La Lettura, 7 dicembre 2025
(Ri)generazione Radiohead
Il 2025 sarà ricordato anche come l’anno in cui abbiamo resuscitato la musica di fine millennio. Il megatour estivo degli Oasis. I Linkin Park con una cantante donna. L’anniversario di Mellon Collie e della sua tristezza infinita. L’attesa per Garbage e Skunk Anansie, che arriveranno in primavera. Un revival per uomini e donne di mezz’età che in questo momento – forse non è un caso – rappresentano la fascia demografica altospendente. Capita a ogni generazione, suppongo, e adesso è arrivato il turno dei Millennial – il mio. Così siamo diventati i nuovi springsteeniani.
Qualche anno fa ho scoperto che esiste una categoria per indicare una certa produzione musicale degli anni Novanta: lo chiamano «Sad Dad Rock», rock del papà triste, con quella finta simpatia marketing che in realtà è ageismo. I Radiohead, si dà il caso, sono la band preferita del papà triste. Quando è uscito l’annuncio del loro tour, dopo anni di assenza, registrarmi per i biglietti è stato un riflesso condizionato. Non ero entusiasta né indifferente. Mi sono infilato nell’iter di acquisto online, una specie di lotteria, con la speranza di non farcela. Invece sono riuscito a conquistarmi un biglietto. Uno e basta. Mentre inserivo i dati della carta di credito mi chiedevo: andrò davvero al concerto dei Radiohead da solo, a quarantadue anni? Cadrò anch’io, alla fine, nella trappola della nostalgia in questo Paese così malato di nostalgismo?
La prima volta che ho visto i Radiohead suonare dal vivo, di anni ne avevo quindici ancora da compiere. Era il tour di OK Computer. Si esibivano in un palazzetto di Milano che nel frattempo ha chiuso, il Palavobis. Le foto di Google lo mostrano abbandonato, un relitto. Insieme a me erano venuti due compagni di classe. Non erano dei veri fan, li avevo convinti, salvo poi scoprirmi irritato perché non sapevano le canzoni. Avevamo passato la notte ospiti a casa dalla zia straricca di uno di loro. Una dimora in centro, con saloni consecutivi e soffitti affrescati. Un domestico ci aveva preparato la merenda e la zia ci aveva pagato il taxi per il ritorno dal palazzetto perché si sentiva responsabile della nostra incolumità. Non ero mai stato a Milano prima e quella opulenza avrebbe influito irrimediabilmente sulla mia immagine della città. Tutto questo non è un modo per dire io c’ero da prima. È solo un modo per dire che è passato tantissimo tempo.
Mio figlio mi ha messo a parte di un sondaggio che circola sui social: devi elencare le tre influenze letterarie più importanti della tua vita. Per niente facile, eppure per due su tre non avevo dubbi, e non avevo dubbi su chi mettere al primo posto. I Radiohead, appunto. OK Computer. Buona parte di ciò che ho imparato sull’arte viene dall’aver ascoltato e riascoltato quel disco. Mi ha fatto capire che si potevano scrivere canzoni non solo belle ma anche interessanti. Che si potevano creare opere all’altezza del proprio tempo. Che lo si poteva comprendere, il proprio tempo, mentre si trasformava. Ancora oggi, quando mi sento trascinato dalla tentazione di fare le cose in modo automatico o di ubbidire a qualche imperativo momentaneo, mi dico: pensa ai Radiohead. Pensa a OK Computer.
Cosa avevano visto in quel disco del 1997 è difficile da riassumere, ma posso tentare così: l’estenuazione dell’anima da parte della società consumistica. Rampantismo, nevrosi, angoscia della performance, la febbre «yuppie», «un lavoro che ti uccide lentamente»; e ancora lo spettro del Millennium Bug, le dissonanze e l’eccitazione di suoni che sembravano arrivare dal futuro. Il capitalismo come prigione di felicità e assuefazione. Sembra ovvio oggi, quasi trito, ma non lo era allora e ancora meno lo era metterlo in musica e parole. Mark Fisher avrebbe teorizzato concetti simili in un saggio più di dieci anni dopo.
