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 2025  dicembre 08 Lunedì calendario

Lascia tre milioni alla badante «per dispetto ai parenti», la Corte d’appello ribalta il caso dell’eredità del chimico torinese Frediani: «Non fu raggiro»

Ha lasciato il proprio patrimonio in eredità alla badante «per fare un dispetto ai parenti con cui aveva litigato» e non perché la donna lo avesse circuito. La Corte d’appello di Torino riscrive in 21 pagine la storia dell’eredità di Lido Frediani, chimico di fama internazionale che nell’estate 2019 fece testamento in favore della badante che lo accudiva da appena 20 giorni. E assolve la donna e il marito carabiniere (difesi dagli avvocati Alberto Pantosti Bruni e Stefania Marasciulo) dall’accusa di circonvenzione d’incapace: in primo grado erano stati condannati a 4 anni e 4 mesi di reclusione e al pagamento di provvisionali e spese legali per circa 700 mila euro in favore dei parenti (denaro che la coppia ha versato dopo aver ottenuto la restituzione di una parte dei beni sotto sequestro conservativo).
Marito e moglie finiscono sotto inchiesta nel 2021, quando il nipote di Frediani scopre che nel maggio 2020 lo zio era morto – all’età di 92 anni – per «deperimento da anoressia» e che il corpo era stato cremato all’insaputa della famiglia. Non solo, l’uomo apprende che il patrimonio – circa tre milioni di euro – era stato ereditato dalla badante. Da qui la denuncia in procura, l’inchiesta, il sequestro dei beni e il processo che si chiude con una condanna: secondo il Tribunale, Frediani era un uomo affetto da una fragilità psichica e la badante, un’operatrice sociosanitaria con ottime referenze, e il marito ne avevano approfittato. 
In appello l’impianto accusatorio viene ribaltato. Da una nuova lettura degli atti e delle testimonianze emerge che Frediani aveva sempre gestito il proprio patrimonio con estrema oculatezza fino al 2019, quando – in seguito alla rottura di un femore e ad alcune ischemie – è diventato non più autosufficiente a causa di «un decadimento fisico e cognitivo lieve» pur rimanendo perfettamente «capace di intendere e di volere». Dopo una serie di ricoveri in ospedali e cliniche private, torna nella propria abitazione e chiede ai parenti – alla cugina e al nipote – di essere ospitato da loro, ma questi gli prospettano come soluzione di «portargli i pasti», di «assumere una badante» o, in alternativa, di sistemarlo in una struttura. Sarebbe stato questo rifiuto a spingere il chimico a estromettere il nipote (che avrebbe dovuto essere l’erede) dal testamento.
 L’anziano aveva anche manifestato con amici e conoscenti la volontà di non incontrare più i parenti che lo avevano abbandonato, tanto da chiedere di sostituire il classico citofono di casa con un videocitofono «per evitare che loro potessero entrare nella sua abitazione». Non solo, secondo i giudici la oss e il marito non avrebbero «indotto» l’anziano a fare testamento: «Il chimico manifesta l’intento di nominare erede la badante cinque giorni dopo averla assunta. Non si ritiene che in un così ristretto limite di tempo l’imputata sia riuscita a carpirne la fiducia e indurlo a testare in suo favore scavalcando i parenti». Piuttosto è realistico ritenere che la donna e il marito (che peraltro non frequentava la casa di Frediani) non si siano resi conto «del decadimento cognitivo» dell’anziano, che ha scelto lei perché «aveva litigato con i parenti». 
Da qui l’assoluzione della coppia dalla circonvenzione perché il fatto non sussiste (la sentenza ha invece confermato le condanne, a 10 mesi per la donna e a 4 mesi per il militare, per altri episodi emersi nel corso delle indagini, tra cui il fatto che la oss si sarebbe finta in malattia per allontanarsi temporaneamente dal proprio posto di lavoro e assistere l’anziano) e la restituzione dei 700 mila euro di provvisionali e spese legali versati. Contestualmente, però, la Corte con un decreto ha disposto nuovamente il sequestro conservativo di quel denaro, così da «congelarlo» qualora in Cassazione il verdetto venisse nuovamente «ribaltato». Un provvedimento contro il quale gli avvocati Pantosti Bruni e Marasciulo hanno presentato ricorso al Riesame chiedendo l’annullamento della misura. La richiesta è stata accolta: per i giudici, la Corte d’appello «non poteva procedere d’ufficio» in assenza di una richiesta delle parti civili ipoteticamente danneggiate. Inoltre, il provvedimento è carente del cosiddetto «fumus boni juris», ossia che la pretesa risarcitoria sia fondata. Pretesa assente a fronte della sentenza di assoluzione.