro di Giobbe, o da mehemoth, un epiteto che gli arabi aggiungono comunemente alla parola elefante per designare un esemplare molto grande.
Il permafrost aveva consentito la conservazione di migliaia di tonnellate di avorio contenuto nelle zanne, che venne commerciato prima con gli antichi cinesi, che lo usavano in medicina (IV secolo a.C.), poi sempre più verso Oriente, arrivando in Europa nel X secolo. i siberiani (e i cinesi) pensavano che le zanne appartenessero a una specie di roditore sotterraneo.
Dal primo Settecento e nell’Ottocento i resoconti dei resti di mammut siberiani animavano i gabinetti zoologici delle accademie europee. Ma prima di Adams le persone non potevano o non volevano comprendere le dimensioni e la forma dell’animale, derubricando le zanne a curiosità locale, come le conchiglie in cima alle montagne. Ma l’evidenza dello scheletro completo lascia sbalordito e completamente impreparato il mondo scientifico.
Prima della metà dell’Ottocento la «preistoria» ancora non esisteva: il primo uso documentato dall’Oxford Dictionary risale al 1836 e la parola fu resa popolare soltanto nel 1865, con il bestseller di John Lubbock, I tempi preistorici e l’origine dell’incivilimento. In precedenza, il concetto non era mai stato necessario: la Bibbia aveva trattato ogni argomento.
Secondo il pensiero cristiano tradizionale, la Terra fu creata in sei giorni (più uno di riposo), con un processo iniziato, secondo una stima piuttosto precisa, alle ore 18 del 23 ottobre 4004 a. C. Si credeva inoltre che le specie animali fossero stabili e immutabili. Tutto ciò che era sbarcato dall’Arca di Noè era ancora sulla Terra. Molto semplicemente, nessun animale si era estinto.
Il ghiaccio, conservando il mammut, cambia la concezione del tempo di allora, così come in seguito ora plasma la nostra. Si assiste alla nascita della paleontologia moderna e dell’idea stessa di preistoria.
Contemporaneamente i geologi ipotizzarono, e poi dimostrarono, che i ghiacciai non erano sempre stati delle stesse dimensioni, ma si erano ritirati nel tempo, spiegando così la morfologia di rocce lontane chilometri, e mettendo in imbarazzo i creazionisti.
Lo zoologo e geologo svizzero Louis Agassiz, pur non avendo coniato l’espressione «Era glaciale», fu il primo a proporre una teoria delle ere glaciali che unificasse questi fenomeni, alla fine degli anni Trenta dell’Ottocento. Un susseguirsi di eventi climatici aveva fatto espandere e ritirare i ghiacciai, modificando la forma dei paesaggi e facendo estinguere specie come i mammut.
I conservazionisti religiosi reazionari, accusarono Agassiz e sostenitori di aver costruito attorno alla calotta glaciale la religione delle élite.
Nel 1859 la massa critica di osservazioni come quelle di Agassiz, unite a quelle costruite su decenni di ritrovamenti di utensili in pietra accanto a ossa di animali preistorici era diventata abbastanza grande da far cambiare orientamento al mondo accademico. Nello stesso anno Darwin pubblica L’origine delle specie e gli scheletri di mammut (che peraltro lo appassionavano da 25 anni) diventano, agli occhi degli studiosi, la prova regina dell’evoluzione tramite sopravvivenza del più adatto.
Capitolo IX
Il ghiaccio come tecnologia medica intreccia malattia, salute, vita e morte in modi inaspettati e spesso raccapriccianti. Inoltre, apre il vaso di Pandora di profonde questioni etiche.
Nel mondo greco-romano il freddo viene considerato alternativamente come origine di malattie (Galeno e Ippocrate) e come cura: la crioterapia per i romani veniva utilizzata per curare febbri, coliche, problemi renali, cancrena e altri disturbi. Con la riscoperta del ghiaccio, un millennio dopo, il dibattito ricomincia.
Le proprietà anestetiche del ghiaccio erano ben note almeno dal Seicento, quando a Napoli chirurghi come il famoso Marco Aurelio Severino applicavano il ghiaccio in strette linee parallele sulla pelle dei pazienti per produrre un intorpidimento superficiale prima di operare. Dopo quindici minuti di pressione delicata, si poteva rimuovere il ghiaccio e tagliare in modo indolore. (Le linee parallele di ghiaccio riducevano il rischio di cancrena).
Nel 1807, sui campi di battaglia ghiacciati della campagna di Polonia era possibile, secondo il capo chirurgo di Napoleone, il barone Dominique-Jean Larrey, amputare un arto se il soldato ferito era sufficientemente congelato.
A metà Ottocento arrivò l’anestesia generale, dove il ghiaccio (ulteriormente raffreddato da una miscela di sali) veniva impiegato in concorrenza al cloroformio e all’etere, troppo imprevedibili e pericolosi. Si scoprì che il ghiaccio era anche in grado di prevenire emorragie catastrofiche. Pioniere della tecnica fu il medico scozzese James Arnott.
