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 2025  dicembre 08 Lunedì calendario

Intervista a Catena Fiorello

Con Catena Fiorello stiamo parlando del suo nuovo romanzo Rizzoli, Vita e peccati di Maria Sentimento, e salta fuori che doveva uscire a maggio, ma è stato rinviato, perché lei stava male. Chiedo come sta ora. E lei: «Bene, ma sono stata quasi morta».
Per il tumore al seno di cui soffriva?
«Quello è guarito. Sono finita invece in sepsi per una colecistite malcurata. Arrivo in ospedale e il medico dice: “È in sepsi, non garantisco l’esito”. Mi hanno operata d’urgenza, ho fatto un mese ricoverata, poi mesi di convalescenza. Ho rischiato la vita».
Cosa era successo?
«Avevo coliche terribili. Vado da un grande specialista che mi dice che devo operarmi, però prima inizia a farmi una serie di esami inutili. Le settimane, i mesi passavano e stavo peggio. Insisto con l’esimio professore e lui sempre “sì, però…”. Finché mi viene la febbre a 40 e mezzo. E lui, al telefono: prenda l’antibiotico, prenda questo, quell’altro. La febbre non scendeva, misuro la pressione e avevo 52 di minima e 70 di massima. Un amico medico ha detto che ero di sicuro in shock settico. Ero a casa a Roma, ho costretto Paolo, il mio compagno a portarmi a Tricase, nel Leccese. Avevo letto che c’era un ospedale d’eccellenza, con un medico catanese che faceva miracoli specie con le malattie dell’addome. Ho detto: se sto morendo, almeno, voglio che mi curi un siciliano».
E per avere un medico siciliano si è messa in macchina con un’infezione potenzialmente letale in corso?
«Sette ore d’auto. Ho girato un video, da mandare ai miei fratelli e mamma in caso di morte, in cui dicevo: cari Rosario, Beppe, Anna, cara mamma, qualunque cosa succeda, sappiate che non è stato Paolo che mi ha voluto portare a Lecce. Avevo pensato: se muoio, daranno la colpa a lui. Ma io volevo andare dal dottor Massimo Viola, genio della robotica. Arrivo, lo trovo, mi opera subito».
E com’è andata?
«Aveva detto che l’intervento sarebbe durato un’ora e mezzo. Dopo quattro ore e mezzo, ero ancora in sala operatoria. Paolo pensava che fossi morta. Ma avevano scoperto una pancreatite, un nodulo incistato nel duodeno… Quella notte, c’era la finale di Sanremo. Non avendo detto niente ai miei, avevo chiesto a Paolo di rispondere ai miei messaggi come se fossi io. Quando mi sono svegliata dall’anestesia, mi ha detto: ho commentato con tua sorella tutti i look del festival».
Cos’ha pensato in quelle sette ore d’auto?
«Ho scoperto che quando ti senti morire, non hai paura di niente: stai così male che vuoi solo che il dolore finisca. Pensi: se devo morire, morirò, se devo campare, camperò».
Essere stata così vicina alla morte l’ha cambiata?
«No perché non è la prima volta e so che la morte ci cammina sempre vicino. Cosa che esalta la bellezza della vita. L’altra cosa che ho capito è che, quando pensi di morire, non desideri niente per cui servono soldi: vuoi fare una passeggiata, abbracciare la mamma, il cane…».
Tanto carattere ricorda quello delle donne siciliane dei suoi romanzi. Quanto c’è della sua genealogia familiare in «Vita e peccati di Maria Sentimento»?
«Lavoro al libro su Maria da almeno otto anni. Per i primi due, ho fatto solo ricerche storiche su quel periodo magico di Taormina, fra gli anni ’50 e ’60, quando vi si ritrovavano tanti artisti, quando Greta Garbo stava in una villa a Letojanni, il mio paese natio, fatto di pescatori e casalinghe e passavano Pablo Picasso, Gloria Vanderbilt, capi di Stato, Ava Gardner, il mondo. Quando si dava una cena, si chiamavano in cucina le donne del paese e fra loro c’era mia nonna Catena. In certe case, passavano Truman Capote e Tennessee Williams e, nel libro, Maria va a lavorare in una di queste case».
Come sua nonna, Maria è vedova, ha tre figli dal marito e un quarto, Antonio, di padre ignoto.
«Il quarto figlio, ovvero mio padre, Nicola, non si sa con chi l’ha fatto».
Suo papà ha poi scoperto chi era suo padre?
«Lo scopre quando arriva la cartolina per partire militare. Ha 21 anni, deve andare a Gorizia, e mia nonna gli dice: ora che sei un uomo fatto, quando arrivi, devi scrivere a tuo padre. E lui: sì, e chi è? Papà lo scopre così e manda una cartolina che io vedo dopo 55 anni, per mano di un pronipote di quel signore».
