La Lettura, 7 dicembre 2025
Intervista a Susanna Nicchiarelli
Una delle migliori registe italiane, di certo la più originale, pluripremiata, Susanna Nicchiarelli scrive il suo primo romanzo: Paradise City (Mondadori). Fino a qui, nei film, ha esplorato mondi lontani: dallo spazio, il sogno di andare nello spazio (Cosmonauta), alla vita di Santa Chiara (Chiara), passando per Eleanor Marx, figlia minore di Karl Max (Miss Marx), e la cantautrice Nico, prima voce con i Velvet Underground, poi solista (Nico, 1988), esplorando insomma un femminile scomodo e ribelle. Con il romanzo, invece, Nicchiarelli racconta sé stessa, la sé adolescente a partire dai diari ritrovati che analizza con sguardo scientifico, mai sentimentale. Questa la forza del libro: un viaggio all’origine di sé – il momento in cui qualcosa si spezza – che è un viaggio all’origine dell’immaginario di regista.
Lucido, poetico, malinconico, impietoso e tenero, Paradise City è la vivisezione di un’adolescente degli anni Ottanta (capelli, occhi, lentiggini), del suo bisogno di accettazione che diventa lente d’ingrandimento per raccontare una classe sociale e un’epoca. Ma proprio dove sembra ridurre, personalizzare, Nicchiarelli universalizza: Roma Nord è il mondo che esilia il diverso, e la protagonista un femminile invisibile che esplode di colpo e si trova, si perde, e si ritrova. Nell’esplosione Nicchiarelli adolescente è le protagoniste dei suoi film – Luciana, Nico, Eleanor, Chiara. È Pinocchio ragazzo che guarda le spoglie di sé, il burattino di legno abbandonato sulla sedia.
Perché riprendere i diari dell’adolescenza?
«Volevo capire cosa fosse successo di preciso in quegli anni».
E?
«Tornando laggiù trovo la ferita, un modo di vedere il mondo, ma principalmente come il mondo vede me».
Lo sguardo degli altri?
«Non avevo capito come ero vista».
Quando lo capisce?
«Ho tredici anni, sono in prima liceo scientifico, scuola di preti, vado via da una festa a casa di un compagno di classe, e dietro di me sento la voce di un ragazzo che chiede: “Se ne è andata?”. Poi il coro: “Senti qua-, senti qua-, senti quanto puzza”. Mi chiamavano puzzola e io non lo sapevo».
Reazione sua?
«Scendo le scale con mia madre, entro in macchina. Ricordo i pensieri».
I pensieri.
«Penso che non potrò avere una vita felice, che non potrò mai essere come gli altri, perché non sono come gli altri. Perché sono una alla quale si dedicano cori da stadio, una da prendere in giro, un fenomeno da baraccone».
Da allora?
«Ogni amicizia che faccio, ogni gesto è un tentativo di recuperare qualcosa che nella mia testa è irreparabile. Quell’essere diversa e derisa».
Recupera?
«Sono tentativi a vuoto i miei, e ostinazioni. Nel diario trovo pagine e pagine di ritorni da feste. “Che festa di merda”, scrivevo il 9 ottobre 1990. “Stavo riuscendo a ritrovarmi meglio in classe, a stare meglio con me stessa. Perché, perché mi sono fatta quella cazzo di pettinatura? Se solo potessi tornare indietro. La prossima volta. Ci sarà una prossima volta? Non ce la faccio più”».
Quindi cosa è avvenuto nella sua adolescenza – come nell’adolescenza di ciascuno?
«La frantumazione dell’immagine».
Cioè?
«A quindici anni, rivedendo i filmini delle vacanze, mi accorgo che non ci sono più, mio padre smette di riprendermi. Sono un braccio, un ciuffo di capelli».
Era vero?
«Mio padre inquadra i panorami, per lui i viaggi sono i panorami. Ma al tempo io mi convinco che anche lui non può più vedermi. Così cercarmi nei filmini diventa un’ossessione».
Si trova?
«A pezzi».
