Corriere della Sera, 8 dicembre 2025
L’ultima frontiera dello scontro dopo quelli su Kiev e leadership. Così è finita la «pax schleiniana»
Ragazzi, che fatica. Prima per metterli tutti insieme, poi per tenerceli, tutti insieme. Quindi per andare alla carica alle Regionali, per convincerli che si può essere competitivi, e il girone d’andata ti va malino, quello di ritorno magari più che benino, ma no che ancora non basta. Hai voglia a spiegare che la candidata premier non puoi essere che tu, perché avrai più voti, o perché ci sarà un nome da mettere sulla scheda di una legge elettorale riformata, oppure perché, alla fine, sarai sempre tu a vincere le primarie.
Macché, ci si mette pure Giorgia Meloni, che pareva la tua alleata migliore nello spingere perché il duello potrà essere solo tra voi due, le gemelle diverse e implacabili della politica italiana, e ora invece ti invita ad Atreju, ma insieme a Giuseppe Conte, perché non è lei, la premier, a decidere chi è il leader dell’opposizione. E figuriamoci se l’avvocato del popolo se la fa scappare l’occasione, sostenuto da Rocco Casalino, che ha da tempo messo nel cassetto l’uno vale uno e rilancia Giuseppe nel nome del curriculum e della competenza. E poi ancora il tuo partito, dove l’area riformista, e non solo, pensa che non puoi vincere, perché sei troppo estremista, e anche se vincessi non sarebbe un bene, perché sei troppo estremista. E fin qui passi, perché Elly Schlein non è una che si mette paura facilmente, e dei giochi di Palazzo se ne fa un baffo, convinta com’è che tra i suoi oppositori le chiacchiere sono tante, ma i voti pochini. Ma, come al solito, c’è dell’altro, più denso e più insidioso, irto dei temi della politica, estera e interna.
Elly Schlein ha vinto le primarie 2023 del Pd con il 53,8%, battendo Bonaccini: è la prima donna segretaria del partito. Su di lei cresce il pressing interno per rivendicare la guida della coalizione di centrosinistra. Schlein ha aperto alle primarie sulla leadership o proposto che candidato premier sia il leader che prende più voti
Può darsi che ci sia pure la voglia di dare un calcio sulle ginocchia della segretaria, da parte di Graziano Delrio, ma resta il fatto che il suo disegno di legge contro l’antisemitismo ha scoperchiato, per lo meno, un bel po’ di ambiguità. Gad Lerner lo mette in guardia: «Ma non ti rendi conto che la legge speciale a tutela di noi ebrei, pur con le migliori intenzioni, finirà solo per fomentare il pregiudizio antisemita e metterci ancor più nel mirino?». E fin qui, come si usa dire, il dibattito è aperto. Quel post su Facebook però ha ottenuto una valanga di commenti, spesso di apprezzamento peloso. Uno sugli altri: «Condivido tutto, ma è da evidenziare che l’odio per gli ebrei lo sta fomentando il governo nazista di Israele. Fino a due anni fa c’erano solo pochi folli nostalgici del nazismo, oggi a odiare gli ebrei ci sono milioni di persone». Siamo al non giustifico ma li capisco? È così difficile dire una parola chiara su Benjamin Netanyahu, sull’ignobile pogrom del 7 ottobre e sulle orribili stragi di Gaza? Il merito si perde, e nella bocciatura del progetto di Delrio, sul quale magari si poteva ragionare, prevale il desiderio, quasi l’obbligo, di non avere nessun nemico a sinistra, a partire ovviamente dalla Cgil di Maurizio Landini, che in caso di primarie può essere ben più che l’ago della bilancia. E le ambiguità dopo le parole di Francesca Albanese, seguite all’aggressione alla redazione della Stampa, sembrano stare sullo stesso campo di gioco. È proprio a partire da un tema che brucia, come quello dell’antisemitismo, che pare fibrillare la pax schleiniana, faticosamente costruita in un partito storicamente rissoso e con alleati tradizionalmente riottosi.
Un discorso simile vale per gli altri temi, a iniziare dall’Ucraina, dove le divisioni nel centrosinistra sono lampanti. Sono eclatanti anche le spaccature nel centrodestra, con Matteo Salvini che è tornato a pieno titolo a difendere le ragioni di Mosca, però lì c’è un governo che alla fine prende delle decisioni, magari con minor vigore di una volta, ma con il leader della Lega costretto a votarle. Che poi la posizione da prendere sul conflitto si porti dietro il giudizio da dare sull’azione dell’Europa è scontato, e anche lì i contrasti non mancano.
In zona Nazareno c’è anche da aggiustare il tiro sul referendum sulla Giustizia, e non solo perché una buona fetta di riformisti non lo giudica quel progetto come il male dei mali. Si era partiti con un’idea di campagna da bianco e nero: è l’anticamera del fascismo, vogliono mettere in crisi le istituzioni come primo passo per fare ben altro. Pare che siano stati gli stessi magistrati, contrarissimi alla riforma, a dire che no, la strada da seguire non era quella dell’apocalisse. E allora ecco la frenata, ma senza piano B, con il risultato che del referendum ormai parla più il centrodestra del centrosinistra. Pure sulla legge elettorale c’è una gran confusione: il centrodestra vuole metterci mano, per evitare il rischio pareggio, soprattutto al Senato, con il conseguente timore di instabilità e governi tecnici. Guai soprattutto loro, verrebbe da dire, ma nel Pd tanti giurano che Schlein mai lo direbbe ad alta voce, ma una riforma che preveda il nome del candidato premier sulla scheda le piacerebbe parecchio. Altro motivo di divisione, con quelli di Atreju che si danno alla goliardia. Ieri hanno mostrato un cartellone con i volti di Conte e Schlein: «Scusate se vi abbiamo fatto litigare».