Sta dicendo che non gliel’ha raccontato suo papà?
«Esatto. L’unica volta che gli abbiamo chiesto chi era il nonno, ha risposto: io il papà non l’ho avuto, perché aveva altro da fare. Mia nonna per tutta la vita gli disse soltanto “tuo padre ti voleva bene, ma aveva altro da fare”. Nonna è stata rivoluzionaria. Quando disse a quell’uomo che era incinta e lui rispose che non se la sentiva, lei disse: nessun problema, ci penso io. E per tutta la vita, mia nonna non trasmette a mio padre né rancore né rabbia. Anzi, alla prima occasione, dice al figlio: rispetta tuo padre e mandagli una cartolina. Io l’ho vista. Diceva “caro padre vi mando un abbraccio forte da Gorizia, vostro figlio Nicola”. In pratica, gli sta dicendo: grazie che mi hai messo al mondo».
E sembra di capire che quel ragazzo cresciuto senza papà sia stato un padre fantastico.
«Nonna gli ha dato degli strumenti tali che è diventato un padre eccezionale. Tutto quello che lui non ha avuto come figlio lo ha dato a noi. Mamma era severa, lui era tenero. Se un giorno non volevamo andare a scuola, chiudeva le finestre per farci riposare. Nel 1990 è morto senza avere un conto corrente, tanto lo stipendio finiva il 20 anziché il 27. Anche per la sua generosità: se a qualcuno piaceva una sua camicia, se la toglieva e gliela dava. A fine mese, si faceva prestare magari dei soldi da un collega, in particolare dal maresciallo Nino Bucca: ancora oggi gli dico grazie, perché ha permesso a mio padre di stare sereno tante volte. Comunque, non ho visto mai mio padre arrabbiato con la vita o in ansia. Diceva: Dio ci aiuta, non ci lascia in mezzo alla strada».
Nel romanzo, Antonio, il figlio di Catena, canta come Domenico Modugno. Suo padre cantava?
«Cantava Modugno perennemente. Era identico fisicamente a lui e, per cantare, se ne stava andando con un circo, ma mia nonna si presentò al direttore del circo, lo prese per la giacchetta e gli disse: non cercare più mio figlio, se no, vi ammazzo tutti».
Non succede spesso che in una famiglia tre fratelli abbiano il successo che avete lei, Rosario e Beppe. Nella biografia familiare dove rintraccia il germe della capacità di realizzare il talento?
«La risposta è facilissima: nella casa di nonna Catena in via 4 novembre, 61 a Letojanni. Lei era bravissima a fare le imitazioni e la casa era un circo continuo con un via vai di personaggi che andavano da lei a confidarsi, raccontare i propri guai. Il giorno del mio decimo compleanno, incontrammo una famiglia di Milano che non trovava un albergo, avevano un bambino, erano disperati, e papà li portò da nonna. Si chiamavano signori Ceva. Li vorrei ritrovare. Noi dormivamo in quattro in un letto matrimoniale, Rosario e Beppe in due lettini, nonna su una poltrona, mettemmo i Ceva in soffitta, per terra. Restarono dodici giorni. “I più belli della nostra vita” dissero i signori Ceva quando se ne andarono».
Ed erano stati belli davvero?
«Per forza, siccome c’erano i milanesi, la gente del paese veniva a portare frutta, verdura, cibo».
Quindi, che c’entra il caos della casa di sua nonna col vostro talento?
«Il nostro talento nasce là. Perché un esempio come quello ti fa sviluppare la fantasia, la libertà».
Nel romanzo, ci sono anche famiglie patriarcali in cui le donne incassano botte dai mariti restando zitte. Il patriarcato esiste ancora?
«Le presentazioni dei miei libri le chiamo “riunioni familiari’, sono collettivi di psicanalisi, parliamo di tutto tranne che del libro e tante donne mi avvicinano e poi mi scrivono. La percentuale di donne che hanno avuto uomini violenti è alta, in qualunque classe sociale. Il patriarcato è ancora ovunque».
La differenza fra quello del suo romanzo e quello di oggi?
«Oggi sembra che sia scomparso perché le donne possono uscire di casa, viaggiano, lavorano. Ma è solo apparenza, perché nella realtà dei fatti io vedo anche amiche che, per uscire, devono chiedere il permesso al marito».
Nonna Catena come se la cavava col patriarcato?
«La nonna menava il vicino di casa, quando lo sentiva picchiare la moglie. Era piccola, gracile, ma si fiondava a casa loro e si buttava su di lui per togliergli la moglie di sotto. Gli tirava i capelli e lui, toccandosi la cute, le urlava: bastarda! Poi, nel libro, la vicina di casa di Maria, dice: “è colpa mia perché parlo a vanvera e lo faccio arrabbiare”. E ancora oggi io dico che per vincere il patriarcato dobbiamo andare nelle scuole a guarire le ragazze da pensieri come questo».