La Lettura, 7 dicembre 2025
La generazione uccisa dall’Aids è ancora viva
Una generazione perduta, mancata, annientata: è quella degli artisti colpiti dalla «peste» dell’Hiv (il virus dell’immunodeficienza umana) e dalla sua evoluzione più tragica, l’Aids o Sida (la sindrome da immunodeficienza acquisita). Non solo maestri ormai universalmente riconosciuti come Robert Mapplethorpe (1946-1989) o Keith Haring (1958-1990), ma anche artisti di valore ancora sconosciuti al grande pubblico come David Wojnarowicz (1954-1992) o Larry Stanton (1947-1984). Per loro Hiv e Aids hanno rappresentato una condanna alla sofferenza, al dolore, alla morte e allo stesso tempo uno stigma che ha segnato e isolato la loro arte. Perché Hiv e Aids, in tutte le loro terribili variabili di sintomi e di patologie correlate, erano oltretutto estremamente sgradevoli alla vista (niente di più lontano dalla tisi della Traviata di Verdi) in un tempo in cui l’estetica non era ancora quella «imperfetta» di Tracey Emin che nel 2021 pubblicò i selfie scattati durante la sua lotta contro un cancro alla vescica.
Félix González-Torres (1957-1996) è sicuramente una delle figure fondamentali dell’arte al tempo dell’Hiv e dell’Aids: è lui che nel 1991 realizza la serie Candy Work di cui fa parte Untitled, oggi nella collezione dell’Art Institute di Chicago, che nelle intenzioni dell’autore vuole essere il ritratto del suo compagno Ross Laycock (1959-1991) e che in concreto appare come un mucchio di caramelle che il visitatore può prendere e mangiare a suo piacimento, un mucchio coloratissimo del peso di 79 chili, lo stesso di Laycock quando gli venne diagnosticato l’Aids (González-Torres morirà cinque anni dopo).
Non a caso, dunque, tra i protagonisti della mostra Vivono. Arte e affetti, Hiv-Aids in Italia. 1982-1996 (a cura di Michele Bertolino) al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato c’è l’installazione Untitled/Loverboy del 1989 (tende di organza blu a suo tempo proposte al Castello di Rivoli) proprio di González-Torres, simbolo con altri artisti stranieri (oltre a Mapplethorpe e Haring ci sono Derek Jarman, Hervè Guibert, il collettivo Grand Fury) di una storia che con il tempo è diventata universale, superando i «consueti» confini fisici.
La mostra di Prato ricompone quella storia spesso dimenticata, vista (e vissuta) da artisti italiani come Luciano Bertolini (1948-1994), Nino Gennaro (1948-1995) o Patrizia Vicinelli (1943-1991) che nelle loro opere, ma anche nelle loro poesie, nei loro «paesaggi sonori», nei loro video, nei loro testi teatrali hanno raccontato la malattia in diretta, in prima persona. Proseguendo un percorso che tra il 1992 e il 1994 ha spinto il Centro Pecci a proporre attività espositive, culturali e sociali per combattere lo stigma e la disinformazione intorno all’Aids e che oggi conserva in Eccentrica, la sezione permanente della collezione, Commemuro (1993), opera di Francesco Torrini (1962-1994) a ricordo delle amiche e degli amici morti a causa di quel contagio. Che, secondo i dati forniti il primo dicembre in occasione del World Day Aids 2025, dal 1981 (anno del primo caso registrato) ha ucciso circa 36 milioni di persone in tutto il mondo, mentre sono 38 milioni (sempre secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità), le persone che attualmente vivono con l’Aids/Sida, con un milione e mezzo di nuovi contagiati (2.500 quelli italiani) e 630 mila decessi solo nel 2024.
Vivono (un titolo che appare come un segnale di speranza) si presenta come il racconto rigoroso di un segmento di storia spesso dimenticato, nascosto tra le pieghe della memoria collettiva, e che si svela invece sotto una luce rinnovata, vibrante di emozioni, di testimonianze e di lotte silenziose. Ricomponendo un archivio collettivo e personale che di fatto restituisce voce ai protagonisti (in questo caso soprattutto italiani) troppo a lungo rimasti invisibili, di una storia fatta di lotta e di resilienza. Le bacheche mobili, munite di ruote, appaiono in qualche modo come fabbriche di memoria in movimento, pronte a essere riconfigurate, a mostrare nuovi angoli e nuove prospettive di una realtà complessa.
