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 2025  dicembre 07 Domenica calendario

I farisei, gli ebrei, papa Francesco e Gesù: alle origini della disputa sul Messia

Tra le incomprensioni che hanno reso difficile il rapporto di papa Francesco con il mondo ebraico vi era un dettaglio non insignificante: la ricorrente rappresentazione negativa dei farisei da parte del pontefice nel commentare brani evangelici, rafforzata dall’uso figurato e peggiorativo del termine “fariseo” nel linguaggio comune, e minimizzata in modo abile (ma non risolutivo) da Bergoglio, che replicava alle critiche con una battuta, dicendo che anche ai gesuiti vengono spesso applicati stereotipi.
La questione della posizione dei farisei di fronte a Gesù e ai suoi primi seguaci è complessa perché, nonostante gli scontri riferiti dai vangeli, i farisei non erano pregiudizialmente opposti al predicatore di Nazaret. Come sottolinea, attento alle sfumature, il lunghissimo e importante documento – un libro di duecento pagine – sul «popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana» che nel 2001 ha pubblicato la Pontificia commissione biblica, presieduta dal cardinale Ratzinger.
Nella prefazione il futuro Benedetto XVI ricordava infatti che «i rimproveri rivolti nel Nuovo Testamento agli ebrei non sono più frequenti né più aspri delle accuse contro Israele nella legge e nei profeti, quindi all’interno dello stesso Antico Testamento».
Ratzinger aggiungeva – ripetendo una sua convinzione sin dagli anni giovanili – che secondo il documento vaticano la lettura ebraica della Bibbia è non solo possibile, ma anche «analoga alla lettura cristiana», dicendosi sicuro che le due interpretazioni e la loro integrazione «saranno utili per il progresso del dialogo» tra ebrei e cristiani e per la stessa «formazione interiore della coscienza cristiana».
Divisioni e vicinanze La stessa convinzione di fondo traspare da un libro importante e nuovo del biblista ebreo Israel Knohl (La disputa messianica, Adelphi). Sullo sfondo della questione generale, quasi bimillenaria, del rapporto tra ebrei e cristiani, viene messo a fuoco il contrasto non tra cristianesimo ed ebraismo, bensì quello tra farisei e sadducei a proposito della morte di Gesù, come indica il sottotitolo.
Confermando un indirizzo storiografico recente che insiste – in modo sempre più convincente – sulla mentalità condivisa dai primi seguaci di Gesù, tutti ebrei, e dai loro correligionari.
Solo con il trascorrere dei decenni, soprattutto dopo la distruzione del tempio nell’anno 70, la divaricazione tra cristianesimo delle origini ed ebraismo rabbinico si accentua e si approfondisce. Fino alla separazione, collocata da Shaye Cohen (Dai Maccabei alla Mishnah, Paideia) a metà del II secolo: una divisione segnata dal disinteresse da parte ebraica e dalla polemica dei cristiani. Il cristianesimo maggioritario deve però respingere – proprio allora e con successo – i tentativi di liberarsi del giudaismo da parte degli gnostici cristiani e dell’eresia di Marcione, e questo Cohen lo dimentica.
Molto resta in comune e si va riscoprendo, come mostra Daniel Boyarin. Nel provocatorio e interessante La partition du judaïsme et du christianisme (Les Éditions du Cerf, aggiornato rispetto all’originale Border Lines) e nel successivo Il vangelo ebraico (Castelvecchi), Boyarin ribadisce la pluralità di posizioni all’interno di entrambi i gruppi.
In «un tempo in cui ebrei e cristiani erano molto più mischiati di quanto non lo siano adesso» – scrive – e nel quale dunque «il tema della differenza tra giudaismo e cristianesimo non esisteva nei termini che conosciamo oggi».
La nuova indagine sul messianismo di Knohl, che ha insegnato nell’Università ebraica di Gerusalemme ma anche all’Angelicum, l’ateneo dei domenicani a Roma, ricostruisce limpidamente la nascita e l’evoluzione di un fenomeno che nella storia non è mai scomparso. Come mostra l’esempio famoso di Shabbetay Tzevi, acclamato come messia nel 1665 a Smirne: minacciato di morte dalle autorità ottomane, si converte all’islam ma non viene abbandonato dai suoi seguaci, che danno vita a correnti messianiche.
Knohl non si occupa dei messianismi successivi all’età antica, ma sottolinea con efficacia la vitalità del fenomeno descrivendo una scena a cui ha assistito nei pressi del Muro del Pianto in un Capodanno ebraico, giorno in cui «non solo viene nuovamente incoronato Dio quale re delle nazioni, ma il re della Casa di Davide quale re di Israele». Il biblista concentra infatti la sua analisi sulla Scrittura ebraica, sui libri apocrifi e sugli scritti di Qumran, e tiene presenti i vangeli, ignorando però quasi del tutto quello di Giovanni.
L’atto di nascita del messianismo, anche per Knohl, va collocato nell’anno 727 quando il profeta Isaia, nel momento tragico della rovina politica d’Israele, intravede la salvezza «perché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il dominio e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, I riferimenti sui farisei e il rapporto con il mondo ebraico Principe della pace» (9, 5). Parole profetiche che otto secoli più tardi i cristiani applicheranno senz’altro a Gesù (e che non a caso ricorrono nella liturgia del Natale).
Il servo sofferente Nelle tenebre descritte dal profeta il popolo vede «una grande luce» e allora, come scrive il biblista, appare per la prima volta «una figura mirabile e misteriosa». Knohl segue con sottigliezza l’evolversi dell’idea messianica e sottolinea l’importanza di un’altra catastrofe – la vittoria babilonese nel 587 con l’inizio dell’esilio – e poi il rovesciamento portato nel 539 da un sovrano pagano: è il gran re persiano Ciro a ricevere il titolo di Messia, sottratto alla casa di Davide.
Nello stesso tempo appare «una nuova figura, il servo sofferente, fisicamente debole, ma forte nello spirito e nell’insegnamento», descritto da un discepolo di Isaia nello stesso libro profetico (61, 1-3): «Chi parla è una sorta di “Messia dello spirito”, per usare un termine che poi sarà comune negli scritti della setta di Qumran», osserva ancora Knohl.
Figura con la quale Gesù, nel racconto di Luca (4, 16-21), si identifica all’inizio della sua predicazione.
Il procedere del libro, attento ai contesti storici della Bibbia ebraica, si fa alla fine incalzante sulla vicenda di Gesù.
Nettissima è la divaricazione – ecco la disputa messianica, tutta interna all’ebraismo – tra i farisei, che condividevano con Gesù l’idea di «un re-Messia di natura divina», e i sadducei, la classe sacerdotale conservatrice che al contrario escludeva la possibilità stessa di un Messia.
Sono loro, ostili a Gesù, a spingere per la sua condanna: Knohl li definisce «una fazione minoritaria e non rappresentativa» dell’ebraismo e afferma che l’immaginario messianico ebraico e cristiano era «estremamente simile».
Già il concilio Vaticano II ha fatto con la Nostra aetate «un primo fondamentale passo dichiarando che il popolo ebraico nel suo complesso non deve essere ritenuto responsabile della morte di Gesù», ricorda Knohl. Che con il suo libro intende fornire «un solido fondamento storico a sostegno della dichiarazione conciliare» e contribuire a sanare la «relazione fondamentale» tra ebrei e cristiani.