Nello stesso periodo il ghiaccio svolgeva un ruolo fondamentale anche nell’anatomia topografica, ovvero quella branca della disciplina che studia il corpo umano come un’unità unica, osservando sezioni di grandi dimensioni. Senza ghiaccio risulta impossibile mantenere rigido il cadavere, pregiudicando quindi l’utilità simulativa dell’anatomia. Prima si usava il gesso o liquidi ad alta gradazione alcolica, ma erano poco efficaci. A sperimentare e divulgare i benefici della tecnica, tra i quali la possibilità di preparare disegni accuratissimi fu il professore di anatomia tedesco Christian Wilhelm Braune.
Capitolo X
Il ghiaccio è stato un grande garante della pace: fino all’inizio del Novecento combattere in inverno era molto difficile, perché attraversare lunghe distanze al gelo era impossibile, come scoprì Napoleone. La guerra richiedeva prossimità. Con la sua industrializzazione e l’evoluzione tecnologica non è più così, e le distese di ghiaccio acquisiscono un valore strategico di per sé, indipendente dal nemico.
Il ghiaccio giocò un ruolo fondamentale durante la I Guerra Mondiale sul fronte della «Guerra Bianca», al confine italo-austriaco, sulle Dolomiti a 4000 metri d’altezza. Di gran lunga meno letale dei conflitti in pianura, ma a suo modo più spettacolare e più inutilmente disumano. Una disperata e trascendentale situazione di stallo lunga 3 anni. Il gelo, il congelamento, le malattie e le valanghe fecero più morti delle azioni nemiche: fino a 2/3 del totale.
Gli austriaci, nel 1916, costruirono la Eisstadt («città di ghiaccio») sotto il ghiacciaio della Marmolada: 12 chilometri di gallerie, a una profondità massima di 50 metri al di sotto della superficie del ghiaccio, con una manutenzione e un adattamento costanti a causa degli spostamenti del ghiacciaio attorno e al di sopra.
Nella Germania nazista il ghiaccio e la neve assunsero un ruolo fondamentale nella propaganda: il pensiero völkisch era caratterizzato da un particolare anelito alla purezza naturale, culturale e «razziale» delle montagne, guardando alle Alpi come una patria, la base primigenia da cui partiva l’anelito al Lebensraum. L’alpinismo tedesco diventa megafono della propaganda e della superiorità atletica della razza bianca. Vengono concepite persino delle teorie esoteriche concernenti una sorta di Atlantide nordica, sparita sotto la neve dell’Era glaciale, da cui proverrebbe la razza ariana, e quella del «ghiaccio cosmico», una cosmogonia per cui l’universo nascerebbe dallo scontro tra una stella piena di ghiaccio con un’altra (un’alternativa ariana alla «fisica ebraica»). Himmler fondò un ente di ricerca apposito, l’Ahnenerbe, «Società di ricerca dell’eredità ancestrale».
Sul fronte angloamericano, il ghiaccio rappresentò il perno per due progetti non concretizzatisi, opera del geniale e folle inventore Geoffrey Pyke. Il primo, con il nome di «progetto Plough» consisteva in un’operazione di guerriglia in Norvegia, dove delle slitte meccanizzate, piccole e veloci, avrebbero compiuto azioni di disturbo correndo sulle distese ghiacciate del paese, e costringendo i tedeschi a impegnare più truppe per sorvegliare il territorio. La seconda idea era quella di creare degli iceberg artificiali che fungessero da portaerei per il contrasto ai terribili U-boot nell’Atlantico. Il piano, denominato «Habbakuk», riscosse l’entusiasmo del comando inglese, che dette il via libera alla sperimentazione di una polpa di legno studiata apposta per isolare e indurire il ghiaccio: la pykrete. Sebbene il materiale funzionasse, permanevano perplessità sulla praticabilità delle «bergship», e con l’evolversi della guerra la loro costruzione divenne superflua.
Nel 1959 l’esercito statunitense stazionato in Groenlandia cominciò a lavorare a Camp Century, una base di ricerca scientifica militare che, in base al progetto proposto, sarebbe esistita quasi interamente sotto la superficie del ghiaccio. Il progetto venne completato, e i 3 chilometri di tunnel che componevano la base divennero operativi con l’installazione di un mini reattore nucleare per fornire l’energia necessaria. Sebbene il personale di Camp Century abbia effettivamente contribuito alla crioricerca, l’intimità concettuale tra la base e il progetto «Iceworm», la creazione di una serie di centri per il lancio di missili atomici a medio raggio contro la Russia, situati sotto la calotta glaciale groenlandese, è evidente. Le condizioni di vita alla base peggiorarono costantemente e nel 1966 si decise di mettere fine all’esperimento.
Capitolo XI
Benché non sia ancora stata approvata formalmente dall’Unione internazionale delle scienze geologiche (IUGS), l’idea che l’umanità abbia inaugurato una nuova epoca geologica si è guadagnata un largo consenso. La coniazione del termine «Antropocene» testimonia il diffuso riconoscimento che l’attività umana ha avuto un impatto significativo sugli ecosistemi e sul clima del pianeta. La data di inizio, secondo l’opinione prevalente, sarebbe da collocare attorno alla metà del Novecento.
