il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2025
Intervista a Marcello Cesena
Visti i tempi, ha svolto il servizio militare?
No, esubero di leva.
Ahi.
Credo sia stato risparmiato per un fisico non proprio atletico.
Tutte scuse.
(Pausa, poi ride) Ora non mi chieda del mio compleanno tondo, è una questione che mi sta sulle palle.
Altre questioni scomode?
Spesso mi domandano dell’omosessualità per capire se è stata dura, magari del bullismo.
Invece?
Mai!
E sono passati ben 42 anni dal suo debutto cinematografico con Pupi Avati…
C’era il casting per Gita scolastica, cercavano solo 18enni, io ne avevo 25. Gli scrivo ugualmente, e Pupi: “Sei troppo grande”. Mi presento perché da sempre… (si ferma, poi cambia tono, lo alza) anche oggi: i miei settant’anni sono un falso.
Giusto.
Insomma, mi presento da Pupi, mi vede e decide che ero perfetto. Dopo quel film ne ho girati altri tre con lui e mi ha insegnato tutto quello che so della regia.
Esempio
Innanzitutto è stato il primo a dirmi “sei bravo”. E per un attore all’inizio, anzi, all’esordio cinematografico, è una grande notizia.
Dà prospettiva.
La responsabilità di pronunciare un “sei bravo” è uguale alla responsabilità di bollare con “sei un cane”. Non è semplice in entrambi i casi.
(Il “bravo” a Marcello Cesena ha il primo imprinting di Pupi Avati, poi si sono accodati centinaia, migliaia, a volte milioni di voci e di occhi. Di sorrisi. Di risate. Di sue battute ripetute dai fan in stile Jean-Claude, il “baronetto” omosessuale della nobiltà francese, interpretato da vent’anni nei programmi della Gialappa’s band. Il “bravo” è arrivato come regista di film – “peccato per il risultato di “Mari del sud” – e come regista di spot – “quanto mi sono divertito con Proietti”. Il “bravo” è arrivato da Ornella Vanoni ai tempi dei Broncoviz e anche quel “bravo mi ha cambiato la vita”)
Eravamo agli insegnamenti di Avati.
Dietro a lui ho capito chi fa cosa, come si gestiscono gli attori, quali sono le priorità; quando debuttai da regista, ricordo il viaggio in macchina per raggiungere il set. In quei momenti ridevo e riflettevo: “Ma cosa gli dico a questi?”.
Invece?
Sul set ho pensato a Pupi, a quello che avevo visto, ed è stato tutto semplice.
Ha mai assistito a un regista che urla all’attore “sei un cane”?
(Deciso) Sì. Sì.
E… ?
Qualche anno prima di girare con Pupi, mi chiama un noto regista teatrale, sostengo il provino e alla fine mi bolla: “Potrai diventare elettricista, macchinista, quello che vuoi, ma non farai l’attore. La tua voce non va bene”.
Poco diaframma.
Ho la stessa voce di Paperino ma nella versione statunitense: da questo punto di vista sono abbastanza sfigato.
Come prese il “consiglio”?
Malissimo. Devastato. Tornai a casa e mi misi a piangere, con mia madre, attenta, in grado di ribaltare la situazione: “Ti sta mettendo alla prova, non ti preoccupare, vuol dire che ti ha scelto”. Dopo una settimana quel regista mi ha coinvolto con un piccolo ruolo; (pausa) ancora oggi non so come sono andate le cose.
Sua mamma lo ha minacciato?
Tantissime volte nella mia vita, le persone che dovevano scegliermi all’inizio mi hanno liquidato con un “no, non se ne parla”. Poi mi hanno richiamato. A un certo punto ho pensato che mio padre fosse un capo mafioso, attento al figlio, e che telefonasse alle persone…
Con “un’offerta che non potrà rifiutare” alla Don Vito Corleone.
Esatto. Poverino, invece mio padre non era così.
Ha imparato a non scoraggiarsi.
È fondamentale e il mio lavoro ti tempra in modo pazzesco perché è una continua montagna russa di “no” e “sì” e se assecondi i picchi emotivi, duri un mese.
Non è semplice impararlo, meglio se si è portati.
Per riuscirci è utile partire da un presupposto: tutti quelli che incontri sono dei cretini. Così il “no” non colpisce.
La prima bocciatura a teatro è stata di Elio Petri?
No, è un mito. E ho lavorato con lui nel suo unico spettacolo (nel 1980 “L’orologio americano” di Arthur Miller). A quel tempo il teatro era puro, mentre Petri mi disse: “Hai mai pensato di dedicarti al cinema? Hai una bella faccia”.
Com’era Petri?
Aveva il piglio del grande regista di cinema, dell’uomo che non deve mai chiedere niente.
Lei dogmatico sul teatro?
Forse la mia è stata l’ultima generazione che ha vissuto la divisione, netta, tra teatro e cinema; l’anomalo era Pupi: coinvolgeva anche i teatranti, e di me apprezzava tutto, gli dava fastidio solo che avessi frequentato una scuola di recitazione.
Ha superato il fastidio.
Sì, però non mi dava mai prima il copione.
Per averla “nature”.
Scoprivo giorno per giorno le mie battute: aveva il terrore che le imparassi a memoria.
Gigi Proietti era d’accordo con Avati.
Ho lavorato con Gigi: la prima volta ero giovanissimo in un suo spettacolo, e non ero neanche una vera comparsa, più uno sposta-mobili; molti anni dopo, con lui, sono stato il regista di una serie di spot televisivi di un marchio di caffè: per girarli siamo stati una settimana in crociera.
