La Lettura, 7 dicembre 2025
Randall Wallace: «La Resurrezione è un evento di oggi»
Trent’anni fa la sua prima sceneggiatura per il cinema fu un enorme successo. Braveheart, seconda regia di Mel Gibson, vinse cinque Oscar e a Randall Wallace – nato in Tennessee nel 1949, origini scozzesi ma nessuna parentela con il patriota William Wallace protagonista del film – portò una nomination e una lunga carriera. «La Lettura» ha incontrato Wallace all’Università Cattolica di Milano, dove il 29 novembre ha parlato agli studenti alla cerimonia dei diplomi del master in International screenwriting and production. Non abbiate paura di sbagliare, ha detto: «Se non vi perdete, non potete esplorare».
Credente convinto, di fede battista, Wallace è tornato al master coordinato da Armando Fumagalli dopo essere stato tra i docenti della prima edizione, nel 2000. È arrivato a Milano da Roma dove era sul set del nuovo film di Mel Gibson, The Resurrection of the Christ, che ha scritto con il regista: «Stava girando e mi ha chiesto una nuova battuta per Pietro. È una delle magie del cinema; devi trovare l’ispirazione, una penna e scrivi: “Attraverso la Resurrezione, Dio ci ha reso liberi dalla morte stessa”». Wallace e Gibson si conoscono bene. Hanno condiviso anche il set di We Were Soldiers (2002), secondo film da regista di Wallace dopo La maschera di ferro (1998), di cui Mel Gibson è protagonista. E si sono ritrovati per proseguire il racconto iniziato da Gibson nel 2004 con La passione di Cristo.
Come stanno andando le riprese?
«Sono entusiasta. Vedere Mel così motivato e ispirato è stato bellissimo».
Ci porti alle origini del film.
«Mel ci pensava da tanto. A una cena mi sono proposto: avrei amato scriverlo ed ero convinto che dovessimo concentrarci proprio sulla Resurrezione».
Come avete affrontato il testo?
«Una delle cose più belle del lavoro con Mel è che vuole conoscere tutto. Braveheart era la mia prima sceneggiatura e lui la più grande star del cinema, eppure mi trattò con rispetto, mi ascoltava, faceva domande. A inizio lavorazione mi disse: raccontami tutto ciò che hai scritto e poi eliminato... Voleva conoscere la storia nella sua interezza. Con una mentalità aperta alle possibilità. La stessa che ho ritrovato in The Resurrection. Ho scritto una storia originale basata sul racconto biblico. Lui l’ha ampliato in tutte le direzioni. È l’aspetto geniale del suo processo. Al montaggio bisognerà restringere il campo, ma è partito dall’idea che la storia della Resurrezione di Gesù entra in ogni aspetto dell’esistenza umana».
Per questo la raccontate oggi?
«In un mondo in cui l’attenzione si focalizza su politica, clima e altre questioni che viste da vicino appaiono così importanti, credo sia necessario fare un passo indietro e guardare all’intera esistenza. In molti magari ritengono che non sia importante raccontare la Resurrezione in un mondo in cui c’è così tanta discordia, sfiducia, divisione. Ma è proprio questo il motivo per cui deve essere raccontata».
Il film sarà in due parti. L’uscita è prevista per il 2027.
«È immenso, per il suo significato e il suo valore. Non posso rivelare dettagli, non perché voglia mantenere il segreto, ma perché sarà il film a parlare per sé. Spero che gli spettatori vadano al cinema con lo spirito con cui i discepoli si avvicinarono alla Pasqua di Resurrezione: non avevano idea di ciò che li aspettava».
Torniamo al 1995, «Braveheart» uscì a maggio negli Usa e il 1° dicembre in Italia. Lo scrisse dopo un viaggio in Scozia alla ricerca delle sue radici. Come ricorda quel periodo?
«Come se fosse questa mattina. Alcune cose nella vita sono talmente intense che continuano a rinascere dentro di te».
Nel 1998, con «La maschera di ferro» ha debuttato anche alla regia. Dirigere è una continuazione della scrittura?
«Sì. La differenza è che la scrittura è un’attività il più delle volte solitaria. Anche per The Resurrection, io e Mel non abbiamo mai scritto nella stessa stanza. Dirigere significa riunire tanti talenti diversi per creare un unico spirito».
Un altro progetto da sceneggiatore e regista la lega all’Italia...
«Qui mi sento a casa. The Swiss Guard è un film a cui penso da parecchio. Ho passato un po’ di tempo a Roma, in Vaticano, e le Guardie svizzere mi hanno affascinato e ispirato: guardie non italiane che giurano di difendere il Papa anche a costo della vita. Papa Francesco stava invecchiando e immaginavo come successore un Papa guerriero, come alcuni nel passato. Da lì è nata la sceneggiatura, un thriller. Robert De Niro l’ha letta e ha detto di essere interessato a interpretare il Papa. Spero accetti: sarebbe il Papa ideale. Quello della storia è il primo Papa irlandese; ma ora che abbiamo un Papa americano è ancora più interessante».
Le prime notizie, nel 2021, parlavano di una Guardia svizzera donna e del rapimento del Papa...
«Ho pensato alla versione femminile: bellissima, ma troppo inverosimile; quindi ho optato per quella maschile. Di recente sono usciti film come Conclave dalle qualità ammirevoli, ma che non parlano di fede. Io voglio concentrarmi su questo, in The Swiss Guard come in The Resurrection. Non si può scrivere una storia sulla Resurrezione senza confrontarsi con la Resurrezione; come non si può scrivere della Chiesa senza chiedersi come un Papa possa diventare Papa e non domandarsi costantemente: perché Dio vuole una Chiesa, perché ha scelto me... Volevo una storia in cui il Papa si trovasse nella condizione in cui fare ciò che ritiene giusto può costargli la vita».
Un set che le è rimasto nel cuore?
«Il primo giorno sul set di Braveheart mi sono detto che non avrei mai potuto vivere un momento migliore. Poi sono arrivate le riprese de La maschera di ferro: mi sono guardato intorno e c’erano Leonardo DiCaprio, John Malkovich, Gabriel Byrne... Ho pensato: ecco che questi momenti meravigliosi tornano di nuovo. Lo stesso sul set di Resurrection. Ogni volta che credevo che non potesse andare meglio, mi sono sbagliato».
Il suo consiglio per i giovani filmmaker?
«Se sentite la chiamata a raccontare storie, fatelo. Non c’è altra opzione. Dio non ci dà un talento per farcelo seppellire. La sfida sta nell’usarlo nel modo giusto. Ancora oggi, dopo trent’anni, ogni volta che ho l’opportunità di scrivere qualcosa mi chiedo: è davvero in questo che dovrei usare i doni che ho ricevuto? Quindi: usate i vostri doni e impegnatevi a trovare il modo giusto per farlo».