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 2025  dicembre 08 Lunedì calendario

George Clooney: "Alla mia età si fanno bilanci. Il successo non insegna nulla. Ho imparato dai fallimenti"

«Non ho scelto questo lavoro perché volevo evitare chi sono. Ero entusiasta all’idea di stare sul set e di esibirmi di fronte alle persone per farle ridere. Amo la parte divertente di essere un attore. Non ho mai voluto essere un’altra persona». George Clooney è una delle ultime vere star di Hollywood. E proprio per questo per il ruolo di Jay Kelly, l’attore più famoso al mondo che ha una crisi esistenziale e decide di mollare tutto per seguire la figlia in viaggio per l’Europa, il regista Noah Baumbach non volveva nessun altro. Dopo il concorso a Venezia 82 Jay Kelly è su Netflix dal 5 dicembre. E punta a ottenere diverse nomination a premi come Golden Globe e Oscar: accanto a Clooney c’è infatti un ottimo Adam Sandler, nel ruolo dell’agente del protagonista, Ron Sukenick.
Con questo film ha fatto pace con il fatto di dover invecchiare?
«Invecchiare?! In che senso? Seriamente: Noah è uno di quei registi che ama fare diversi take. E quando mi ha fatto ripetere per la quindicesima volta la scena in cui inseguo un ladro gli ho detto: ma ti ricordi che ho 64 anni? E anche il personaggio è a un punto maturo della sua vita. Quando ho letto la sceneggiatura ho pensato fosse una storia bellissima sul rimpianto. Tutti dobbiamo trovare un equilibrio tra famiglia e lavoro. Che inevitabilmente ognuno di noi sbaglia a un certo punto».
E lei ci riesce?
«È impossibile non fare errori. I miei figli hanno 8 anni: quindi spero sia troppo presto per loro per essere cinici. Ma so che presto si lamenteranno, me lo stanno dicendo tutti gli amici che hanno avuto figli molto prima: mi dicono di godermeli finché sono in tempo. Li ho avuti tardi, ma io e Amal siamo davvero fortunati ad avere due bambini così intelligenti e divertenti. Sono in un momento molto felice della mia vita».
Nella scena finale Jay Kelly rivede tutta la sua vita attraverso i suoi veri film: com’è stato?
«Rivedere tutti i film della mia carriera mi ha fatto un certo effetto. Nel film Noah ha lasciato la ripresa in cui ho visto la sequenza per la prima volta: mi sono veramente commosso. Ma penso che tutti possano rivedercisi: quando arrivi a un certo punto del tuo percorso ti guardi indietro e pensi a come è andata. Ognuno di noi può dire che avrebbe voluto passare più tempo con la propria famiglia. Ma non è la realtà: i miei genitori non ci sono stati in un sacco di momenti importanti, ma dovevano lavorare per mettere il cibo in tavola. È così che funziona. Purtroppo non è come nei film, in cui puoi ripetere le scene. Il senso della battuta finale è tutto lì».
C’è qualcosa che vorrebbe cambiare della sua carriera?
«In quel montaggio ci sono anche spezzoni di quando ero più giovane: è incredibile che abbia avuto una carriera dopo aver portato il mullet. È un taglio di capelli che non consiglio. Ma scherzi a parte: se mi avessero detto a 20 anni che 40 anni dopo avrei fatto ancora questo lavoro non ci avrei creduto. Quindi mi sento fortunato».
A proposito di immagini: crede ancora nel potere del cinema?
«Siamo bombardati dalle immagini costantemente. Immagini spesso senza valore. Ma le immagini sono ancora il modo in cui comunichiamo. I bambini capiscono il mondo così: ti guardano in faccia e comprendono le emozioni. Ne abbiamo ancora bisogno. La cosa difficile è capire cosa stiamo guardando. Diventa sempre più impegnativo. Quando ero bambino io si potevano vedere solo tre canali in televisione».
Jay Kelly è diventato famoso da ragazzo, lei no. Questa è una differenza importante?
«Ho raggiunto la fama a 33 anni con la serie E.R.: quindi ho fallito parecchio. A quel punto ero in giro già da 12-13 anni e avevo fatto altrettanti episodi pilota di serie che non sono mai state realizzate. Quando fallisci molto in realtà ti aiuta tanto. Il successo non ti insegna nulla e se arriva troppo presto potresti fare l’errore di pensare di essere un genio. Quando finalmente sono diventato famoso ero pronto: da allora non ho mai smesso di lavorare, perché so cosa vuol dire non arrivare da nessuna parte».
E oggi si sente una vera star? Pensa mai a quale sarà la sua eredità?
«Non posso dirlo da solo, saranno le persone a giudicare. Vere star le ho incontrate: Paul Newman e Gregory Peck. Quando entravano in una stanza capivi subito che lo erano. Io ho avuto la fortuna di poter lavorare con i più grandi registi del mondo: i fratelli Coen, Steven Soderbergh, Alfonso Cuarón, adesso Baumbach. Ecco il segreto è questo: scegliere bene con chi lavorare».