Inizia la ricerca della verità?
«Impiego molti anni a capire che la verità non è quella negli occhi degli altri, o non completamente. Sei tu che devi sapere chi sei».
Lei lo ha saputo?
«Ogni film per me è il tentativo di saperlo».
Eppure nei suoi film lei non racconta mai di sé. Chi sono quei personaggi adolescenti rispetto a lei?
«In Cosmonauta la protagonista bambina arrabbiata col fratello apre la scatola dei suoi tesori e glieli butta. Mentre giravamo la scena l’organizzatore mi dice: “Certo che tu da piccola eri tremenda”».
Lei?
«“Non sono io” ho detto. Ed è vero, mai io avrei avuto il coraggio di fare un’azione tanto sfrontata. Rileggendo i miei diari scopro la mia capacità di incassare. Non reagisco a niente, non mi ribello».
A differenza delle protagoniste dei suoi film.
«In un’intervista a Nico chiedono se avrebbe voluto più successo. Lei risponde: “Io non voglio piacere a tutti. Sono molto selettiva col mio pubblico».
Susanna Nicchiarelli?
«Io voglio piacere a tutti, e di conseguenza soffro. Nico è la distanza, il menefreghismo, la sicurezza che io non ho».
Il rapporto tra Susanna Nicchiarelli e Nico?
«Di ammirazione. Spero di arrivare a capire quello che ha capito lei».
Cosa?
«Lei dice: “Io sono stata in cima, e sono stata in fondo. Entrambi i posti sono vuoti”».
Concorda?
«La vita è in mezzo».
Ma?
«Serve tempo per arrivare lì: né in cima né in fondo».
Susanna Nicchiarelli ha raggiunto quel luogo?
«Per diventare me è servito tempo. Ancora oggi ci sono situazioni dove mi sento a disagio».
Una situazione?
«Nei contesti eleganti ridivento la quindicenne fuori luogo. Sebbene ora vada meglio, all’inizio era un disastro».
Nello specifico?
«Venezia, 2009: io vado a presentare Cosmonauta, il mio primo film».
Come si sente?
«Quando mi sono rivista, ecco. Alla televisione, ricordo un servizio di Teresa Marchesi che diceva: “Oggi a Venezia Paris Hilton e, tutt’altra cosa, Susanna Nicchiarelli».
Un complimento.
«Un grande complimento, solo che io mi concentro sulla distanza in negativo, tutt’altra cosa si trasforma in inopportuno. Mi vedo inopportuna: nel montaggio c’era l’immagine di Paris Hilton elegantissima, splendente, e subito dopo io sul red carpet in jeans e maglietta, goffa, spalle curve».
Sensazione?
«Di vergogna. Ma davvero non sapevo come vestirmi, non sapevo niente. Per la premiazione mi presento con un vestitino di felpa H&M. Ricordo una ragazza della produzione che voleva prestarmi un suo abito elegante: non mi entrava, e per provarlo rompo la zip».
L’episodio più brutto dell’adolescenza?
«Mia madre consiglia: “Se t’insultano tu sorridi”. Solo che il ragazzo che mi insulta, al mio sorriso ribatte: “Hai i denti dello stesso colore dei capelli”».
Dopo tanti rifiuti il disvelamento?
«Una sera prendo un acido. Prima e ultima volta nella vita. Il giorno dopo ho l’impressione che l’effetto non sia passato e m’impaurisco: penso che non tornerò più quella di prima. Lì capisco l’importanza della coscienza e capisco che amo me stessa per come sono. Ho il terrore di aver perso per sempre me stessa. Non andrò all’università, non potrò studiare filosofia, penso. Non potrò crescere, leggere, imparare le cose che volevo imparare».
La pagina di diario che commenta l’episodio?
«Sono io, sono io che scrivo eppure no, non io, boh. Sto vivendo, che pazzia. L’ennesima cosa per provare, per vivere. E amo vivere. Mio fratello, mia sorella, voglio tornare a casa con loro».
Il cambiamento?