Nel cuore di questa narrazione lineare ma suggestiva si ritrova un mix incredibile di tecniche e strumenti: i testi poetici di Pier Vittorio Tondelli, Giovanni Testori, Dario Bellezza, Marco Sama, la Nina; i poster di John Giorno, le fotografie di Nan Goldin e Hervé Guibert; il video Pontormo and Punks at Santacroce (1982) di Derek Jarman; le opere di Porpora Marcasciano, Maurizio Vetrugno, Vittorio Scarpati, Corrado Levi, Massimiliano Chiamenti, Lanfranco Baldi. Accanto agli artisti italiani si affacciano però personaggi internazionali come il fotografo-performer francese Gotscho che, insieme alle testimonianze di attivisti come Emmanuel Yoro, contribuiscono ad allargare la prospettiva di una mostra che rischiava di apparire altrimenti claustrofobica.
Grazie a loro si apre invece un dialogo che supera i confini italiani collegandosi ad altre realtà che hanno scelto di raccontare e testimoniare la tragica esperienza di Hiv e Aids: come Artist+ Registry, il più grande database (con sede a New York) di opere di artisti affetti da Hiv/Aids, che si propone «di offrire una risorsa unica per ispirare ed educare il pubblico, assistendo gli artisti sieropositivi, preservando una documentazione visiva delle loro opere, offrendo agli artisti viventi uno spazio online per condividere le proprie opere e a quelli che non sono più con noi un riconoscimento del loro lavoro».
Sono quasi 900 gli artisti presenti oggi nel database. L’Artist+ Registry fa parte di Visual Aids, l’unica organizzazione di arte contemporanea (fondata nel 1988) interamente dedicata «a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’Aids e a creare un dialogo sulle problematiche legate all’Hiv». Proprio Visual Aids ha commissionato per il 2025 sei video ad altrettanti artisti (Camilo Tapia Flores, Camila Flores-Fernández, Hoàng Thái Anh, Kenneth Idongesit Usoro, José Luis Cortés, Gustavo Vinagre & Vinicius Couto) sul legame tra droga e Hiv. Ancora Visual Aids ha sponsorizzato le mostre Ministry al Brooklyn Museum di New York (fino all’11 gennaio) dedicata a Joyce McDonald (1951), artista che ha iniziato a lavorare con l’argilla nel 1997, attraverso un programma di arteterapia, poco dopo la diagnosi di Hiv, e David Wojnarowicz: Arthur Rimbaud in New York al Leslie-Lohman Museum of Art di New York (fino al 18 gennaio) incentrata sulle affinità tra l’artista, fotografo, scrittore e attivista statunitense e l’autore (maledetto) di Una stagione all’inferno.
Il Centro Pecci (primo museo in Italia costruito ex novo per l’arte contemporanea inaugurato nel 1988) torna con questa mostra a proporre l’idea del museo come luogo di riflessione profonda, come spazio ideale di confronto e di memoria attiva. Anche su argomenti scomodi, difficili, in qualche modo divisivi come appunto Hiv e Aids. Una mostra che oltretutto nasce dall’archivio costruito a più voci dal direttore Stefano Collicelli Cagol con Valeria Calvino, Daniele Calzavara e i Conigli Bianchi, che raccoglie documenti, manifesti, articoli di giornale, video, tracce sonore che, come appunti, tratteggiano la dimensione storica, politica, sociale e culturale dell’Italia tra il 1982 e il 1996.
Vivono si trasforma in questo modo in uno strumento per raccontare storie di anni dolorosamente bui in un patrimonio comune, in un invito a non dimenticare. E a guardare all’arte come a qualcosa che può curare (almeno lo spirito) e dare speranza. D’altra parte, Art non è anche l’acronimo dell’AntiRetroviral Therapy, la combinazione di farmaci che rallentano o fermano il virus Hiv?