Corriere della Sera, 8 dicembre 2025
Il Belgio, gli asset russi e quel rifiuto inverosimile
Nella vicenda del prestito europeo da 140 miliardi di euro all’Ucraina, garantito dai fondi russi depositati presso Euroclear e congelati dalle sanzioni, il premier belga non vuole rimanere col cerino acceso in mano. Qualche ragione Bart De Wever, fin qui irremovibile, ce l’ha: il Belgio, dove Euroclear ha sede, è stato finora il suo principale argomento, non può e non vuole rimanere esposto da solo al rischio finanziario che lo schema comporta, visto che la Russia di sicuro sfiderà legalmente la decisione. Per questo De Wever chiede che gli altri Paesi dell’Unione si assumano collettivamente la responsabilità di un eventuale rimborso.
In verità di argomenti, in queste settimane di intensi negoziati, ne ha messi avanti molti, disparati e alcuni addirittura esilaranti: come quando ha invocato un trattato bilaterale sul «Reciproco sostegno e protezione degli investimenti» firmato da Belgio e Lussemburgo con l’Unione Sovietica nel 1989. All’articolo 5, il testo impegnava i firmatari a «non espropriare, nazionalizzare o sottoporre a misure aventi effetti simili gli investimenti fatti da investitori di uno dei contraenti sul territorio dell’altro». Ma l’Urss non era morta?
Di recente poi, il governo belga ha suggerito che forse la Russia non dovrà compensare l’Ucraina per la distruzione e i lutti che le ha inflitto. Più precisamente, De Wever ha espresso il timore che il prestito a Kiev rischi di mandare in aria il piano di pace americano e gli sforzi per mettere fine alla guerra. È un argomento abbastanza scandaloso, visto che sposta il tema (legittimo) dell’esposizione belga e invece contesta l’idea stessa del prestito, oltre a far scempio del principio delle riparazioni.
Ma c’è un altro punto che rende la posizione del Belgio insostenibile. Sono i vantaggi economici che la sua capitale, Bruxelles, gode da decenni per il fatto di essere sede principale delle istituzioni comunitarie, al punto da essere identificata come vera capitale d’Europa. Oltre 50 mila persone lavorano tra Commissione, Consiglio e Parlamento: tra salari, immobili e servizi, le spese di funzionamento superano i 2 miliardi di euro. Inoltre, almeno altre ventimila sono occupate in settori legati alla presenza dell’Ue (diplomatici, giornalisti, lobbisti, rappresentanti di categoria) generando un volume di spesa pari a 2 miliardi di euro l’anno. Duemila imprese straniere, che danno lavoro a 80 mila persone, hanno una rappresentanza a Bruxelles. Stime prudenti calcolano che le ricadute economiche complessive su Bruxelles e la sua regione oscillino tra gli 8,7 e i 13,9 miliardi di euro l’anno, un quinto dell’intera economia dell’area.
Si potrebbe parlare di ingratitudine, da parte di un Paese fondatore dell’Europa, da cui ha tratto grandi benefici e la cui presenza dentro i suoi confini ha anche una innegabile funzione ammortizzante delle pulsioni secessioniste che da sempre lo travagliano, nella difficile e complessa convivenza tra fiamminghi e valloni. Più semplicemente, fanno specie l’incapacità e il rifiuto di cogliere il carattere esistenziale per l’Europa della partita che si gioca in Ucraina.