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 2025  dicembre 08 Lunedì calendario

Gli alberi illuminati, a migliaia in piazza per la corsa al selfie. Ingorghi a Milano

«Ma sei proprio sicuro che non siano usciti tutti pazzi?». «No, no, è semplicemente il Natale».
È un passaggio di un gustosissimo articolo di Dino Buzzati, pubblicato sul Corriere della Sera nel 1959 con il titolo «Troppo Natale». E per fortuna che all’epoca non avevano ancora i telefonini per fotografare l’albero in piazza Duomo e nemmeno i social dove riversare fiumi di luci, jingle, selfie e tutto quello che ancora oggi rende «troppo» il Natale. Come era decisamente troppa la gente che sabato ha preso le sembianze di una fiumana tumultuosa, come quelle dipinte da Pellizza da Volpedo ma con i cellulari in mano per riprendere l’accensione dell’albero di Natale in piazza Duomo, ispirato ai Giochi Olimpici invernali. La maestosità di un abete rosso di 29 metri, cresciuto con l’acqua fresca dei boschi del Trentino e «vestito» con oltre 100 mila microled e sfere bianche perlate. Irresistibile.
Per troppi, però, come ha detto il sindaco Giuseppe Sala, dopo aver preso nota di strade laterali bloccate e ingorghi anche per la presenza in piazza del maxi schermo per seguire la Prima della Scala di ieri, oltre al mega store dell’Olimpiade. «Una follia immaginare di fare un concerto di fine anno lì», è stata la battuta di Sala con la quale si è preso una rivincita, dopo l’incalzare di Matteo Salvini che è tornato a chiedere un evento musicale di fine anno, al grido di «Piazza Duomo non sia terra di nessuno».
Un pericolo scampato in questo Natale di led, torce e tante luci, come a Bari, dove l’albero in piazza del Ferrarese si è illuminato nei suoi 14 metri d’altezza con 50 mila lampadine colorate, perché come ha detto il sindaco Vito Leccese, «la pace è frutto di armonia tra sfumature diverse». Risultato: diecimila persone tra la piazza e i vicoli della Città Vecchia, nonostante la pioggia. Emozione a Gubbio, dove l’albero di Natale è il più grande del mondo, sancito dal Guinness dei Primati: quasi mille corpi luminosi disposti sul monte Ingino a formare una gigantesca forma di abete con stella, da ieri illuminata. Folla a Firenze, richiamata dalle migliaia di lucine sull’abete incastonato tra la cattedrale di Santa Maria del Fiore e il Battistero, mentre ad Assisi l’accensione dell’albero nella piazza inferiore della Basilica di San Francesco, prevista per oggi, è stata preceduta da un collegamento con Betlemme, dove il simbolo del Natale è tornato a illuminarsi per la prima volta dal 2022. E proprio pensando al Medio Oriente (ma non solo) ci si chiede, come fece Francesco Alberoni in uno scritto del 1992, «come fa ad esistere ancora il Natale in questo mondo spietato?».
Eppure le città addobbate, anche quelle con i centri storici feriti dall’allontanamento della vita vera, ci raccontano lo spettacolo di decine di migliaia di adulti che si accalcano per le luci, promessa di una breve pausa luminosa e sospesa dall’«attualità», ormai regina dei pomeriggi televisivi, tra misteri irrisolti e accoltellamenti. E allora non stupisce che uno dei messaggi più commoventi affidati ai rami dell’albero di Natale allestito nella Stazione Centrale di Napoli sia quello di Michele, che chiede di «poter diventare capotreno». Alberi giganteschi per sogni troppo piccoli? In fondo il Censis fotografa un’Italia sempre più asserragliata dietro muri di sfiducia.
Servirebbe un esercito di Babbi Natale in tutona rossa, barba bianca e risata antica per rianimare i sogni dei più piccoli. Come il battaglione di 40 mila Santa Claus che a Torino ha attraversato la città dalle colline fino allo stadio prima di riversarsi davanti all’Ospedale Infantile «Regina Margherita», nella sfilata che come da tradizione, a ridosso dell’Immacolata, sostiene il nosocomio pediatrico.
E l’albero, in fondo, che cos’è se non l’incarnazione vegetale del cosiddetto «effetto Natale», studiato dalla psicologia: un rasserenante senso di sicurezza che si ritrova nel gesto di appendere le palline o di accendere le luci, rituali con i quali siamo cresciuti e che continuano a «fare casa». E dove diventa più dolce il senso della dimora se non nella città dei «senza casa»? Cioè i milanesi d’adozione, o quelli che una casa a Milano se la possono permettere, sì, ma con molta fatica.