La Lettura, 7 dicembre 2025
Finalmente Canova è (ri)salito a cavallo
All’inizio dell’Ottocento il gusto neoclassico fu l’esito di più componenti: la riscoperta dell’Antico, l’affermazione dell’Illuminismo e la nascita della borghesia. L’Europa e il Nord Italia in particolare furono invasi dal nuovo gusto: neoclassico, neoegizio, neoetrusco... con un gran diffondersi di manifatture e di argentieri e mosaicisti all’opera, oltreché di decori sulle facciate dei teatri e dei palazzi signorili e di corsi d’Ornato per gli studenti delle accademie d’arte. Ma ottant’anni fa, il mammasantissima della critica d’arte, Roberto Longhi, seppellì con lapidaria ferocia il maggiore interprete di questa corrente, Antonio Canova, definendolo «uno scultore nato morto». Questo anatema cancellò dalle patrie mostre cavalieri e cavalli dell’età neoclassica: il mastodontico equino scolpito in gesso da Canova per Foro Bonaparte, e poi dirottato come modello per le statue equestri dei re di Napoli, fu fatto in duecento pezzi (tanto bassa era la considerazione) e ricoverato nei depositi del museo di Bassano del Grappa, città dove il fratellastro dello scultore aveva destinato le carte. Poi venne il Sessantotto engagé e l’«eterna bellezza» dell’espressione neoclassica – un’arte senza progresso – rimase sigillata nei cassetti.
Possiamo dire che fu solo con la postmodernità che gli esiti delle pratiche artistiche «a cavallo» tra fine dell’Ancien Régime, età napoleonica e Controriforma furono tirati fuori dalla naftalina. Vuoi per vezzo frou-frou (vuoi mettere un busto in salotto?) vuoi perché erano la nostra storia. E così, quest’inverno milanese 2025 presenta in contemporanea tre mostre su questa sua età dello splendore: Appiani. Il Neoclassicismo a Milano a Palazzo Reale; Andrea Appiani. I documenti e le carte intestate di un artista del Neoclassicismo all’Archivio di Stato e, appena inaugurata, Eterno e visione. Roma e Milano capitali del Neoclassicismo alle Gallerie d’Italia di piazza della Scala.
Ad accogliere i visitatori di quest’ultima proprio il magniloquente cavallo in gesso color bronzo di Canova, qui segno iconico dell’avvenuta Liberazione... da Longhi.
Non è utile cercare chi fu il primo – se Luciano Patetta con la mostra del 1978 alla Besana intitolata L’idea della magnificenza civile: architettura a Milano 1770-1848 o le pionieristiche Architettura neoclassica in Lombardia di Gianni Mezzanotte o Neoclassicism di Hugh Honour – a riscoprire la terna classicismo-Italia-modernità bensì riconoscere che a queste mostre (Francesco Leone e Fernando Mazzocca ne curano addirittura due!) si arriva dopo decenni di impegno storiografico. Basti pensare alla messe di studi ed eventi per l’anniversario canoviano del 2022 – tra cui il lentissimo avanzare dell’edizione nazionale degli scritti dello scultore e la digitalizzazione delle sue seimila lettere a Bassano —, a quelli su Piranesi e Winckelmann e a quelli per l’anniversario napoleonico: è di questi giorni l’uscita per mimesis degli Atti del convegno sulla corte napoleonica milanese che si svolse a Palazzo Reale nell’ottobre del 2021 (Tra Parigi e Milano. La corte napoleonica e le sue relazioni internazionali).
Il cavallo di Canova restò solo un gesso così come il cavallo di Leonardo solo su carta: non furono mai fusi. È vero che Canova fu sempre politicamente incerto su quale cavallo salire, ma gli va dato merito di avere recuperato le opere d’arte trafugate da Napoleone, tra i quali proprio il Codice di Leonardo e i cavalli della Basilica di San Marco.
Roma e Milano furono a quei tempi due capitali diverse. Quando Napoleone arrivò nell’Urbe mise fine alla ricca stagione del Grand Tour. Il banchiere antiquario Thomas Jenkins, scappando da Roma nel 1798, scriveva in tutta fretta al collega collezionista londinese Charles Townley che era arrivata la fine del mondo: «Poor Rome and its inhabitants have suffered a fatal catastrophe». Milano, invece, vedeva in Napoleone un liberatore e si avviava, con il vicerè Eugène de Beauharnais a essere, come scriveva il figlio di Piranesi nel 1808, «la Capitale dove intraprendere dei lavori, cambiarsi i lumi, e formarne una Accademia d’industria». Roma e Napoli sedevano su un’antichità baciata dagli dei; a Milano gli uomini dovevano costruirla con il lavoro.
Intorno al cavallone sono disposti in mostra alle Gallerie d’Italia vari modelli della statua di Marco Aurelio in Campidoglio, archetipo per tutti gli scultori equestri, e la testa di cavallo di Donatello destinata al monumento equestre del re di Napoli Alfonso d’Aragona. Ma nella mostra va osservato ciò che sta intorno al cavallo: le manifatture all’antica di Righetti e dei Manfredini, il mantello e le insegne del potere di Napoleone, i disegni acquarellati per il Foro Bonaparte dell’Antolini e la lunga sfilata dei ritratti dei protagonisti dell’epoca che volevano sentirsi moderni sentendosi antichi. Tra questi Giuseppe Bossi, pittore, studioso di Leonardo, collezionista e fondatore della Pinacoteca di Brera: un personaggio postmoderno nella sua trasversalità e nell’adesione agli ideali di libertà portati dalla Rivoluzione francese al quale la città potrebbe dedicare una mostra.
Nell’esposizione di Palazzo Reale, curata con lo Châteaux de Malmaison e dedicata al pittore della corte napoleonica Andrea Appiani, è importante osservare i disegni preparatori per i cicli di affreschi che dovevano decorare la sala da ballo di Palazzo, rimasti incompiuti. Appiani, suggerisce la piccola mostra all’Archivio di Stato, fu anche «l’inventore» della carta intestata. L’esigenza di rappresentanza della corte di Milano dopo l’incoronozione di Napoleone in Duomo nel 1805 portò a realizzare, ad uso delle cancellerie, varie carte con incisi in alto figure mitologiche inneggianti a Liberté, égalité, fraternité. Nonostante tanto sfarzo, gli eredi di Appiani caddero in miseria e l’Archivio di Stato espone i biglietti da 100 lire per una lotteria bandita nel 1877 dal Comune a sostegno dei figli del pittore: in palio due affreschi strappati del padre. Ora appartengono alle collezioni civiche, ma era il segno che l’Italia unita si era lasciata alle spalle Napoleone e il Neoclassicismo in favore del mito degli eroi romantici.