E Proietti?
Un grande e quando un attore diventa adulto e con successo, può diventare o molto cattivo o assolutamente empatico. Era della seconda categoria.
Invece i cattivi…
Ne ho conosciuti molti e manifestano una ferocia terribile verso i giovani.
Con lei?
Qualcuno; una volta Giorgio Albertazzi mi prese per l’Enrico IV e quando ne parlai con un grandissimo attore dello Stabile di Genova, mi rispose “ti caccerà dopo una settimana”.
Sempre per temprarla.
Il mio lavoro, per certi versi, è come il militare con le logiche della caserma e del nonnismo.
Lei ora è nonno?
Se ho una dote è l’approccio con l’attore e la sua direzione, per questo negli spot sono specializzato con i grossi calibri.
È un perfezionista?
Il mio lavoro è bello se pensi “quattro” e il risultato è “quattro”.
Altro che Machiavelli.
Se le due cifre non coincidono il risultato è frustrante; a me piace quando ciò che ho pensato con il gruppo di lavoro ha una realizzazione completa. Su questo sono pignolo.
Il suo personaggio vive, senza cali, da vent’anni.
Questo metodo, basato sulla disciplina, c’è stato sin dall’inizio, anche quando nei primi anni giravo a casa mia, con budget ridotti, situazioni emergenziali, eppure mantenevamo la giusta serietà.
A ego come è messo?
È uno dei nemici del mio lavoro: ti rincoglionisce, va tenuto a bada.
È amato, ma per essere riconosciuto deve indossare parrucca e dentiera.
Una salvezza; giusto i fan più attenti mi riconoscono per la voce; è accaduto all’estero, in metropolitana, con gli stranieri che mi guardavano con l’espressione “ma chi è costui?”; anche pochi giorni fa a Genova c’è stata un’ovazione.
In quei casi, gode.
Quasi sessualmente. Ma conosco i pericoli dell’ego e ridimensiono.
Le critiche come le vive?
I miei bastonatori, e li amo per questo, sono i “Gialappi”: quando gli mando i pezzi, a volte lunghi, arrivano ad apostrofarmi con epiteti importanti, osano l’inosabile.
Quali?
Da testa di cazzo a salire; però per un comico sono fantastici, riparano agli errori, rendono una battuta non riuscita una battuta del secolo; il loro vaglio è fondamentale. Li amo.
C’è gratitudine.
Senza di loro col cavolo che nasceva Jean-Claude.
L’attore comico è spesso molto fragile.
L’ho notato, ma la fragilità aiuta la parte creativa.
Lei?
Raramente uso la fragilità nel lavoro.
Diego Abatantuono ha manifestato un certo dispiacere perché Mari del sud non è andato come meritava.
È un film bellissimo, super programmato, e mi ha fatto guadagnare di Siae.
Ma?
Il nostro mestiere è un azzardo continuo e i fattori di successo e insuccesso non sono sempre prevedibili.
Non si è strappato i capelli…
Ho pensato: andrà bene il prossimo.
Il “prossimo” è stato il Cosmo sul comò con Aldo, Giovanni e Giacomo.
Ha incassato 16 milioni di euro.
È un uomo ricco?
Uno che sta bene; uno che prende delle decisioni senza ignorare il fattore denaro, ma se avessi voluto diventare ricco avrei preso altre strade.
Rivendica i suoi “no” professionali…
All’inizio della carriera ho scansato tutto quello che serviva per diventare noto; oggi sono soddisfatto di quei “no”, al tempo non capivo bene la mia scelta.
Esempio.
Rifiutavo le ospitate come al Maurizio Costanzo Show.
Mai fatto?
Solo una volta con i Broncoviz.
Costanzo cambiava la vita.
Lo so, ma affrontavo quelle situazioni con un atteggiamento terrorizzato; grazie a quei “no” mi sono concentrato su progetti più interessanti, con spazi giusti come Avanzi o la Gialappa’s.
Ecco, Avanzi.
Programma pazzesco e come Broncoviz ci entrammo per caso: eravamo impegnati con la Rai in un Festival; lì porto un personaggio in abiti femminili e, finito lo show, arriva Ornella Vanoni in camerino; (resta zitto) non la conoscevo di persona, eppure esordisce con un “sei stato meraviglioso, vestito così mi hai ricordato Ripa di Meana. Devi continuare”.
E lì?
Con i Broncoviz registriamo una cassetta e la mandiamo a Serena Dandini e lei mi chiama insieme a Bruno Voglino.
Bene.
Sì, ma ero convinto fosse uno scherzo di Carla Signoris quindi li mandai entrambi a fare in culo.
Meno bene.
Dopo aver capito l’errore ci siamo incontrati e ci hanno dato carta bianca: “Girate le vostre cose a Genova”. Lì debutto da regista perché uno di noi cinque doveva piazzarsi dietro la macchina da presa.
I vostri sketch erano molto politici.
Finivamo sulle copertine dei giornali. Anni pazzeschi.
L’impronta politica non è più parte di lei.
Ho capito che quella satira non smuove niente e, anzi, rende familiari e simpatici i personaggi su cui martelli; (pausa) a meno che non ci vai giù pesante.
Urla mai sul set?
Solo una volta con uno scenografo che aveva seguito i suoi desiderata invece delle mie indicazioni. Lì pensai: per una volta concediti la scena da grande regista hollywoodiano.
Lei chi è?
Uno che ha il culo di fare esattamente le stesse cose di quando aveva sei anni.