Tuttolibri, 6 dicembre 2025
Siamo tutti più buoni
A Natale siamo tutti più buoni, o dovremmo esserlo. Tra le conseguenze di questa cordiale disposizione d’animo patrocinata dalla società figura l’abitudine di regalare, cioè comprare, libri; romanzi soprattutto. Un libro è il dono ideale, per molti versi: non solo si identifica con la cultura, l’arte e la spiritualità, permettendo a chi lo offre e anche a chi lo riceve di fare bella figura, ma di solito costa relativamente poco. Non stupisce allora che su questa tradizione, o abitudine, o senso di colpa – il 73 per cento degli italiani non legge più di un libro all’anno, secondo i dati più recenti dell’Associazione Italiana degli Editori – scommettano specificamente l’editoria e i librai, all’avvicinarsi delle feste. Dicembre è infatti il mese dell’anno in cui le librerie incassano di più, in media fino al venti per cento del loro fatturato annuale; e le vendite natalizie arrivano a incidere per una percentuale analoga sul volume d’affari annuo dell’intero mercato cosiddetto “trade” (romanzi, saggistica, editoria per l’infanzia).
Ma la bontà aiuta a vendere libri anche in un altro senso, più profondo e per così dire più strutturale, soprattutto se evitiamo di acquistare i classici e scommettiamo invece sui nostri romanzi di oggi (lo smercio della narrativa italiana contemporanea risulta in crescita lenta ma costante da qualche anno a questa parte). Da sempre la letteratura popolare e il romanzo rosa soprattutto coccolano i lettori con il cosiddetto lieto fine; ma recentemente si segnalano due novità, che vedono cambiare il ruolo e la posizione dei buoni sentimenti nella nostra narrativa più attenta alle esigenze del mercato. Da una parte il lieto fine ha un po’ cambiato forma, disseminandosi lungo tutto il testo e quasi mettendolo in sicurezza: il successo travolgente dei manuali di auto-aiuto, o self-help come internazionalmente vengono chiamati, ha contagiato la letteratura in generale, cospargendola volentieri di un polline didattico e spingendola a posizioni costruttive se non edificanti. Gli effetti più vistosi di questa pedagogia si sono registrati in alcuni generi di punta del romanzo di consumo, come il romance e lo young adult, sempre più orientati a temperare le trasgressioni dei personaggi e a ricondurne le peripezie a percorsi di crescita individuale, corretti eticamente prima ancora che politicamente.
Ma è interessante anche quello che accade nell’ambito di una letteratura di maggiore ambizione artistica, e di impegno politico rivendicato. Più il mondo peggiora, infatti, più certi scrittori reclamano il compito di migliorarlo, almeno sulla carta – Réparer le monde è il titolo di un saggio che un critico francese, Alexandre Gefen, ha dedicato nel 2017 alla narrativa francese che esplicitamente intende avere un effetto terapeutico sul lettore e sulla società. Anche da noi nell’ultimo decennio molti narratori sembrano scrivere allo scopo di migliorare il prossimo, in senso civile, morale e psicologico; soprattutto da quando si è capito che questa ortopedia psicologica funziona tanto sul piano del riconoscimento culturale quanto, spesso, su quello del successo commerciale. La spinta rassicurante tipica del romanzo di consumo sta così invadendo il romanzo tout court, imponendo ai personaggi dei “tutori narratologici” che li proteggono dal trauma. Per questo, nella fiction, i protagonisti appaiono sempre più rigidi e ingessati nei loro pensieri e nelle loro azioni; per questo, anche, alcuni temi sensibili sono sollecitati più di altri, rimescolando il sistema dei generi e dei sottogeneri. Da un lato occorre appunto un trauma, uno shock personale o collettivo, una malattia o almeno una devianza forte e up to date; dall’altro una parabola che guarisca la ferita e la riscatti innescando una dinamica positiva. La letteratura buona ama mostrare al lettore che resistere al male si può e si deve, che esiste sempre un’alternativa alle relazioni tossiche, che non bisogna rassegnarsi, che volere è potere e la libertà individuale resta il valore più importante (la buona letteratura tradizionalmente amava frequentare le passioni tristi e le emozioni malsane, raccontare le contraddizioni e le miserie umane, denunciare l’impotenza propria e altrui, scontrarsi contro la cattiva infinità del desiderio). Da qui, tra l’altro, l’attuale successo di trame con protagonisti giovani sofferenti ma innocenti, donne