«Vado con un’amica a ballare in un capannone fuori dal Raccordo anulare. Noi che partecipavamo solo a feste nei circoli e nelle case eleganti. Nel capannone mi sento bene, balliamo su Bob Marley. Bob Marley ci dice di non lasciarci influenzare, di pensare con la nostra testa. Ci dice che una luce prima o poi uscirà dal buio, e dobbiamo restare quello che siamo. Abbiamo una sola vita da vivere, e io allora penso: “Resta viva, amica mia, resta viva”».
A quel punto?
«Smetto di lavarmi, mi vesto come Bob Marley. Per la prima volta mi sento nella mia vita. Fregandomene dei “curati di più”, “sfoglia un giornale di moda”. Trovo me stessa smettendo di curarmi».
Conseguenza?
«A parte la libertà, una volta una signora mi ferma al cancello del mio condominio per impedirmi di entrare. Mi scambia per un’albanese, dice proprio: “Albanese”. Il mio aspetto è diventato ormai inaccettabile per quell’ambiente».
Cosa direbbe a un adolescente di oggi?
«Cosa dico a mia figlia se la prendono in giro: “Rispondi”».
Non «sorridi» come diceva sua madre?
«No».
Il valore di rispondere?
«Vorrei insegnare a mia figlia e in generale agli adolescenti l’importanza di relativizzare, ma poi ricordo me alla loro età. Il punto è capire chi sei. Appena capisci chi sei, ti sei liberata. Nel frattempo, rispondere: le risposte sono prove di identità».
Susanna Nicchiarelli adulta?
«Ho un marito e due figli, Luciana di 12 anni, e Giacomo di 7. Abito a Porta Maggiore. Ho incontrato mio marito sul lavoro, anche lui, casualmente, arriva da Roma Nord. Il giorno che ci stavamo trasferendo gli ho detto: “Andiamo sempre più lontano da casa”».
Roma Nord?
«All’università ho fatto Filosofia, una sera i miei compagni mi riaccompagnano a casa. Vedendo dove abito, il verde, uno commenta: “Ma che belle case, che bella gente, ci manca solo Bambi”».
Dunque?
«Lì capisco che il mio problema non era solo la scuola: era tutto».
Tutto?
«La scuola privata, la piscina nel condominio: quell’infanzia a cui a vent’anni guardavo con nostalgia era intrisa di ingiustizia e di privilegio, era qualcosa che non avevo meritato».
Senso di colpa?
«Di natura sono incline a attribuirmi colpe. Penso spesso che avrei potuto cambiare gli eventi, intervenire».
Esempio?
«Quando è morto il mio gatto, Gagarin, mi sono convinta che se non gli avessi lasciato la porticina aperta… la sera lui va in giardino, sta male. La mattina dopo lo troviamo morto sotto l’albero».
Se non avesse lasciato la porticina aperta?
«Sarebbe morto ugualmente, come ha detto il veterinario».
Come conciliare immaginazione e realtà?
«Con l’esperienza, credo. Mentre mia figlia non ha voluto vedere Gagarin morto, mio figlio sì, aveva 4 anni e mezzo. Io gli dicevo: “Gagarin si è addormentato”, e lui: “Poi è morto”. Ero convinta che fosse ingiusto turbare un bambino piccolo con la morte, al contrario lui voleva sapere. Aveva bisogno di vedere».
E?
«Seppelliamo il gatto. Mio marito e mio figlio scavano una buca con la paletta. Io vedo in loro la sicurezza, l’equilibrio nel rapporto con la vita».
Susanna Nicchiarelli e la realtà?
«Finché posso, oltre l’evidenza, non mi rassegno».
Ovvero?
«In campagna abbiamo un melo rinsecchito. Il signore che cura il giardino voleva tagliarlo, io gliel’ho impedito, mi sembrava che stesse spuntando qualche piccola mela. Difatti l’altro giorno gli ho mandato una foto. Intravedevo delle foglie, un segnale di rinascita».
Risposta del signore?
«“Il melo è morto”».