L’umanità si è allontanata dal ghiaccio perché non dipende più dalla natura per produrlo, non deve lavorare per conservarlo, non dipende da esso né come conservatore alimentare né come anestetico. Un cubetto di ghiaccio ora è qualcosa di assolutamente irrilevante, del tutto intercambiabile con uno qualsiasi dei cinque miliardi di cubetti prodotti ogni anno dalla sola industria del ghiaccio del Regno Unito per raffreddare le bevande.
Questa dissoluzione del legame naturale con il ghiaccio causa il disinteresse per i processi e i sistemi naturali e mostra quanto siano diventate arroganti ed eticamente discutibili alcune incursioni nella criosfera.
Per esempio il cloud seeding, sperimentato a partire dal 1945, in cui vengono utilizzate le reazioni fisiche generate dal ghiaccio nell’atmosfera per generare le nuvole e quindi modificare il tempo meteorologico. È interessante che uno degli artefici della procedura fosse Bernard Vonnegut, fratello del ben più noto scrittore Kurt. Le similitudini tra le crioricerche del fratello e quelle compiute dai protagonisti del romanzo horror Ghiaccio-nove sono innegabili.
Oppure la macchina della neve, creata nel 1934 a Hollywood per il film As the Earth Turns da Louis Geib, direttore tecnico della Warner Bros. Era composta da tre lame rotanti che avanzando facevano a scaglie un blocco di ghiaccio di 180 chilogrammi, più una ventola per soffiare in aria i cristalli risultanti, e presto adottata dagli sport invernali. Il passo successivo arrivò nel 1949, con il brevetto di Wayne M. Pierce jr: una macchina per produrre neve a partire da un compressore per vernici, un ugello e un tubo da giardino: soffiata nell’aria gelida, l’acqua si trasformava in minuscoli cristalli di ghiaccio. L’ultima fase di una complessa evoluzione porta da questo prototipo al cannone da neve contemporaneo. Che ha un grosso problema: Uno studio svedese del 2011 ha stimato che per creare un metro cubo di neve con un cannone da neve mobile sono stati necessari da 3,5 a 4,3 kWh di elettricità anche se in alcuni casi il consumo potrebbe essere più che triplo. Per produrre un metro cubo di neve artificiale possono essere necessari circa 400 litri d’acqua e un altro studio del 2011 ha stimato che occorrono 3 o 4 milioni di litri d’acqua per coprire un ettaro di pista da sci.
La criosfera – quella parte del nostro mondo costituita da acqua ghiacciata – un tempo era dominio esclusivo di ghiaccio e neve naturali, è stata colonizzata ed enormemente espansa e alterata dal freddo artificiale, portandola nei climatizzatori, nei frigoriferi, nella catena del freddo, nei data center. Creare il freddo artificiale è un costoso paradosso, perché per produrre freddo occorre consumare energia e quindi generare calore. Ogni volta che creiamo freddo da qualche parte, riscaldiamo il mondo da qualche altra parte. Quanto più freddo innaturale produciamo, tanto più freddo naturale distruggiamo e più diventa scarso. Ecco perché il ghiaccio si scioglie. Perché abbiamo bisogno di macchine per la neve? Perché non c’è abbastanza neve. Che cosa fanno queste macchine? Aggiungono carbonio nell’atmosfera.
Periodicamente riemerge l’idea di rimorchiare iceberg per lunghe distanze al fine di mitigare la siccità: le prime proposte risalgono all’inizio dell’Ottocento. Nel corso dello stesso secolo piccoli iceberg (spesso dotati di vele) vennero rimorchiati fino a Valparaíso, in Cile, e a Callao, in Perù, dove venivano utilizzati nelle birrerie durante il processo di produzione della birra e, in generale, per raffreddare bevande e cibi
L’idea fu ripresa dopo la Seconda guerra mondiale dall’originale oceanografo John D. Isaacs, che voleva mitigare la carenza d’acqua della California rimorchiando iceberg dall’Alaska o dall’Antartide. Nonostante i suoi sforzi non trovò mai qualcuno che finanziasse il progetto.
Negli anni Sessanta, le compagnie petrolifere iniziarono a prendere al lazo e a deviare gli iceberg che minacciavano le piattaforme e furono più volte proposti progetti per rimorchiare iceberg come risorse idriche.
Gli studi più seri furono quelli della Rand Corporation, think tank finanziato dal governo statunitense, che nel 1973 propose un piano dettagliato per rimorchiare «treni» di iceberg dall’Antartico alla California, ciascuno largo da 300 a 600 metri e con una lunghezza totale ottimale di 20 chilometri o più. Avrebbe avuto un notevole risparmio economico rispetto all’acqua desalinizzata. Il piano non ebbe seguito, anche se interessò molto la monarchia saudita: le complicazioni soverchiavano la tecnologia disponibile.
Grazie al progresso della modellazione al computer l’idea è oggi tornata alla ribalta, con progetti in Sudafrica e negli Emirati Arabi.
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