la Repubblica, 8 dicembre 2025
Gwyneth Paltrow: “Dopo i 50 anni le donne diventano padrone di sé stesse”
Il ritorno al cinema di Gwyneth Paltrow è da grande diva: in Marty Supreme di Josh Safdie (prodotto da A24, in sala con I Wonder dal 22 gennaio) è una star anni ‘50 in ritiro. Sposata a un industriale, progetta il rientro a teatro e si fa sedurre (seducendolo) dal campione-truffatore di ping pong Marty Mauser, Timothée Chalamet. Giacca nera, capelli sciolti e trucco leggero, l’attrice, 52 anni – via Zoom – è emozionata.
Ha detto che la sua Kay è una Grace Kelly oscura.
«Grace rinunciò a una straordinaria carriera per le nozze e qualcosa nei suoi occhi cambiò per sempre. Non tornò a Hollywood. Anche la mia Kay rinuncia alla libertà artistica per la sicurezza del matrimonio. Nei ’50 le donne non avevano conti bancari, mutui, carte di credito. Dipendevano dai mariti. Key ha pensato di potercela fare, ma ha perso un figlio e si è spezzata».
E incontra il giovane Marty.
«Nasce una scintilla di vita, trova il coraggio di risalire sul palco… e viene schiacciata. Non è la critica a distruggerla, è la perdita del figlio, della libertà, della vita desiderata».
La differenza d’età nelle coppie?
«Ciò che funziona tra due persone va bene e basta. La società giudica le coppie in cui lei è più grande, ed è ingiusto. Le over 40 sono ancora capaci di romanticismo. Nei miei gruppi chat di mamme erano tutte entusiaste delle scene romantiche con Chalamet: le donne sono felici di essere rappresentate così».
La sua Kay rivendica la sessualità.
«Sì. Dopo i 50, le donne diventano invisibili. La società pensa che perdiamo bellezza e sessualità ed è un lutto. Molte si ritirano. Ma dopo i 50 siamo davvero noi stesse e non abbiamo paura di chi siamo. Penso a Jennifer Lopez, un esempio, e a Nicole Kidman. Non si muore a 50 anni, si entra nel proprio potere».
Ha detto che è stato bizzarro avere l’intimacy coordinator sul set.
«Sono stata fraintesa. È una figura fondamentale, nata dal movimento MeToo. Vengo da un’epoca diversa e all’inizio mi sono sentita un po’ più osservata sul set. Ma sono felice pensando a mia figlia: se farà l’attrice, girerà una scena di intimità con una figura che le spiega limiti e regole».
I figli erano curiosi di Chalamet?
«Sì. Timothée è il volto di una generazione. I miei figli lo trovano fighissimo: mia figlia, quando ha visto Chiamami col tuo nome, è quasi svenuta in cucina. E anche i miei figliastri. Erano meno entusiasti delle foto dei paparazzi sul set in cui Timothée e io ci baciavamo nel parco: quello li ha imbarazzati, forse mio figlio di più».
Come affronta il giudizio altrui?
«Non leggo recensioni da tempo. Sono sempre stata troppo fiduciosa. Ho imparato – purtroppo – a essere più cauta. Ma preferisco rischiare vedendo il bene negli altri piuttosto che diventare cinica».
Oggi lo star system è cambiato.
«Non ho vissuto il vecchio sistema degli Studios, con gli aspetti positivi e quelli negativi. Ma all’inizio della mia carriera, nei ‘90, c’era ancora un po’ di quella magia: storie complesse, ruoli femminili ricchi, e il pubblico che andava al cinema. Negli ultimi anni ho pensato spesso: il cinema va verso i franchise, la Marvel... Ora sento una rinascita: film originali, adulti, complessi».
Si considera femminista?
«Il nuovo femminismo è dare valore alla specificità dell’esperienza femminile. Le donne hanno il diritto di chiedersi: chi sono io, se smetto di compiacere gli altri? Un potere che nasce da dentro».
Le sue icone da ragazzina e oggi?
«A 17 anni la stella polare era Julia Roberts: eleganza, intelligenza. Poi la mia migliore amica Cameron Diaz: coraggiosa, divertente. E Meryl Streep di cui ammiro ogni dettaglio. Oggi mi ispirano Emma Stone, Jennifer Lawrence».
Marty non crede nel piano B. Lei?
«Per farcela serve una fede quasi delirante nel proprio sogno».
Lei si è reinventata più volte.
«Penso la mia vita a capitoli: a vent’anni il sogno era il cinema, poi è arrivata la maternità, mia figlia ed è diventata ed è il centro, poi l’imprenditoria. E ora, in modo inaspettata, il cinema è tornato».
Perché oggi?
«I miei figli andavano al college e mi sembrava un precipizio. Proprio allora Safdie mi ha chiamata. Mio fratello mi ha detto: “Vai”. Temevo di non ricordarmi come si fa, ho fatto gli Avengers, ma questo era un film in cui scavare a fondo».
Sentiva la mancanza?
«Ero immersa nell’imprenditoria, anche per proteggermi. Non ho rimpianti, ma ero pronta a tornare, senza paura».
Esce “Hamnet” sulla genesi dell’Amleto. Ricordi di “Shakespeare in love”?
Avevo 25 anni. E c’era Tom Stoppard, che abbiamo perso pochi giorni fa, a firmare la stupenda sceneggiatura. Sentivo che era un set speciale, mi ha segnato vita e carriera».
“Seven” nel ‘95.
«Esperienza formativa. Pensai: è cupo, chi andrà a vederlo?. Invece… E poi Paul Thomas Anderson, Wes Anderson, Anthony Minghella...».
In “Il talento di Mr. Ripley” ha imparato l’italiano? Non è male.
«Cerco di migliorare. Abbiamo una casa in Umbria: torniamo più volte l’anno. Amo quel territorio – il cuore verde d’Italia – rilassante, bellissimo. Da voi mi sento subito “resettata”: qualità della vita, cura delle cose, senso estetico».
Ufficialmente tornata al cinema?
«Se c’è una cosa che ho imparato è che la vita è lunga e piena di colpi di scena. Sono aperta a nuovi progetti, ma solo se speciali come questo»