Sull’autobus che collega la stazione di Bologna all’arena riconosco gli altri che hanno trovato un solo biglietto, lo stesso imbarazzo di non avere nessuno con cui parlare. Andare a un concerto da soli non è innocuo come andare al cinema. È triste e un po’ sinistro. Rende l’esperienza uno strano viaggio introspettivo. Mio malgrado mi ritrovo a confrontare tutto con la trasferta milanese di trent’anni fa. Per esempio, all’epoca non avevo un’infiammazione cronica del nervo sciatico (che durante l’esibizione di stasera mi farà alzare ogni tre o quattro canzoni, con grande disappunto della fila dietro). Per esempio, non sapevo nulla dei lampi di preoccupazione che ormai mi assalgono ogni volta che mi allontano da casa, una preoccupazione irragionevole e incontrollata per la morte dei miei famigliari. C’era la tristezza, eccome se c’era, ma prendeva altre forme ed era tutta dedicata a me.
Sul bus ho davanti tre ragazzi di cui non riesco a decifrare la lingua. Polacchi forse. I due maschi, in piedi, portano baffetti come vanno di moda adesso e per tutto il viaggio si tengono abbracciati in un modo che sembra solo cameratesco ma chissà. Commentano video sui rispettivi telefoni e a volte si sporgono verso l’amica seduta per dire qualcosa che la fa ridere. Quello di spalle mi dà botte con lo zaino per tutto il tragitto, se ne accorge solo una volta, si gira per chiedermi scusa ma poi continua. Li guardo perché non ho nient’altro da guardare. Li guardo perché potrebbero essere me e i miei compagni in viaggio verso il Palavobis.
Ciò che OK Computer non poteva vedere era il 2001 dietro l’angolo. Sarebbe stato quello il vero Millennium Bug, arrivato con qualche mese di ritardo e non in forma di software, come si temeva, ma in forma di aereo. Il dirottamento di un’epoca, di un’intera civiltà. Poi la bolla dot com, l’inizio di una crisi dopo l’altra, i miei diciotto anni eccetera. Il primo lavoro dei Radiohead nel post 11 settembre sarebbe stato un album scuro e instabile, Hail to the Thief, un disco pieno di presagi, che si conclude con un brano che evoca minacce, botte, rapimenti e «un lupo alla porta». Pezzi meno cantabili per un’epoca sempre meno cantabile.
Non rimpiango la giovinezza. Tanto meno quella di adesso. In tutta onestà credo di essere stato giovane in un tempo migliore di questo. Più facile, più libero nelle aspirazioni. Però c’è qualcosa che rimpiango della giovinezza e mi risulta sempre più chiaro che cos’è: un accesso alla verità. Un accesso alla verità specifico che si possiede solo allora e poi mai più. L’avevo ai tempi di OK Computer e di Kid A e di Amnesiac, ma poi l’ho perso. Anche i Radiohead l’hanno perso. È passato ad altri, anzi ha già fatto parecchi giri nel frattempo.
Dentro l’arena, nel mio settore del secondo anello, ci sono parecchie famiglie, genitori della mia stessa età o appena più vecchi con i figli adolescenti. Anche questa abitudine di andare ai concerti rock in famiglia dev’essere nuova. E perché no? Un concerto andrebbe preso per quello che è, divertimento e stop. Ma noi che ascoltavamo i Radiohead siamo rimasti dei pesantoni in fondo, malinconici, gelosi del nostro rock da padri tristi, della nostra decade gloriosa. Forse siamo davvero i nuovi springsteeniani. Le luci si abbassano, i Radiohead salgono sul palco. Dalla distanza che ci separa potrebbero essere gli stessi di OK Computer. E per un attimo, nella penombra del palazzetto, potrei essere lo stesso di allora anch’io.