che si ribellano e autodeterminano, trentenni-quarantenni in crisi che cercano e trovano un altrove: figure che è auspicabile appoggiare a storie vere, meglio ancora se immerse in un contesto di ingiustizia e abuso che consenta al lettore di orientarsi facilmente nel distinguere i buoni dai cattivi. Per cui naturalmente è sugli scudi la stagione fra le due guerre mondiali, col ricorso al repertorio del romanzo storico, e quella odierna delle nuove migrazioni, foriere di esotismo; ma non passano di moda le mafie e la cronaca nera, che mobilitano le tecniche del crime, e magari i terrorismi, ideali per le teorie del complotto. Una fiction radicata nei conflitti della Storia, o in qualche identità contemporanea tormentata e identificabile come reale, bisognosa di sollievo o empowerment, che non sconvolga la bussola morale del lettore, e che finisca bene: su questo tipo di sinossi autori ed editori convergono sempre più volentieri, spesso col supporto attivo di una parte delle istituzioni culturali – premi, festival, fiere del libro – e con l’appoggio determinante di specifici addetti ai lavori – agenti letterari, scuole di scrittura, critica “embedded”. Non credo occorra fare nomi o snocciolare titoli: una buona parte dei romanzi più visibili, discussi e venduti di questi ultimi anni segue grosso modo questa formula (la quale del resto prevede che si neghi in pubblico l’esistenza delle formule che di fatto si seguono in privato: più certi romanzi si producono industrialmente, anche nei tempi serrati di lavorazione e nell’indifferenza per lo stile, più i responsabili sottolineano il carattere singolare e irriducibile della propria ispirazione, la propria personale esperienza del linguaggio).
Naturalmente può succedere che in quest’ambito di sofferenza e compassione, di riscatto individuale e collettivo si agitino libri comunque belli, effettivamente ispirati, a loro modo unici (da ultimo Lo sbilico, di Alcide Pierantozzi: storia non fittizia di un dolore che fonda una scrittura, peraltro senza imporre al lettore ottimismo e senza chiedere pietà). Ma mi pare che i romanzi migliori usciti negli ultimi mesi prendano semplicemente un’altra strada, che è poi la solita strada di chi insiste a indagare le zone oscure, incomprensibili e rimosse dei comportamenti umani, cercando la verità, non la rassicurazione (recentemente Starnone, con Destinazione errata, e Mari, con I convitati di pietra). Mentre la nuova edizione di Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino (che è poi quella inaugurale del 1963), appena tornata in libreria, ci ricorda che ogni tanto compaiono opere che non somigliano a nessun’altra.
L’impressione, quest’anno specialmente, è insomma di una certa omologazione in corso, tra romanzo storico e intimità domestiche, ottimismo d’ordinanza e dolorismo spinto (scelte apparentemente contraddittorie, in realtà complementari, come abbiamo visto). Ma appunto è un’impressione, che andrebbe articolata e magari confutata discutendo insieme come ai vecchi tempi, quando il discorso sulla letteratura prevedeva verifiche dei valori adulte, serie e appassionate. Senonché anche la critica letteraria è diventata buona – soprattutto da quando, appaltata quasi per intero agli scrittori stessi, partecipa in modo non sempre innocente ai meccanismi della promozione letteraria, che vive di entusiasmo. Tentata, come tutti, dalla cordialità, questa critica “esternalizzata” dovrebbe trovare la forza di autocriticarsi, perché somiglia troppo alla narrativa stessa che dovrebbe descrivere: come lei tende spontaneamente a un atteggiamento di difesa, come lei aspira alla dimensione del safe space, come lei punta all’efficacia comunicativa, rinunciando alla lucidità e alla verità. Un paio di settimane orsono su Repubblica una scrittrice come Elena Stancanelli si è spinta a teorizzare con argomenti interessanti nientemeno che l’impossibilità della critica letteraria oggi: perché nell’epoca del narcisismo di massa ogni riserva è considerata intollerabile, perché la mitomania inibisce l’umorismo, perché la «civiltà dell’estemporaneo» impone la ricerca immediata del consenso e toglie tempo a ogni vera Bildung, perché nessuno crede più in una forma duratura, perché fatichiamo a distinguere (o ad ascoltare chi distingue) tra un libro letterario e uno commerciale. «Da questa inermità», conclude Stancanelli, «diventa molto complicato migliorare». Infatti.